martedì 31 gennaio 2017

In verità



"In verità sono le persone tragiche e infelici 
a essere musicali".


Thomas Bernhard, da "Un incontro. Conversazioni con Krista Fleischmann".






















lunedì 30 gennaio 2017

Formazione e pulsazione di un racconto



Nella formazione di un racconto, breve o anche medio, mi accorgo che entrano in gioco degli elementi molto diversi rispetto alle distese più ampie di lavori più lunghi. Ieri mattina, concludendo un'ultima revisione per un lavoro da iscrivere a un concorso letterario, mi accorgevo proprio di questo, dell'importanza di particolari molto sottili, una sorta di processo nell'invisibilità delle cose da negare e da dire, dentro i fili nascosti nel tessuto e nei suoi contrasti nella pulsazione. Gli elementi diversi tra lavori lunghi e lavori brevi, spesso risultano dalla sensibilità dello scritto anche a una minima variazione, quel piccolo vacillamento, che avrebbe privato questa pulsazione di una sua linearità e intensità, spostando di molto quel certo assetto appena evocato in una costruzione narrativa in formazione. I particolari sottili e le inquadrature si muovono spesso in un'orbita microscopica, dove l'ingrandimento deve arrotondare e mietere quel senso di pienezza e di unità formale che costituisce poi l'idea del mio intero, del mio senso personale di integrità in quell'esperienza, intero che per ogni tipo di lavoro in cui mi imbatto avrà la sua unicità e le sue regole, spesso diverse l'una dall'altra a seconda del contesto, delle circostanze ma anche del mio mood con cui mi confronto per il tormento di una  possibile perfezione. 
I dubbi, nel decidere di ultimare e di ritenere il racconto centrato in quest'idea – nel senso di unicità che la sostiene – a volte molto personale di rotondità, di sfruttamento e compimento di tutti gli elementi e delle possibilità messe in gioco, sono sempre molto grandi e molto belli. I dubbi in molti casi sono la prima torcia verso il tragico, in altri anche una pericolosa colata di pece bollente sul proprio atto creativo. Dubitare durante il processo di revisione, anche in quello di scrittura – o forse di pre-scrittura, quando la parola è ancora parte di uno spasmo passivo e davvero misterioso in cui va a coniugarsi nella traiettoria di una sua prima luce – è un momento bello e insieme drammatico. Il dubbio è parte del brivido e anche dello scotto a cui uno scrittore deve sottostare ogni volta che rompe il silenzio. Come al giudizio, alle possibili ingiustizie, fallimenti con tutte quelle varianti o frustrazioni che daranno un altro senso a quell'esperienza creativa, una nuova risonanza, oltre a tutti gli altri momenti, significati e risonanze interne, che  lo scrittore ha vissuto e che gli rimarranno e che lo arriccchiranno ugualmente, in alcuni casi anche con un racconto mediocre, che non con un racconto di qualità, anche questo può capitare. Cambiano, specie in una struttura come quella del racconto che ho appena ultimato, di un racconto di circa dieci cartelle, il rapporto tra le certezze e le incertezze, a volte a distanza di minuti, di ore, spesso di giorni o di attimi. Non ho quasi mai le stesse certezze, quasi mai gli stessi dubbi. Muta il contesto della certezza e quello dei dubbi: questo in una fase ancora di controllo del territorio, quando sono in grado di intervenire, e quindi non ho quella sensibilità che spicca invece quando non si ha più modo di avere il controllo diretto sullo spazio mutante del racconto. Sabato sera, fino a tardi, ho revisionato l'ultima bozza, mettendo in discussione molte delle certezze che fino a poche ore prima non mi davano alcuna preoccupazione e che addirittura mi rincuoravano. Adesso quelle sono ripiombate nel vuoto e non esistono più. Ieri mattina ancora delle ultimissime variazioni, ma quando la sostanza che sentivo nella genesi, – intendo nella fase caotica ma pulita del buio fitto, quando non si conosce quale sarà la prima parola, ma si ha nel cuore la risonanza del disegno non ancora tracciato – è arrivata a quel certo equilibrio, allora è stesso il racconto a chiudersi e a negarsi nell'ossessione di un ulteriore intervento, come se esprimesse un rifiuto a essere toccato ulteriormente. Forse per via di quell'economia di pulsazione che avrebbe organizzato e correlato i vari frammenti sparsi della storia. È come quando è arrivato l'attimo, quasi mai pianificato, di mettere la parola fine, di spegnere le luci sulla scena, di salutarsi con gli amici, anche se con una sottile resistenza. Certo, ripensando alla sensibilità esercitata nelle due fasi estreme, quando non si è ancora scritta una sola parola e quando il racconto è già in viaggio e non più controllabile e modificabile, credo che siano le due dove in effetti la mente scrive di più, nelle due zone dell'impossibilità del contatto diretto con la parte chiara dove la parola nera è stata tracciata sul foglio bianco. Quando la scrittura è atto, elemento fattivo, quindi nella fase del getto e delle eventuali diverse revisioni conseguenti, già siamo in fase di trascrizione, di impulsi semmai molto lontani e accumulati da dimensioni emozionali e da esperienze che a volte, ma non sempre, sono molto più antiche della stessa idea di quel racconto e dei suoi ultimi preparativi prima di rompere il silenzio. È l'attimo prima di iniziare quello della grande crisi. Quello della prima parola, responsabile di un fermento molto più lontano e spesso impalpabile a cui prestare l'orecchio, a volte la gola, per continuare a realizzare l'armonia della pulsazione che si è sentita di quel tessuto vivo e a sostenerne quel carico di oscurità e di speranza, dentro il mistero dei suoi crocicchi e delle sue ultime svolte e varianti, sempre sul ciglio rassicurante di un nuovo dirupo.










sabato 28 gennaio 2017

"Giorno d'estate", di Mary Oliver

Mary Oliver


Giorno d'estate

Chi ha fatto il mondo?
Chi ha fatto il cigno e l'orso bruno?
Chi ha fatto la cavalletta?
La cavalletta, dico,
quella che con un salto 
è spuntata dall'erba,
quella che sta mangiando
lo zucchero dalla mia mano
muovendo le mascelle avanti e indietro 
invece che su e giù,
che si guarda intorno 
con i suoi occhi enormi così complessi.
Ecco che solleva i pallidi avambracci
e si lava accuratamente il viso.
Ecco che, 
con un battito delle ali aperte,
si allontana in volo.
Io non so bene
che cosa sia una preghiera.
Ma so osservare con attenzione,
so come lasciarmi cadere nell'erba,
come buttarmi in ginocchio nell'erba
come essere beatamente indolente,
come vagabondare per i campi,
è quello che ho fatto per tutto il giorno.
Dimmi, che cos'altro avrei dovuto fare?
Non è forse vero che ogni cosa muore,
e muore troppo presto?
Dimmi, che cosa pensi di fare
della tua unica folle preziosa vita?

M.Oliver, The House of Light, Beacon Press, Boston 1990
















venerdì 27 gennaio 2017

L'importanza del ricordo




























giovedì 26 gennaio 2017

Se la nebbia


Se la nebbia entrasse di furia dai balconi e raggiungesse dalle finestre socchiuse le anime nel loro sonno e le gole con i loro visi, ingoiando insieme a loro le prime voci della sera, il flusso dei sogni, dei rimpianti, dei dolori? Dalle strade rimarrebbe specchiato quel silenzio lugubre di iniziazione, che ricorda quello sospeso di una classe e di un'intera vita murata dai vetri appannati, quando il dito gelido dell'insegnante scorre sul registro per un'ultima interrogazione. Un silenzio fobico e primordiale, che trema e che tace dentro il nero dei grembiuli, come il tramonto di un grande peccato.























mercoledì 25 gennaio 2017

"Inquietamente". Concorso letterario per racconti inediti






Qui il bando ufficiale del concorso letterario per racconti inediti "Inquietamente", la cui scadenza è fissata per il 15 febbraio 2017. Tema del contest "La paura", nella libera interpretazione di ogni autore. L'iscrizione al concorso è gratuita.































Incipit


"All'improvviso, dietro i monti del valico, 
il sole scomparve".

Silvio D'arzo, dal racconto "Una fasciatura ben fatta".











































martedì 24 gennaio 2017

Spiritus inflat ubi vult




"Certo, se uno ha scritto la Divina Commedia può anche dire:  «Io ho scritto il più bel libro del mondo». E devo riconoscere che, personalmente, se avessi scritto la Divina Commedia non avrei nessuna esitazione a dirlo. Ma non per questo mi sognerei di ritenermi qualcosa di più del cameriere che ci ha serviti poco fa. E questo perché? Perché so perfettamente che spiritus inflat ubi vult, che lo spirito soffia dove e quando vuole. E che chiunque, perciò non solo uno come noi ma anche un genio, può a volte cadere da un momento all'altro in un abisso di sciocchezza che fa di lui una nullità assoluta".

Claudio Magris, da "Comportati come se fossi felice".

















Perfezionamento


La speranza è sempre quella di pensare che domani si farà meglio di oggi e ancora meglio di ieri. Ogni minima, anche fugace verifica, riserva questa possibilità, questo diritto di azzeramento e di rivalsa che solo del tempo aggiunto potrà concederci e che ci spinge a continuare; nel ritrattare in modo diverso il prestito con il proprio affare creativo e la propria identità, per poi risalire il fiume dalla prima parola, semmai dalla prima lettera o anche dalla fine, a ritroso verso una nuova luce usurante, prima del prossimo naufragio o annegamento.
Eppure quanta nebbia in questi propositi di perfezionamento. Tutto, in fondo, potrebbe ricominciare e ritornare a essere meno di quello che invece si sperava, anche nell'apparenza verificabile di un progresso, di una strategia a migliorarsi. Questo è possibile. Un miglioramento solo superficiale potrebbe anche sottrarre e non solo aggiungere qualcosa, ma diventare limitante del suo stesso primato. Semmai disgiungere il contatto fragile con alcune intimità che non trovano nutrimento in un'idea così sofisticata di perfezione, ma che incontrano la loro aria ideale solo in particolari, sgraziate deformità. Forse con la rinuncia a questa speranza plastificata – a volte poco ostinata – a migliorarsi secondo alcuni canoni precostituiti, con l'adattamento alternativo a uno stato ineluttabile e disperante di resa, si potrebbe ancora intravedere lo stesso una minima schiusa. Verificando nel vivo l'abisso inesorabile che si avvera per ogni minimo passo di scrittura, per esempio, al di là dei giorni buoni e cattivi, del proprio talento e del proprio impegno, del proprio stile e del proprio linguaggio, ma come sola e unica certezza assoluta su cui basarsi e disperarsi. Sarà forse questa pinna affilata di squalo, che nereggia nel silenzio della mia vita, una plausibile speranza di perfezionamento?

































lunedì 23 gennaio 2017

Quattro impromptu sul vuoto:


Lambire il vuoto, con un proprio pensiero scritto. Un pensiero essenziato del suo vuoto e che si posa sul vuoto, come l'uccello grigio sul filo della luce. 

In questo tormento di dirsi, questo vuoto che divora il volto.

Scrivere del vuoto e nel vuoto sarà solo concime per il vuoto. È solo in quest'intercapedine che vi si azzarda il senso. Dentro quest'atrio assolato, dove si mischiano i saltelli sulla corda con i fantasmi del bucato, non riemerge un suono vivo dall'abisso.

Dentro il vuoto si ha vantaggio di non correre mai rischio di essere in anticipo o in ritardo. Si trascende, con la propria inesistenza o invisibilità, l'accidente comune del tempo. Si rimane in eterno metamoderni, fino al profondo più azzurro di glaucoma.
















domenica 22 gennaio 2017

"Vento forte tra Lacedonia e Candela: esercizi di paesologia", di Franco Arminio.


Franco Arminio
Nelle feritoie di questo bellissimo libro di Franco Arminio "Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizi di paesologia", acquistato la scorsa settimana a Napoli, nella sua prima edizione 2008, ho respirato un'aria nuova, ma che in fondo mi mancava  da tempo e che ho riconosciuto come qualcosa di caro e di già vissuto. Quell'aria misteriosa che tocca l'umore, quando ventila tra due porte aperte e asciuga i pavimenti appena lavati, o dal buio pesto di un vicolo, come filo di un respiro antico che soffia tra le rovine e dalla cruna fobica del suo ago.
L'aria tersa dell'Irpinia di Arminio mi risuona come territorio e stato controverso dell'anima, essenziato da un coma che ne sospende in alcuni luoghi la vita e la morte in uno strano interregno che le trascende. Ed eroso da quel vento da lupi che irrompe già dal titolo e che accompagna nel suo giogo la falcata sana di un cammino lento e appena ruvido di speranza, di quella speranza difficile ma ancora presente all'appello, anche se dalle segrete di un ultimo banco.
Ogni rintocco di questo viaggio ha dentro di sé la pietrosità della luce cruda sul dirupo, in uno sguardo illuminato di scrittura che va sempre lontano e che trafigge le stesse cose da cui è trafitto, lo stesso impulso dolente e creaturale di resa. E poi, spesso a inizio di ogni capitolo e anche nel mentre della scorsa, affiorano come sprazzi azzurrati di neve queste manciate di versi, nelle trame lunari di paesaggio e dei suoi fantasmi, che risalgono a fatica l'abisso:

Salendo verso la fine del paese
il silenzio è così forte
che si sente assai vicina
la calma della nuvola
che ha partorito la neve
e la nasconde dentro le cantine.
Paese chiuso, seduto sull'osso
dove non cresce neppure la rovina.
Sono venuto qui a pregare
su questo altare
oggi che il vento è così forte
e sparpaglia pure le ossa dei morti
nelle bare.



Franco Arminio, in questi esericizi ispirati di paesologia, ha lavorato a questo affresco con un utilizzo delle parole misurato e prudente, facendo sempre attenzione a non rompere mai l'incanto, ma nemmeno a forzarlo, e a stagionare ogni suo passo dentro quella stessa mota dell'animo e della memoria, dove affiora e poi scompare e riappare il senso – e dissenso – funesto del sacro, di cui si essenzia e insieme si districa questo scenario muto e divorante, sempre così stabile nella poesia e nella disciplina del suo disfacimento. In questo tacere così intenso, la parola svela il tuono del suo fendente e insieme serba il suo segreto crudele, la sua faglia sismica che solca i cuori, i visi degli anziani, le gambe tristi delle ragazze dentro lo spleen soffocante della prima sera.
Mi è difficile scegliere tra i tanti tratti rappresentativi di quest'opera che mi ha così innamorato, così ricolma di saggezza, di storia e di poesia, come di quella sobria delicatezza che alla fine non si dimentica. Ne inserisco un frammento qui di seguito, relativo al capitolo in cui Arminio parla di Castelnuovo di Conza. Lascio con queste parole la sintesi di questo mio piccolo quadro, sperando di averne lasciata incontaminata la sua preziosa risonanza, il palpito chiaro del suo cantus firmus:

"Sto in piazza Umberto I, una piazza senza insegne e senza abitanti. Sarebbe bello stare in questa piazza con una donna, prendere insieme questo silenzio e questo sole. Io trovo questi posti estremamente romantici, credo che non ci siano luoghi migliori per amarsi".















sabato 21 gennaio 2017

L'architettura della tensione e il tocco sulla vita


Nell'abbandono alla stesura di lavori lunghi di narrativa, soprattutto quando mi decido a considerare chiuso l'impianto, esistono sempre degli attriti che vengono fuori a distanza e che mi tormentano, a volte come lo sfregamento di un'unghia sul vetro di una finestra. Fra quelli principali l'ostacolo a una certa fluidità di linguaggio, del mio linguaggio, alla tensione e all'uniformità di una certa rispettiva tensione, che preservi il lavoro da picchi improvvisi come dalla melma delle sabbie mobili. Una sorta di compromesso politico-storico tra gli eccessi. La scrittura è sempre un'attività che si muove nel bilico e nelle tenebre più fitte; la viscosità delle sabbie mobili è sempre in agguato, per quello che ho avuto modo di constatare nelle mie verifiche post-revisione. L'esigenza di una certa tensione da preservare nell'architettura e nella forma di un progetto, la avverto in relazione alla necessità di armonizzare i vari strati dell'opera in un certo magma pulsante, ma che abbia sempre una sua pronuncia occulta e coerente nell'espansione, nei suoi accenti che ritornano, nella scelta dei suoi incroci, nelle sue diramazioni dinamiche, come nelle sue stasi più feeriche o meditative. Un senso di chiarezza che nasce da tanti elementi correlati in un'ortodossia, che hanno a che fare con il ritmo, ma anche con il respiro, con la scelta dei silenzi, insomma con tutte le coordinate emozionali e sintattiche che in qualche modo devono comunicare e interrelarsi in una composizione. Un pendolo interno, che scandisca senza imprigionare il tempo più o meno immaginario di quella vita, ma che sancisca delle regole severe di base, pur nella personalizzazione e nello spazio misterioso di un proprio universo creativo, allo stesso modo dei rintocchi delle ore di un giorno da un campanile di un piccolo centro. Credo che la più grande libertà nell'esprimersi sia farlo nell'identificazione di un proprio assetto formale, nella ricerca accurata di una limitazione congegnata a restringere, a rispettare determinati confini, per poter diversificare non solo la grandezza delle distanze, ma soprattutto la qualità fondamentale di un orizzonte. 
L'abisso più spaventoso, quando mi immergo con tutto me stesso in un lavoro di scrittura, è preservare l'autenticità dell'intento con una struttura armoniosa, che abbia un'impalcatura stabile e non casuale, con dentro dei diktat ben precisi, orientati però a dare luce e a ventilare le mie stanze, e mai a soffocarle. Esiste sempre un demonio matematico in ogni passaggio, anche nel più inconsapevole è necessario un sostrato con una sua stabilità. Credo che dalla ricerca accurata di una tessitura, si possa realizzare un senso di scrittura, ma anche delineare uno scrittore per quelle che sono le sue responsabilità principali, il suo valore e le sue caratteristiche. Lo scrivere a caso, per esempio – cosa ben diversa dall'abbandonarsi ai misteri di una narrazione senza sapere quello che accadrà: questa è una delle cose più affascinanti quando si scrive – è quell'atteggiamento di superficialità nei confronti delle proprie scelte, dei propri passaggi, che denota una mancanza di riflessione e di sensibilità. Anche uno studente di pianoforte dei primi anni conoscerà le regole fondamentali della tecnica, avrà e starà esercitando la lettura delle note, la conoscenza degli accordi fondamentali, delle forme musicali, la magia del tocco, nei suoi primi o secondi passi. Quegli esercizi noiosi e quotidiani, saranno il concime per il respiro futuro delle sue esecuzioni, dove ci si augura che lo studente non pesterà mai sui tasti a caso, ma si muoverà in una determinata traiettoria. Perché lo scrivere, a volte, lo si considera come un universo a parte, regolato spesso dalla sola ispirazione, dal sentimentalismo di un momento fortunato, incoraggiati dal fatto di aver scritto sempre dei bei temi alle medie, ignorando che vigono le stesse regole che lo studente di pianoforte deve affrontare e patire, prima di trovare la sua libertà, il suo cuore, il giusto respiro dell'esecuzione? Lo scrittore che esegue senza respiro, spesso è un pianista che pesta, che strilla e che non lega bene i suoni. Scrivere bene è come per un pianista cercare il suo legato, il suo tocco sulla vita segreta dei suoni, che è una delle cose più difficili per uno strumento a corde percosse. Anche la scrittura è uno strumento a corde percosse. Anche la scrittura ha i suoi precipizi, i suoi ostacoli, i suoi tasti neri e le sue regole tonali. Anche la scrittura necessita di un certo tocco sulla vita.
Il pericolo, quando scrivendo non si affronta ancora il quadro d'insieme nella sua ampiezza e ariosità, è quello di attorcigliarsi in fermenti linguistici che distanziano dall'uniformità, quindi da quella certa tensione o ritmica che sottende un'unità formale definita, al compimento di un oggetto estetico, che contempli a suo modo una sua idea di ordine, pur nelle stravaganze del regime apparente di puro caos. Le sabbie mobili a volte consistono nell'utilizzare dei vezzi, delle particolari progressioni, avvertendole parti vitali di una certa espressività astratta, senza accorgersi che in diversi casi scompaginano e affossano l'equilibrio di una certa sezione e quindi di un insieme, rendendo più muto e più sterile degli altri quel pezzo di paradiso emozionale nel quale ci si credeva graziati da chissà quale rivelazione. Il controllo consapevole del gesto, dello slancio, avviene sempre a una certa distanza temporale dal primo o dai primi getti, e con un occhiale più attento ma anche più freddo, che spesso denota quanto la parsimonia e la semplicità, nella scelta e nella ricerca di una singola parola, apportino molta più energia, nutrimento sensibile ed equilibrio, di tanti apparenti slanci di lirismo o di spianate baroccheggianti, che a volte, senza una linea di condotta, potrebbero rappresentare davvero l'inizio della fine. Il gorgoglio viscoso delle sabbie mobili. Quest'analisi è frutto di alcune mie personalissime osservazioni individuate durante la mia pratica di scrittura, dove la viscosità di solito è sorta da un desiderio di alzare la voce per sentirmi più vivo e vibrante nella narrazione, per arrivare prima, o per forzare l'illuminazione del momento narrante e del mio ambiente creativo, dimenticando una differenza sostanziale che è quella che si frappone tra il volume e l'intensità. Qualcosa di elementare, che a volte potrebbe sfuggire, ma che come tutte le piccole cose ha il suo grande peso. Come lo ha quell'inafferabile legato, per il nostro giovane pianista di poco fa e per il suo tocco sulla vita:





































venerdì 20 gennaio 2017

Un'intervista da "Storie" a Carlo Mazzacurati





Atlante orientale: intervista di Stefano Stringini a Carlo Mazzacurati, – regista scomparso nel gennaio del 2014 – dalla rivista internazionale di cultura "Storie".
































mercoledì 18 gennaio 2017

Squarcio prospettico



"Mai il mondo mi è apparso più minaccioso e offensivo che da una vetta alpina".

Thomas Bernhard, da "Goethe muore".


















martedì 17 gennaio 2017

L'errore fondamentale




"Gli errori che saltano agli occhi in un'opera, o anche che semplicemente si vedono, sono, appunto perché tali, facilmente rimediabili, e non contano. Conta l'errore fondamentale, la visuale sbagliata, che informa di sé specialmente le parti neutre corrette, e di qui va individuato e stanato; il che torna come dire che esso è irrimediabile, a meno di distruggere l'opera. I nèi visibili tutt'al più servono da indicatori di quel che c'è sotto".

Cesare Pavese, da "Il mestiere di vivere".



















lunedì 16 gennaio 2017

Letteratura e giudizio estetico condizionato. Da Mann a Bernhard e Marías

Mi accorgo di quanto sia difficile porsi in modo obiettivo di fronte a un'esperienza artistica, diciamo anche creativa, sia dalla prospettiva di chi ne sia l'artefice, che di chi ne fruisca i contenuti, l'eventuale nutrimento – nella scrittura e nella lettura avverto un comune intento creativo: chi scrive e chi legge completano, in quell'incontro, un tratto comune e interattivo esperienziale complesso. Ritornando all'obiettività, mi accorgo dei condizionamenti che ci legano ad amare ciò che amiamo e ad allontanare se non ad odiare, in diversi casi, ciò che non ci arriva e non ci cattura subito o, ancora peggio, non ci intrattiene e non risulta adeguatamente appetibile, come se solo in quel godimento e in quell'appetibilità fosse custodito il suo valore. O come spesso anche accade con un'ideologia, con un credo assimilato come latte nelle pareti domestiche, che si assorbe e si calcifica perché parte condivisa, quasi lineamento comune tra persone che abbiamo amato, nelle quali sentiamo di credere e che a volte ci convincono della giustezza di alcune o di gran parte delle loro scelte in materia di politica, di etica o di letteratura e del loro intrinseco valore assoluto, come se avessero una garanzia di validità e di assoluto per il solo fatto che appartengano al loro e nostro mondo e non a quello degli altri. 
Mio padre considerava Thomas Mann un grandissimo scrittore. Uno dei più grandi e "La montagna incantata" uno dei più bei romanzi mai scritti. Il miglior romanzo mai scritto, ricordo ancora il suono caldo della sua voce quando ne parlava. Ho amato molto Thomas Mann e "La montagna incantata" anche perché ho amato molto mio padre; per la profonda nostalgia di quel grande amore. Ma col tempo e attraverso una maturazione precisa di un certo orecchio e di una certa esperienza, anche molte diramazioni di amori letterari importanti, si sono fusi nella saliva del mio gusto e della mia interiorità con la convinzione che vivessero di una loro grandezza autentica e indipendente dall'evocazione del loro amore, della loro efficacia o della loro presa, ma quindi per qualcosa che trascendesse il fatto che fossero opere o scrittori amati da mio padre o che mi avessero avvinto e convinto per quel determinato amore incondizionato e profondo, ma perché avevano in sé quella sorta di luce vera – questa la inserisco come citazione "clandestina" bertolucciana – di una loro intrinseca verità autonoma superiore, che non sempre potrà essere discutibile o ritenersi valida per il solo fatto che rientri in certi canoni o parametri numerici e popolari di consenso o di gusto personali, o che appartenga a certi credo o vincoli consanguinei più o meno autorevoli, come nel mio caso di poco sopra. (Aggiungo che lo stesso discorso potrebbe valere per chi fa esattamente il contrario: odiando, in letteratura, tutto ciò che è stato profondamente amato dalle persone importanti della propria vita.)
Se qualcosa non arriva fino a noi è anche perché forse non siamo ancora pronti per quella qualità di amore o rapimento e non perché l'opera in questione vacilli. Questo potrebbe avvenire in certe situazioni, ma non accade di sicuro in determinate altre. Se qualcuno non ama "La Recherce" di Proust, ma anche una miriade di testimonianze contemporanee, in materia di narrativa penso a "Estinzione", ad "Amras" o  "Perturbamento" di Thomas Bernhard, a "Domani nella battaglia pensa a me"di Marías, il problema non sarà mai legato a queste opere o a una loro possibile imperfezione di sorta. Di questo ne sono certo. Anche se diversi lavori non avranno mai l'universalità per prendere tutti allo stesso modo e quindi per essere amati, c'è da dire che non era soltanto quella la loro funzione primaria e nemmeno sarà la controprova di un loro valore intrinseco e universale, riconosciuto in diversi casi da fonti autorevoli e attendibili (riguardo Marías penso a Pietro Citati, il quale considera, non a caso, "Domani nella battaglia pensa a me" uno dei più grandi romanzi contemporanei, credo il più grande romanzo contemporaneo mai scritto). Ci sono cose grandissime che mi arriveranno con ritardo o che non mi arriveranno mai, ma la cui grandezza non sarà minimamente scalfita da questa mia resistenza o freddezza alle loro fiammate. Allo stesso modo sentirò di difendere a spada tratta l'universalità di tantissime opere e scrittori, al di là del grande amore che provo per loro, che non sarà mai una prova della loro grandezza, ma solo un lieve accidente. Sono e saranno grandi comunque, al di là di quanto siano stati avvertiti tali. Anche per chi non li avrà letti e non li avrà amati. Soprattutto, direi.  In diversi grandi casi, non tanto rari, è e sarà così. Secondo me.











 
























domenica 15 gennaio 2017

Caro Za



                                                                          [primavera 1933]

Caro Za,
la ringrazio della gentilissima lettera, e mi scuso per il ritardo. La campagna è bella intorno a me, ma io la posso guardare appena. Studio sconsolatamente. Non riesco a pensare alla morte, la vita mi attrae ma mi sento timido di una timidezza profonda, che anzi esteriormente mi comporto abbastanza bene. Ho delle poesie nuove, poche, ma semplici e sincere; fra queste e altre più vecchie ne avrò una trentina: a leggerle in fila mi commuovo, perché non mi sembrano mie, e nello stesso tempo vedo che la parte migliore di me vi si deposita. Mi piacerebbe farne un librino da mettere vicino a Sirio, che è più giovane ma più virtuoso e meno sentimentale. Allora mi vedrei un po' bene. Aspettiamo l'umanista al varco, Campanile è in completa decadenza, di altri non ne esistono. Timpanaro m'ha scritto una letterona simpatica. "L'Italiano" è bello, ma è un po' un giornale umoristico. La "Fiera" è grigia e polverosa. Ha quella vecchiaia triste e precoce di certe villette di due o tre anni fa. Tutto è odiosamente letteratura di 2° ordine. Importa scrivere dei bei libri, godere un po' la vita e basta.
Le scriverò più a lungo.
Un abbraccio    
 tuo Attilio                                                                                        

Lettera manoscritta di Attilio Bertolucci a Cesare Zavattini, dal carteggio 1929-1984: "Un'amicizia lunga una vita". Mup editore. 2004




















sabato 14 gennaio 2017

Gli attimi di silenzio


Gli attimi di silenzio, in certe ore del mattino del sabato, appaiono interrogativi. Si dilatano come lampade misteriose, alle quali si vorrebbe rispondere; ma dove vi è sempre qualcosa che impedisce una risposta, una sorta di bavaglio sul paralume. Lo stesso silenzio, come questo mattutino del sabato, impedisce il completamento della domanda, la sua risoluzione nell'armonia, il segno fermo della sua diagonale religiosa. Una domanda composta attenderebbe una risposta altrettanto composta, quanto un accordo sospeso in una cadenza piccarda. Ma i frammenti interrogativi di questi attimi appena imbavagliati del sabato, non possono fare altro che dilatarsi in risposte frammentarie e altrettanto silenziose. Nell'incontro muto di questi flussi spesso si nasconde un movente che porta a rompere lo stesso silenzio. A concedersi al lutto della parola scritta. Per creare una certa connessione tra quello che il silenzio interroga e tra quello che lo stesso silenzio risponde o sottende alla missione di una possibile risposta. A volte basterebbe un suono, anche un solo fruscio, per interrompere questa comunicazione così violenta, pur se fatta di assenze e di risonanze invisibili. Dentro di me, quando scrivo, accade sempre qualcosa che ha a che fare con la voragine del silenzio, con quanto valga la pena davvero di sporcarla, di infrangerne la nettezza dei bordi, la purezza cattolica nel bianco del suo muro. Eppure è solo da questa grana minuziosa che posso partire in una mia direzione. Attraverso la follia del disordine rimpaginare l'esattezza del gelo. Da qualcosa di trattenuto, di oscuro, potrò forse avventurarmi nella luce fredda dell'inverno, come in una cavalcata polverosa di neve slanciata di furia dentro di me. Ma tra poco il mattino di questo sabato sarà più maturo. I passi dal piano di sopra diventeranno delle nuovi voci, molto più concrete dei frammenti di domande e di risposte inesplose che si sono avvicendate, nella loro forza come nel loro riserbo, in questo primo mattino. Ancora qualche minuto e ascolterò l'accensione dei motori dai garage, lo scroscio delle tapparelle, il tintinnio delle tazzine. E questo mattino ritornerà convenzionale, pur nel suo fobico disegno cittadino. A volte è davvero una questione di istanti. Scrivere qualcosa un attimo dopo un certo impulso, quando è ormai già passato e quindi anziano, non sarà mai più lo stesso. Ed è in questa lotta misteriosa contro il tempo e con il suo silenzio, che preferisco scrivere e poi tacerne. Come ombra di questo giorno e di questo nuovo sabato in chiaro, con dentro l'azzurro di un muro del Vomero, l'alone di rossetto sul bicchiere, l'insegna romantica di Gay-Odin in controluce. E raccontare. Ancora: ma tacendone sempre di più. Come se tutta la mia vita respirasse nell'alba tersa di un inverno in sordina.