lunedì 24 ottobre 2016

La letteratura vuole così


Il poeta Guido Gozzano

"L'avrà notato anche Lei. Ci si commuove di più, si è quasi più indulgenti di benevolenza pietosa alle vicende di un adulterio che non alle fortune di un idillio verginale. La letteratura vuole così: è la letteratura quella che foggia la vita".

Guido Gozzano, Amalia Guglielminetti. Lettere d'amore.
















domenica 23 ottobre 2016

"The classmate": un estratto dello screenplay nella traduzione inglese


Con grande emozione stiamo ormai completando l'allineamento e la revisione dei sottotitoli inglesi del progetto "La compagna di classe" (The classmate).
Leggere e percepire le sonorità della storia con i dialoghi tradotti in un'altra lingua mi ha molto impressionato. Le suggestioni e il tocco immediato dell'inglese sono stati una scoperta felice per il testo, che mi ha ricondotto anche alla genesi del sentimento creativo, allineandolo in una nuova prospettiva, che gli ha apportato nuove profondità e risonanze. Altri fondali, forse.
Ecco un estratto dalla mia sceneggiatura originale (The classmate) nella versione inglese, tradotta da Massimiliano Antonioli.

ADELE: [...] You sound like me when i write, you know? Sometimes in Greece i wrote some things very weird and confused, when coming back home,  after i had a long walk, alone. Then i gave up and started writing for a long time, like a witch. I always wrote at night, laying on the bed.
Something like...the light of the greek sea embodies the voice of the dead. When i was alone, i thought i could be involved all of them, or maybe it was their love, that i could feel beating inside me, like the wind...or like...this sad and distant part of you.

NIK: Do you keep dreaming when you talk to me?

ADELE: Do you think it's a dream talking to me on the phone?

NIK: I don't know. Now i feel someone else... Someone i've never been. [...]

Luigi Salerno 
estratto da lo screenplay "La compagna di classe"(The classmate) Soggetto e sceneggiatura originale depositati presso la SGAE: Sociedad General de Autores y Editores Fernando VI,4 28004 Madrid.















mercoledì 19 ottobre 2016

Il valore e l'affetto


Ci si accorge di solito del proprio valore artistico per circostanze. Per un caso. Di solito sempre all'interno di cerchie ristrette, dove si è valutati non per le proprie capacità, ma per tanto altro. Quelle cerchie dove i rapporti si reggono su dinamiche affettive e dove il sentirsi eletti o amati in questa elezione è una condizione a prescindere dal resto, da quello che mi riesce, di cui sono capace.  Da quel resto che riguarda il proprio valore altro, quello che in alcuni casi vorremmo che ci rappresentasse anche quando non cambierà nulla dell'affetto che abbiamo e che spesso mettiamo in gioco come merce di scambio quando ci si esprime. Intanto sono proprio gli ambienti degli amici, dei familiari, dove si giocano i primi riflessi del valore più o meno artistico e dove si ottengono le prime conferme, i primi sintomi di un certo talento o di quello che sia. Quel riconoscimento di essere capaci, che in diversi casi o viene esaltato o, al contrario, del tutto ignorato se non ostacolato. In genere il valore artistico di un individuo non potrà non tener conto di questo passaggio obbligato: il riconoscimento, nel magma degli affetti profondi, con tutte le possibili varianti e contrasti del caso.  
Saranno davvero attendibili questi riscontri? O forse l'affetto potrebbe alterare una capacità o un valore che riscontrato in un personaggio estraneo a noi potrebbe non dire nulla? Quanto è difficile essere centrati in una dimensione stabile, dove il proprio gesto creativo non sia una rivalsa e nemmeno una carezza? Un colpo contro qualcuno che ti ha ignorato o un abbraccio verso qualcun altro che ti ha esaltato, ma una semplice espansione di una parte profonda che vuole semplicemente affiorare? O anche di una parte superficiale che vuole sprofondare in un suo abisso?
Eppure la condivisione di un proprio lavoro, al di fuori della cerchia degli affetti, incontrerà quasi sempre le luci incerte di un bosco. In diversi casi le tenebre, l'impermanenza, la distrazione, l'arroganza, l'incompetenza o al contrario la troppa conoscenza e supponenza che di solito condanna chi conosce troppo, oltre il dovuto e in diversi casi rimane ugualmente inattendibile quanto il giudizio di parte di un genitore o di un amico importante. E questi numeri collezionati dagli estranei, quelli che non sono nella cerchia affettiva, con questi comportamenti schiacciano e provocano nostalgie. Nostalgie delle cerchie ristrette dove il proprio valore era dato per scontato, per quegli elementi di accoglienza incondizionata che non lo riguardavano. 
Oltrepassare questo confine e riuscire a raggiungere un perfetto estraneo con la stessa intensità di un familiare o di un amico, è una conferma che qualcosa davvero funzioni. Quando si avverte l'affetto, come riscontro di un gesto artistico, anche in coloro che non ti sono legati da dinamiche prettamente affettive, e dove il sentirsi eletti non è per niente una condizione che prescinde dal resto, è un segnale importante quanto raro. In questo segnale vi è un approccio puro, senza interferenze di sorta.
Quando accade qualcosa del genere, allora forse qualcosa resiste all'incombenza di quel gelo nemico.  E vale la pena di incoraggiarlo.


















martedì 18 ottobre 2016

Un accento sul senso del raccontare


David Grossman

Sì, questo passaggio così particolare, che ho letto per la prima volta ieri sera, lo sento davvero un accento, un accento acuto su qualche cosa che ho sempre pensato vera e che mi è ritornata, come conferma di questa mia verità. Potrebbe apparire singolare come interpretazione, eppure la sento molto vicina alla mia sensazione dell'essere creativi e di quello che rappresenti.
Si tratta di un passaggio da "Vedi alla voce: amore" di David Grossman:

"Non riesco a capire perché non puoi scrivere in modo umanamente comprensibile... Ma perché non pensi un poco al tuo povero lettore?", lo scrittore gli rispose, e la sua voce aveva un certo eccitato tono d'orgoglio: "Io, solo a me stesso racconto questa storia... imperocché desso è l'importante insegnamento da me appreso qui, Herr Niegel, e durante tutta la mia intera vita non ero riuscito ad acquisirmi tal dottrina, ma ora ben so che dessa è l'unica via, se infatti si vuole creare qualcosa. Qualcosa che sia una vera creazione, vale a dire. Così è: ma solo per me".











sabato 15 ottobre 2016

"La città vuota": lunga scorsa sull'ultimo shooting


















































venerdì 14 ottobre 2016

Quanto più scrivo



"Quanto più scrivo, tanto più capisco ciò che gli altri cercano di dirmi nei loro libri. Quanto più scrivo e tanto più divento tollerante nei riguardi dei miei colleghi scrittori. (Non parlo dei «cattivi scrittori», perché con loro mi rifiuto di aver a che fare.) Ma con quelli che sono sinceri, con coloro che lottano onestamente per esprimersi, sono assai più malleabile e comprensivo che non ai tempi in cui non avevo scritto ancora un libro. Anche lo scrittore più modesto può insegnarmi qualcosa, purché abbia fatto del suo meglio. Ho invero appreso molto da certi scrittori «modesti». Leggendo le loro opere sono stato colpito più volte da quella libertà e da quell'audacia che è quasi impossibile riacquistare una volta che ci si sia «aggiogati», una volta che ci si sia resi conto delle leggi e dei limiti del proprio mezzo espressivo. Ma è leggendo i propri autori prediletti che si diviene supremamente coscienti del valore del praticare l'arte dello scrivere. Si legge allora con l'occhio destro e con quello sinistro. Senza che la pura gioia della lettura diminuisca minimamente, ci si rende conto di un meraviglioso intensificarsi della coscienza."

Henry Miller. "I libri nella mia vita".























giovedì 13 ottobre 2016

Nel silenzio puro degli abeti



Tacere significa ascoltare e anche ascoltarsi. E crea intorno un'idea di spazio, difficile da esprimere. Uno spazio ideale, non classificabile. Quello a cui penso a volte riguardo alla mia ricerca creativa, ha un altro sapore, un altro tempo, rispetto agli spazi previsti e a volte ambiti per condividere i frutti di un percorso. Un tempo dove esserci con il mio tacere, senza spingere, pressare o fare ombra, quindi senza troppa voce. L'ombra più bella è quella degli alberi, degli abeti, quando ci si raccoglie nella scrittura, che sia il mattino presto o l'imbrunire o la notte fonda, non cambia. Vorrei che le mie parole riuscissero a esprimerlo. È quello il mio obiettivo, la mia idea interna di spazio, non una piattaforma di lancio.
Uno spazio deve aprire non circoscrivere. Non penso alle radici della mia scrittura come a quelle di un bonsai. Lo spazio ideale dove inserire una mia idea, che avrei considerato condivisibile, non andrebbe mai misurato nel termine dei riscontri numerici e quindi della sua vastità in materia di piattaforme, che in fondo non fanno altro che circoscrivere le mie condizioni creative per i diktat di un mondo astratto e distratto da troppa offerta, trascinando me e la mia immaginazione, dalla fiancata di un monte al vasetto di un bonsai. La vastità deve essere interna al mondo misterioso di uno scritto e non esterna. Non ho mai pensato a misurare le mie idee creative in relazione ai tipi di spazi e nello stesso modo non credo che misurerò mai gli spazi in base a criteri quantitativi, che spesso si muovono in direzioni oscure, imprevedibili. Da cui un non incentrarmi sulla strategia, come appendice naturale dello scrivere, come occupazione essenziale, rispetto alla quale le parole diventerebbero solo l'orpello, il pretesto per raggiungere numero, consensi, pubblico: l'unica strategia che mi riguarda è allineata alla qualità della mia idea, o meglio a quello che al momento avverto come fattore qualitativo da sviluppare al massimo per recuperare l'intensità dell'impulso, restituendolo a tutta la densità con cui premeva quando era ancora al buio di me.
E già questo richiede un impegno considerevole, per fronteggiare tutti i contrasti e le cose che non tornano. Quella certa fluidità del discorso, per esempio, come mi è successo giusto questa mattina, rileggendo alcune pagine di un mio romanzo piuttosto  lungo, dove non riconoscevo tutto quello che della sua struttura mi rassicurava in estate, quindi un paio di mesetti fa. Gli stessi passaggi sembravano oppressi da un peso aggiunto, che a metà luglio era del tutto inesistente, almeno per i miei occhi e per le mie spalle di allora. Potrebbe dipendere dall'autunno, dalla qualità della luce, possibile, ma questo è solo per dire che non riuscirò mai a concentrarmi su quali siano gli spazi adeguati – se non prestigiosi – di condivisione di un mio testo, dal momento che lo spazio reale del mio testo è tutto quello che vi ho concentrato al suo interno, e che mi rimane al momento con tutta la sua vastità di penombra e di mistero; con i suoi demoni, le sue trappole, le sue strettoie improvvise e i suoi stafilococchi. Anche prendere la stessa curva che credevo facile, qualche mese prima, nello stesso identico punto, risulta in seguito, a distanza di poco, molto più arduo. Considerando che potrebbe aver piovuto forte, nel frattempo e che la presa degli pneumatici non potrebbe rispondere nell'aderenza allo stesso modo di come avveniva prima, ad asfalto asciutto e soleggiato. Il tutto che si legge e si riscrive e che poi si rilegge muta in continuazione, dentro e attraverso di me, come mutano le cose del mondo, di continuo, nella stessa inestinguibile impermanenza. Lo stesso avverrà negli occhi degli altri, degli ipotetici destinatari e quel controllo, che io mi illudo di poter ancora esercitare su di uno scritto lungo, nello studio di una sua traiettoria, non sarà quasi mai attuabile e non vedrà mai uno stadio di appagamento, perché le sensazioni continueranno a modulare da ambo le prospettive, quelle dei miei occhi, che sono convinti di muoversi e di sentire come si muovono e come sentono gli occhi degli altri, quando nella realtà non è mai così. Sono sempre in ottima fede e in ottima forma quando comincio. Il mondo sembra in attesa del mio primo tocco. La pagina bianca, pulita e luminosa, attende di essere riempita con la dovuta pazienza, dove stavolta farò tesoro di tutto quello che non ha funzionato prima, che non è andato perché non suonava come avrebbe dovuto. Prima, mi dico scorrendo tra le frasi ancora fresche, ero all'oscuro di questi elementi di ingombro, adesso sono consapevole di quello che devo fare perché ho maturato diversi aspetti importanti. E quindi procedo, convinto che quando avverrà il controllo a distanza, questo testo apparirà più organico. E invece puntualmente, anche se ho sistemato alcuni aspetti, le distanze con l'ideale di assetto del momento in cui io confronto, sono sempre abissali. C'è sempre qualcosa da fare, da riassestare – la migliore sarebbe davvero lasciar perdere o dare tutto alle fiamme, liberandomi dall'incubo. Ecco che cosa è la scrittura. Un mondo infernale, dove le preoccupazioni le concentro solo all'interno di queste dinamiche, di questi assestamenti infiniti, per qualcosa che potrebbe non trovare mai la sua forma ideale.
La creatività rimane un processo doloroso e illusorio. È tutto questo il suo fascino: la bellezza del dolore che interessa il percorso. Un esercizio dove la frustrazione e l'esaltazione sono vicinissime; spesso si alternano a distanze impercettibili e chi scrive non sa più chi sia e dove si trovi e neanche che senso abbia questa fatica e questo ardore profusi nel nulla, con tutti gli elementi contrari, a partire dalle stesse parole, che a distanza di poco sembrano essersi spostate come insetti e non essere più quelle che sembravano prima. E anche per chi legge: quasi sempre è certo che in quello scritto vi sia davvero quello che conta e che in fondo cercava e già conosceva, il tutto con un fare tiepido, di accondiscendenza a un lavoretto ben fatto, prevedibile e rassicurante, ma fino a quando non accade qualcosa di inatteso, che cambia tutto. Un imprevisto. In questo imprevisto, che lo scrittore non ha calcolato coscientemente, e che il lettore allo stesso modo non immaginava, inizia la sintonia. L'intesa con tutto il suo divenire. Se non avviene nemmeno per un istante un imprevisto, in relazione a quello che si credeva di sentire e che ci si aspettava, la relazione sarà fallita per sempre. In partenza. Fa parte del gioco. Nessuno spazio o mercato di sorta preserverà mai nessuno dall'imprevisto che l'alchimia di un certo linguaggio possa creare alle spalle dello scrittore come del lettore. Entrambi vittime di altri equilibri, che tramano un loro delirio alle loro spalle.
La consapevolezza di un valore è un processo infinito, che richiede tutta la mia anima. È importante rimanere in contatto con la profonda sostanza di questa esperienza, senza disperdersi con i meccanismi di marketing, con la fame di presenziare, di partecipare al banchetto cercando la migliore luce, che non spari ma che non mostri nemmeno le rughe. La luce di chi scrive è nel suo buio. Oggi scrivono tutti e quindi non scrive nessuno. Difficile incontrare qualcuno che non sia convinto di avere delle inclinazioni spiccate per la scrittura e che non voglia provarci sul serio. Non voglia buttarsi nella scrittura, non dico  nelle sue fiamme, ma nella possibilità che la scrittura possa offrire, per quanto sia un mezzo espressivo piuttosto immediato e innocuo, alla portata di tutti, almeno rispetto a un Bösendorfer. Fingiamo che io scriva narrativa non di genere. Una narrativa quindi molto contemporanea, per esempio. In alcuni momenti la contemporaneità della mia scrittura si svincola dal mio tempo e lo trascende, in una sorta di metacontemporanietà piuttosto sfrenata e refrattaria a una categoria che ogni prodotto che si rispetti dovrebbe contemplare per sopravvivere. Individuare un mercato preciso, un ascolto per qualcosa di così indefinito o comunque pieno di tante categorie e sottocategorie infinite è come giocare ai bussolotti, signori. Né più né meno. Una sorta di azzardo, di salto nel vuoto. Non ho mai pensato all'estensione di un mio pensiero in uno spazio rassicurante di consensi, ma alla comunicazione relata e profonda con quella che è la mia storia, con tutti i miei trascorsi e le mie condizioni del momento che mi hanno trascinato in questa follia, forse contro la mia volontà. Ma non mi sognerò mai di dedicarmi all'esplorazione di un territorio di mercato partendo da me, dal mio posto di questo istante, dal momento che questi elementi non sarò mai io a influenzarli, ma strade del tutto imprevedibili, incontri, circostanze, che non hanno nulla a che vedere con quel mio testo e con quella mia esperienza, che rimane qualcosa di vivo, poco intrappolabile in una vetrina. Nella mia scrittura la creazione e la soppressione si alternano.  Il flusso è terrificante. Come potrei dedicarmi ad altro se non a trovare un minimo di equilibrio in questi contrasti? Non mi interessano i numeri, grandi o piccoli. Non mi interessa la mia persona da nutrire con questo esercizio, ma solo il risucchio della sostanza creativa quando entra in contatto con l'aria, con la contemporaneità che la mia narrativa insegue, ma dalla quale è sempre preceduta, quindi combattuta e collassata. Il mio tempo esploso surclassa l'immaginazione. Ma allo stesso tempo la mia immaginazione trascende il vincolo della contemporaneità della mia narrativa e quindi i dettami rigidi di una sua collocazione, che forse non ci sarà mai. Non credo che la contemporaneità di un mio pensiero, di una mia frase, possa essere inquadrata in una dimensione stabile. Ma rimane fluttuante, vaga, forse avvertirò da solo da dove proviene quel certo pensiero. Forse da una ruota panoramica, che gira e rigira in un luna park o da un cassonetto di rifiuti, dove una donna che mi è di spalle e ben vestita sta raspando il suo dolore. Questi scenari non mi vincolano a un certo luogo, ma mi costringono a rievocarne risonanze e mistero, senza rete.
Quale spazio ideale potrei mai auspicarmi all'interno di un processo così oscuro? Chi sarò mai io per pretendere e chiedere attenzione, ascolto e quindi spazio, se non sarò del tutto sprofondato nelle ombre fitte del mio linguaggio, dimenticandomi di tutto il resto, del superfluo ma soprattutto dell'illusoria stabilità con cui immagino ancora tutto il resto? Dovrei dimenticare di esistere, ma rimanere avvinghiato nel labirinto del telaio e mutare di continuo con lui. Questo deve essere il mio primo pensiero. Il resto sarà secondario, non dico trascurabile, ma secondario. Lo spazio della mia narrativa, o presunta tale, con tutte le possibili contraddizioni della sua contemporaneità, non riguarda il presente della mia apnea. Trattasi di un'altra aria, respirata in altri fondali, dove le anime avranno la meglio sui numeri, sui calcoli, sulle strategie, a favore della bellezza di quel solo istante, dove ti accorgi di essere arrivato, senza prove o attestati di questo traguardo interno. Anche in un luogo vicinissimo, ma a una profondità che ti rimette al mondo e che è la stessa da cui attingo e cerco di attingere il materiale per dare spazio e vigore ai miei pensieri per caldeggiare il mio inferno. Per renderli vivi nella loro immateriale funzione di rimettermi al mondo, in ogni istante una regione nuova e inesplorata, dove respirare fuoco ma anche aria fiammata di mare, perché no. Aria di uragani, ma comunque di speranza e di mare. Non altro che sprofondare in questa nuova aria, dove fraseggio la tempesta della mia libertà ma senza volere cambiare un solo attimo della sensazione di purezza che una frase ben scritta potrà mai regalarmi. È questo lo spazio della mia scrittura. Incondizionato e fatto di aria. È tutto quello che ho. La mia casa bianca e immersa in una luce di neve e di mare. Nel silenzio puro degli abeti.











mercoledì 12 ottobre 2016

Appetibilità e nutrimento



Appetibilità e nutrimento. Potrebbero coesistere in un'opera letteraria, ma anche essere distanti.
Certo, almeno in questi ultimi tempi, avverto una predisposizione marcata all'appetibilità. Il fattore cruciale, che a volte è considerato più importante ancora del nutrimento anche perché ci si nutre di cose o di opere appetibili. Senza l'appetibilità non vi sarebbe contatto e quindi non avverrebbe mai il processo vitale successivo all'annusamento, all'assaggio, che porterebbe poi alla suzione. L'appetibilità per molti è il nucleo per resistere ed esistere, come fibra linguistica. Essere appetibili non solo come linguaggio, ma anche come sistema e contesto all'interno del quale il linguaggio dovrebbe muoversi. Le sue coordinate dovrebbero rispettare alcuni codici precisi. Il palato non dovrà mai incontrare ostacoli. Il profumo del linguaggio dovrà anticipare ma anche favorire il contatto e quindi l'espansione successiva alla degustazione e relativa suzione incondizionata. Anche quella è una crescita e un nutrimento. Ciò che piace e che consola sarà di per sé un fattore di sviluppo, di appagamento. E l'appagamento in qualche modo soddisfa e intrattiene e quindi nutre. Perché l'appagamento di una certa appetibilità non dovrebbe nutrire e non essere considerato quindi un valore intrinseco? 
Ma se tutto questo ci predisponesse invece a un linguaggio sterile, appettibile ma vuoto, per niente nutriente? In quel caso il problema non sussisterebbe, dal momento che il gusto e le sensazioni prime di contatto, sopperirebbero ugualmente al nutrimento di un'opera. Potrebbe non essere dimostrabile il fattore nutrimento, non quanto è dimostrabile il contatto, la sintonia con la fragranza, con la fascia superficiale  più seduttiva – o glassa di contorno. La fragranza e quindi il buon esito di questo contatto, contro l'immediata repulsione dello stesso, possono essere dei fattori tangibili, quindi evidenti e quindi attributi indiscussi di un certo valore interno. Un'opera che di primo acchito attrae ed è appetibile, ha già di per sé una qualità di fondo, una sua predisposizione a comunicare, ad attrarre e a convincere. Senza questo primo fattore seduttivo la porta rimane chiusa e l'eventuale valore non sarà dimostrabile. Ma se poi avvenga o meno un processo di trasformazione e di crescita attraverso questo linguaggio che definiamo appetibile, questo pare non interessare a molti e tra l'altro non essere così dimostrabile. Tra l'altro un linguaggio nutriente, come una medicina amara dal sapore insopportabile, non resisterà a lungo, se non come risonanza sinistra, che avrà molto più potere in negativo rispetto al suo possibile effetto balsamico. Nel caso di un linguaggio dal sapore amaro ma assolutamente necessario per via delle sue sostanze, come una medicina, in quel caso lo si frequenterà solo in casi estremi, preferendovi sempre e comunque qualcosa di più immediato e gustoso, che soddisfi e che semmai guarisca attraverso questa soddisfazione o seduzione istantanea, che faccia dimenticare il resto e il futuro, ma incameri alla sensazione e all'appetibilità del presente l'unico riscontro di verità, che vede il più delle volte in perfetto stato di salute i presunti convalescenti presenti, con appena un rigo di febbricola, al panorama dell'arte e della cultura.

















martedì 11 ottobre 2016

Edoardo Sanguineti e la sua poesia

























lunedì 10 ottobre 2016

Nuovi scatti dal set de "La città vuota"


Squarci dall'ultimo shooting de "La città vuota":
































domenica 9 ottobre 2016

"Amore notturno", di Alfonso Gatto



Amore notturno

Una notte vicino alla sua casa
e dal balcone aperto nella mite
notte del Sud, la donna che m'apparve
golosa di risucchio come un'acqua
gelata. E non avrà mai volto,
sale la gola chiara, scende al buio
degli occhi avidamente salda.

A bocca aperta nella pioggia, un nero
grappolo le lasciava goccia a goccia
sapore di città – disse – di vento.

Alfonso Gatto. Poesie d'amore.













sabato 8 ottobre 2016

L'ascolto e la parola


Parlando senza un ascolto.
Che cosa si forma nel linguaggio quando la voce è isolata? È libera nella sua vibrazione, ma incontra il vuoto? La formazione del pensiero che poi si fa parola, quindi forma più o meno compiuta, potrà mai essenziarsi di questo vuoto con cui dovrà fare i conti? Di questa mancanza che la corona? La mancanza potrebbe essenziarsi del paesaggio di una parola, come di quella successiva, anche la prima frase, un'altra, più lunga, ma adesso sarà quasi un periodo, un paragrafo, un intero capitolo, siamo a ventinove pagine, quasi a trenta, immolate nel vuoto! È come parlare, ma senza essere ascoltati.
Quando questo avviene, incontrando qualcuno un po' distratto, o nelle consuetudini di una relazione, di quelle quotidiane, quando non si è ascoltati lo si vede, e spesso lo si dice: "Mi stai ascoltando?", come se fosse riconosciuto come diritto, il diritto che ogni parola di quel momento, in quell'istante e con quella persona necessiti di attenzione, del dovere dell'attenzione. In quel caso vi sono occhi, corpi che si confrontano, che si scrutano. La parola scritta, quando non è diretta e funzionale a un compito, a una certa meccanica di una relazione, non ha il diritto di ascolto, ma contempla quello di esistere. Io posso scrivere, ma non posso chiedere un ascolto, quando la mia scrittura non è impiantata in una qualsiasi minima relazione con il mio interlocutore. 
In metropolitana, qualche settimana fa, ero con un amico quando un signore sconosciuto cominciò a parlarci. Prima a entrambi, poi si rivolgeva solo al mio amico: così le sue parole, e il suo sguardo, senza un nesso, un senso compiuto. Bastò poco a capire che quella persona non stava bene. Non ci conosceva. Non trattava argomenti logici, connessi a una loro precisa funzione, relativa alla nostra presenza occasionale di interlocutori passivi e sconosciuti. In quel momento la parola della persona non perfettamente normale, violava un duplice territorio: 1) quello del parlare di punto in bianco con persone che non si conoscono, 2) e anche del parlare di cose assurde. 
Ma intanto lo si ascoltava lo stesso. Per una forma di rispetto, perché forse la nostra fermata era vicina, o anche non essendo facile dirgli di tacere, a qualcuno che forse era infelice e che poteva sentirsi meno giù attraverso le sue parole valorizzate da un ascolto. Quando qualcuno ti parla, con interesse, anche chi ascolta si sente ascoltato. È come se fosse stato scelto, iniziato a una comunicazione, non logica e funzionale, ma in ogni caso con del nutrimento dentro. Una volta scesi alla nostra fermata, le parole del tipo stravagante sono sfumate nel nulla, come tantissime altre che avranno avuto anche una minima funzione, una reale utilità, – anche quelle, purtroppo, sfumano nel nulla.
Le parole non resistono mai da sole. Sia quelle dette che quelle scritte hanno bisogno in ogni caso di una familiarità di intenti, di un territorio dove il diritto di parola coniughi una fonte stimolante che in qualche modo la ravvivi e la responsabilizzi nell'esercitarsi. Il tutto, molte volte, può davvero confondersi con il parlarsi addosso, il parlare da soli mentre si parla agli altri – cosa molto comune – o con il confondere il proprio diritto di esprimersi con il dovere di avere un ascolto.
Anche la parola scritta potrebbe diventare una voce impazzita in metropolitana, o quella nenia ricorrente di un familiare, che si ascolta senza sentirla, che diventa a volte vibrazione, senza forma. Dove sarà allora la differenza? La colpa sarà della parola imprecisa dell'avente diritto o dell'ascolto inadeguato del non avente dovere, ma avente nello stesso tempo il diritto di non ascoltare, di non leggere?
Quanto conta allora questo esercizio assurdo di volontà? – se non anche di voluttà, esercitando a oltranza il diritto di parola confondendolo con un dovere di ascolto?
Credo che conti quel fattore che ho accennato prima, quando raccontavo dell'espisodio in metropolitana. Ossia: il far sentire ascoltato chi ascolta, quindi letto chi legge. Coinvolgere, in una cooperazione di intenti creativa, quella persona che incontra la mia voce. Renderla assolutamente indispensabile, in quel momento e anche oltre, quanto le parole dette da quella voce, se non di più. Farla parte esclusiva del moto espressivo e questo passaggio, in diversi casi, comporta un vero e proprio balzo quantico in un linguaggio, davvero un salto in un abisso.
Quando ascolto o leggo e mi sento così, quella possibilità di ascolto diventa un privilegio allo stesso modo di come lo sarebbe stato se la stessi esercitando dall'altra parte, da quella di chi scrive, di chi dedica la propria voce, se non la propria vita in quella voce.
Questo esercizio avverà sempre al buio, nell'ignoto. Ma necessita di questa caratteristica, a mio parere essenziale: l'annullamento di una rigida giurisdizione tra scrittore-lettore e la fusione in un'incantevole anarchia, dove i ruoli si infrangono e le parole diventano di entrambi. Credo:













venerdì 7 ottobre 2016

Valore e interessi




"Ognuno vale tanto quanto le cose a cui si interessa."

Marco Aurelio, Pensieri VII, 3






























giovedì 6 ottobre 2016

Lo scrivere è fatica



Lo scrivere è fatica. Lo scrivere bene sa di fatica. Anche lo scrivere male. Questa fatica è l'anima della scrittura. Se fosse facile, senza l'esistenza della fatica, la scrittura non lascerebbe un solco definito, una traccia.
L'esperienza emozionale in tutte le fasi di uno scritto, mi avvolge completamente di spasmi e di aria fredda. È un'esperienza onnipervadente e anche il sostenere tutto questo ha un costo e questo costo è un altro tipo di fatica, semmai più interiore e meno fisica. Ma il fisico di chi scrive non è mai inerte. Le cose che si trasmettono, che si pensano, che si maturano, entrano ed escono da tendini, ventricoli atriali, polmoni, ossa, arterie femorali, mandibole, zigomi, denti. Nulla diventa esente da questo processo. Anche questi appunti che sto battendo in tranquillità, con la finestra aperta e le voci dei condomini del palazzo di fronte, stanno mettendo in gioco le mie dita, le mie braccia e i miei polsi in una ginnastica complessa e dolorosa, dove anche loro, gli unici che sfidano la staticità del mio corpo e del mio sguardo che segue con zelo le lettere, interagiscono con il senso di quello che sto dicendo, con il suo teatro, o con il suo assurdo. C'è anche la loro voce, quindi. Il loro punto di vista e di non ritorno. Come il suono limpido dei miei polpastrelli, che aiuta a  confezionare meglio il mio concetto, attraverso la sua acustica. Il suono della mia voce, in questo punto del processo, è solo questa pioggia di dita sulla tastiera, che arriva con persistenza e puntualità, fin quando il mio pensiero glielo concede. In fondo rimango io la genesi del lampo, del tuono e della pioggia di questo temporale, con cui mi rimetto al mondo e mi rinnovo nella mia stessa acqua, scrivendo.  
Il resto è tutto in controluce di me, in negativo. Il senso della frase, il suo respiro, il suo stile, sono tutti fattori che si smuovono alle mie spalle, attraverso le possibilità della loro configurazione, di questo compromesso tra ragione e mistero, con cui la scrittura mi avvince e mi costringe di continuo senza alcuna logica, funzione, utilità.
Le braccia sentono tutto il peso delle parole scritte, allo stesso modo degli occhi, della schiena, delle ginocchia, delle spalle. Diventiamo anche la fatica di quello che scriviamo. La fatica di tutto questo è già un traguardo. Un esercizio raffinato nel sentirsi umani e civilizzati da questo peso schiacciante e insieme liberatorio. Da questa splendida maledizione, che non mi lascerà mai.










mercoledì 5 ottobre 2016

Azimut: la geometria illuminata





Quando morì mio padre ebbi la notizia di sera. Era già buio. Mi misi in macchina,  – in quel momento della notizia ero fuori città. Durante il tragitto ebbi la percezione esatta della vita e della morte, attraverso la continuità e l'indifferenza delle macchine che percorrevano la tangenziale, ciascuna con la sua storia, ma anche attraverso i palazzi dalle finestre accese, con i portoni bui di mistero, da tutte le delimitazioni rigide al mio spazio di carreggiata fino all'ingresso nel mio quartiere, dove percepivo l'ampiezza, il flusso doloroso delle cose che continuavano il loro corso, anche senza di me, poco prima di cena. Anche se fossi morto io, quella sera, i palazzi, le macchine e le corsie della tangenziale avrebbero proseguito la loro costante parata di luci e di ombre. Percepii, nello stesso tempo, da quella sorta di indifferenza, anche un elemento rassicurante, proprio dalla vita dell'ultimo tratto extra-urbano, prima di entrare in città, che mi diceva che in fondo, nonostante la morte, non c'era nulla, in quel momento, di cui preoccuparsi. Vi era quel flusso di luci, di oggetti e di cose inanimate, che si opponeva alla meta tormentosa del mio viaggio animato nell'ignoto, come garanzia che qualcosa rimanesse in piedi contro tutto quel bilico, per farmi sorreggere e non impazzire ancora del tutto. E tutto questo mi rincuorò, come mi avrebbe rincuorato qualcosa di umano, di vivo. Il solido contro il vuoto. La paura dello spazio e della vastità nei miei pensieri, aveva bisogno di quei confini sicuri, che spezzassero il gelo di quel mistero abissale.
"Azimut", di Emiliana Santoro, mi ha riportato al mistero di quella sera di morte e di vita. Il mistero degli oggetti, delle geometrie e della loro espressività, che Emiliana libera dalla loro muratura riconsegnandoli alla pozione magica di un incantamento, operata in una serie di raffinate congiunzioni tra limitato e illimitato, ma anche attraverso il mistero dell'illimitato nelle forme note e comuni che organizzano i nostri spazi vitali di clausura.
Emiliana organizza un viaggio sentimentale in un territorio dell'anima, dove ogni spigolo ha una sua componente creaturale ed estatica. Gli spaccati di cielo tra due palazzoni vicini, il fantasma della luna, il moto lieve delle nuvole in contrappunto all'immobilità del cemento, sono strofe di una sua canzone di cinema e di vita che non stona mai.
Non c'è retorica ma pulsazione e rigore in ogni sua scelta sintattica. I punti di vista sono molteplici, soprattutto per la disposizione emozionale di una certa obliquità di sguardo, un occhio controverso ma anche armonico, mai fisso sulla forma geometrica, ma sempre morbido e zelante nella plasticità della scorsa. I palazzi della periferia sono fatti di occhi, di corpi, di insonnia, come di risvegli, di appuntamenti e di ritardi. Classificano un moto della vita, uno spasmo, pur nella loro stazza minacciosa, allo stesso modo di un processo naturale, come la sintesi clorofilliana o gli influssi delle lunazioni su alcuni fenomeni terrestri; ma nello stesso tempo diventano lo scenario dei suoni di un giorno intero che ascoltiamo, a volte oltre l'imbrunire, e che senza quella struttura non avrebbero avuto acustica e quindi unicità, insieme ai colori veri di quell'aria, con quel tipo di intonaco e di architettura dove i personaggi invisibili ma presenti di "Azimut", libereranno o a volte mureranno la loro educazione sentimentale, il loro alfabetizzarsi al dolore come alla speranza o alla riluttanza dello stare al mondo attraverso quell'unico mondo o cassa di risonanza. Sono convinto che diventiamo le cose che guardiamo dalle nostre finestre. Ciascuno di noi avrà il suo albero solitario e malmesso, il suo cornicione, il suo comignolo, il suo balconcino soleggiato o il suo grattacielo che gli divora tutto il sole, ma che farà da ornamento alla configurazione di un suo paesaggio personale e immutabile, come un lineamento. "Azimut" riesce a dare animo alle sue ricorrenti geometrie trattandole come lineamenti di un viso che la  poetica di Emiliana dipinge e attinge dalle cose che sente e dai rapporti tra geometria e fluidità, materia e spazio, con cui si confronta, riuscendo a far vibrare di umanità oggetti di un paesaggio moderno e periferico immortalato nelle inquadrature più diverse, organizzando questo intento con un tono solenne e religioso, senza mai un grido.  La sensibilità dello sguardo è esattamente il concime che consente al progetto di raccontarsi con più trame e di procedere con una sua ritmica precisa, senza stentare, trattenere ma nemmeno precipitarsi. Questo progetto si muove in un equilibrio lirico. Le forme hanno il loro colore ideale. Il loro colore ha la luce ideale. E anche la stessa forma si coniuga all'assortimento cromatico e alla sua esposizione ispirata alla luce. Elementi in sinergia, rendono ai frammenti una loro completezza negli spazi dove vengono illustrati. Non ha bisogno di altro, Emiliana, per ottenere questo tipo di sinergia attraverso un'interazione tra elementi inanimati, che dimostrano di essere essenziati da una loro timbrica riconoscibile. La fotografia dell'amico e bravissimo Stefano Petti è davvero in linea con il sentimento di questo lavoro. E credo che tutti i collaboratori di questo progetto, tra cui c'è anche il mio amico Fabrizio Fiore, abbiano splendidamente supportato questo intento nella dovuta profondità, ciascuno con la propria arte e prospettiva. Si avverte un processo corale, come è giusto che sia e che avvenga nel cinema.
Molto interessante questa tensione dell'immobilità, un sottrarsi all'ansia del tempo comune eppure sgretolarlo attraverso un certo fulgore interno, soggiacente a quello che appare misurabile. Vi è sempre un doppio fondo, in questo scenario. Una vita dentro la vita. Un moto pulsante di solitudine dentro la materia, che la trasforma, come se fosse introdotta in un crogiuolo. Le figure e la fotografia di "Azimut" mi trasmettono ordine, eleganza, ma nello stesso tempo il tormento di un territorio mutante, che diventa contrappunto delle nostre prigioni, senza le quali non avremmo idea di quanto valga la libertà. Credo che Emiliana abbia voluto suggerirci una sua idea singolare di libertà lavorando sul silenzio e sulla spazialità. La libertà espressiva del suo linguaggio e insieme la libertà che uno sguardo può concedere a qualsiasi oggetto, quando è attraversato da un tocco così ispirato.
Eppure fino all'ultimo istante di visione, si avverte che questa poetica di solitudine non  si fa mai sfarzo della sua profondità di sguardo, ma moto sentimentale con cui celebrare un mondo di cose dette in sottovoce, quasi senza dirle, e proprio per questo più intense. Queste costruzioni sono fatte dello spazio fobico che occupano e dell'intensità che racchiudono. Del compromesso di quanto hanno sottratto con la loro mole e di quanto hanno configurato per il miele ancora caldo dell'alveare che le impregna e  le penetra. Sono irrorate della luce e dello spazio che hanno sottratto, come degli sguardi, dei saltelli sulla corda, dei delitti e degli innamoramenti che hanno concesso e poi testimoniato. Ma Emiliana alterna anche grandi affreschi di cieli e di campi aperti. Pensare ogni angolo e gradazione di questa struttura, è come trovarsi ad analizzare un mosaico e ricostruire dal tassello la misteriosa integrità che le cose inanimate ci restituiscono. Come se attraversate, anche per un solo istante, da un'illuminazione profonda, dove diventano altro da quello che si credeva di loro. Un occhio che guarda crede, ha sempre fede e innocenza. L'occhio non pensa mai se tutto quello sia vero o sia giusto, ma beve la luce di quella forma e si consola di questa conferma di sentirsi vivo nella luce e nella sua nuova aria. Sarà forse questo il senso del cinema? 
L'occhio di Emiliana ci racconta di frammenti illuminati di questa nuova aria che smuove e commuove le cose, nel passaggio da un livello di realtà al magma di questo altro strato, meno tangibile, e di questa sua purezza di sguardo, con una poetica delle immagini tenera e preziosa, che non dimenticherò più.
E va a lei il mio grazie, restituendole, nel mio piccolo gesto, la delicatezza con cui mi ha inserito negli special thanks del suo film.