sabato 31 agosto 2013

Ipotesi, crisi e analisi di un linguaggio


La fortuna di un certo linguaggio, secondo me, risede nel suo costante adattamento alla sua specifica evoluzione di crisi, nella sua impossibilità a sistemarsi, a comporsi a definirsi all'interno del suo codice espressivo come elemento tipico o anche topico. Crisi come difficoltà cronica a farsi nota risolta, abitudine, luogo noto e circoscritto nelle sue possibili dinamiche. Quello che spesso è ambìto come territorio felice per un'esperienza espressiva, diventa in diversi casi una trappola mortale, la tagliola nascosta nei fondali delle campagne, che scatta all'improvviso, in pieno sole e mozza code, gole e arti, senza pietà e in una fase costrittiva e asfittica, quanto sterile, di ricerca o di viaggio blandamente ispirato e chiassosamente solitario.
Quello che scrivo è frutto di un continuo pensiero e rielaborazione dei miei materiali espressivi o invenzioni anarchiche più o meno felici e appassionate, specie quei materiali nei quali mi inabisso e forse mi imbatto contro la mia volontà, come in una sorta di compiacimento incantato, perverso, impeto stregonesco di resa e non più di ascesa. Saranno tutti quelli attraverso i quali mi accorgo di compiere una sorta di tradimento alle mie eventuali o intangibili possibilità, per il solo fatto di collocarle e di immaginarle in luoghi già noti, troppo familiari, anche se per me inesistenti e non ancora concreti, ma in qualche modo luoghi già trafficati e battuti da diverse voci, dove vorrei brillare un poco anche io, come un cicaleccio di una radio di guerra dopo la pioggia. Un suono strano e cupo che si aggiunge agli altri cori per il solo fatto di essere in vita, di decantarsi ancora in vita, in contrappunto al tocco gelido e mortale che sbatte su di una grondaia dopo un bombardamento. Lo scrivere cose, quindi e anche, per dire di quanto tanto si è scritto. Scrivere parole in virtù del loro numero e non del loro noumeno. Può anche darsi, non è un'ipotesi da escludere, ma da includere, secondo me.
E questa pretesa di illudere un proprio certo linguaggio in un'arrampicata dentro spazi e luoghi inesistenti ma consoni e abbordabili, specie in una fase così risucchiante di stasi e di abbandono e di relativa svogliatezza a ogni nuova particolare sollecitazione culturale – parlo nello specifico della pigrizia e della inutile e assurda severità al diniego espressivo di questi miei tempi – diventa essa stessa incudine e ostacolo di se stessa, ambendo ad essere e a putrefarsi nello stesso cardine che cerca e che matura, sulla falsariga di un mondo nebbioso che ho amato da lettore ma che non esiste e non è contestuale alla mia attuale fisionomia di scrittore. Detta in parole semplici: desiderare di scrivere o di descrivere il mondo di qualcun altro, fingendolo proprio e moltiplicandolo all'infinito alla ricerca di quel primato numerico che attesti un percorso evolutivo preciso e funzionale a un certo standard ormai riconosciuto come qualcosa di valido e di potabile solo perché piaciuto. Sottile ma comune e misero  artificio, dove affondano diversi intenti, spesso alle spalle di chi li orchestra o li subisce. La tenaglia che illude di riuscire a parlare quando invece la lingua che vibra non è la propria, non lo è mai stata.
Ma a questo punto, dopo queste tortuose ma sincere premesse, potrei anche domandarmi:
dove sono davvero io, con le mie chiavi luccicanti di una casa sospesa o inesistente? Con le mie porte chiuse, le mie campagne deserte, le mie finestre appannate dallo stesso insondabile tramonto? O con una casa linda e pinta, ma alla Sergio Endrigo, senza soffitto e senza cucina, in attesa di un gruppo di amici con cui cenare o peggio: con cui cucinare insieme o attaccare dei nuovi lampadari colorati?
Tutto questo per dire che posso farmi forza solo dello spasmo costante di crisi che ammanta come bava di nevischio ogni mia possibile esperienza, con la speranza di interrompere, anche di colpo e in modo brusco, lo scorrere di un qualsiasi affluente, quando avverto il rischio che questo stesso affluente non è altro che una stenosi che mi allontana dalla possibilità di respiro di una mia possibile voce, del barlume di una mia possibile verità o flebile idea di una verità. 
Meglio scomparire anziché scomporsi e decomporsi in nome di un numero indefinito di atti, di testimonianze frustranti di fede a una propria tenacia di verbosità creativa, che in diversi casi non mi appartiene ma è immolata a prototipi che incombono nel mio confuso e titanico ricettivo, truccandosi, in modo subdolo e fasullo, da fattore creativo.
La fine di un mese spesso mi costringe a riflettere, che spesso la mancanza di spazio e di ascolto, può rivelarsi, in taluni casi, davvero una gran fortuna. Tutti i miei stralci, le mie sperimentazioni, i miei pugni di sole o di terra che distribuisco in questo spazio, sono canto della mia fortuna, omaggio e saggio della mia evoluzione o involuzione critica, difficoltà cronica, ritornando all'inzio di questo scritto, di essere in linea con la propria natura più complessa e non con gli strumenti artificiali e richiesti per ingabbiarla, semplificarla e confezionarla, come regalo usato e ben riuscito. Vizio di esprimersi o meglio virtù di esimersi, quanto meno nelle circostanze più tragiche e immediate che lo richiedono? 
Questo, in qualche modo, lo vedremo. Immagino di sì. Col tempo.

Lume ad olio


In questa frase di cortile,
scandita dal balcone
da un canarino bianco,
come forcipe che strazia
tra le ossa le più dure
di un mezzogiorno,
malferma ed intatta –
tra pendoli e bicchieri
puliti e ben strofinati,
nel panno azzurro che soleggia
al gomito rotto che la riannoda –
l'occhiata bassa del metronotte,
che rinchiude il suo viso
allo stipite e lo riannega,
stralcio dal suo gran sonno,
come il sempreverde 
lume ad olio nell'otre.

giovedì 29 agosto 2013

Racconto dall'inverno


Parlo roco nei rami brinati
dalla brezza di un racconto,
e da quest'aria che sa di isola
e si riavvita nei cappotti
come una festa ai sabati.

Netta e sicura nel suo primo
fascio di armento pietroso,
quando sbanda lo sguardo
nel suo pugno di fiato,
epico e desto ritorno,
quale di un breve gregge
sfumato all'inverno,
vispo della pioggia
e dei profumi serali.

Da una pace che si rosa
della sua noce artica
spiga di nevi e di maiolica,
poco prima di un sonno
rinchiudi la mano e nel sereno
imbarchi il valico del firmamento,
rafferma del gelo al vespro azzurro
il tuo canone è il bosco più chiaro,
l'àncora persa di un solo momento!

mercoledì 28 agosto 2013

L'effetto Shepard, dai primi passi:





Ho scritto questa sceneggiatura nella prima parte di quest'estate, in una camera da letto silenziosissima, che dava su alcuni frutteti; poco distante un tratto di ferrovia, dal lato opposto la costa marittima,  e poi basta...nient'altro di vivo.
Nel silenzio più assoluto, sono affondato dentro la scrittura di un film che non è solo un film. Un lungometraggio che incrocia una serie di incastri linguistici, di combinazioni, tentazioni e concatenazioni espressive, che sono mistero insoluto della loro stessa voce. Devo al silenzio di quella stanza la patina di inverosimiglianza e insieme di concretezza di cui è ammantato "L'effetto Shepard", almeno nella definizione di questo suo primo assetto, nel trattamento delle scene, del contesto drammatugico, dei lati più introspettivi e insieme di quelli più esteriori del suo primo vero telaio. Il tutto è divenuto pagina e patina di quel silenzio, interrotto raramente dal singhiozzo di un volatile, da un picco di vento tra gli alberi, dal fantasma di una voce. Non oltre, che non appartenesse a quella perfezione di pace desertica, contro il fermento espressivo di un'idea di assemblaggio, che contenesse la mia costrizione ad esprimermi ancora, nonostante tutto: nonostante il mio cinismo incontenibile, la mia disperata consapevolezza di quanto sia inutile, difficile, impossibile farlo, soprattutto ora, in questo contesto specifico, in questo mio tempo. 
Ma dentro quella stanza da letto, che è stata un tempo quella dei miei genitori, con la vista sugli stessi frutteti, le stesse campagne ariose, lo scorcio di ferrovia e la costa marittima, ho raggiunto anche un altro strato sensibile e altrettanto palpabile di ricezione creaturale, di amicizia e di riparo contro il pericolo di morte del gesto: quello del primo passo fatto per il suo valore primitivo, primigenio, indissolubile e vorace per il suo solo esserci, pur nel suo alveo impenetrabile di oscuro, che avrebbe in parte già maturato, nel suo primo attimo conflittuale di vita, un suo senso compiuto, la risposta feconda di un ascolto. 
Per questo ho deciso di continuare, per l'importanza sacrale del primo passo, per la possibilità di prendere nutrimento dalle mie più misteriose quanto sincere dinamiche creative, al di là delle circostanze più o meno felici o fortuite che favoriranno la loro espansione futura e imprevedibile realizzazione.
Al momento questo primo passo è accompagnato da una serie di tasselli e di svincoli che trovo molto utili e importanti, che cercherò di aggiornare e di condividere negli spazi come questo, dove ho ancora la possibilità di avere una mia voce, un mio luogo dove sgranchire le caviglie prima di un cross, di schiarire il timbro, affossarmi, affinarmi e a volte ritrovarmi.
Al momento tutto l'assemblaggio del materiale che inserirò, è frutto del talento e dell'inventiva di un altro padre de "L'effetto Shepard", che è Fabrizio Fiore, splendido filmaker e compagno speciale di cinema e di vita.
Le madrine di Shepard, dell'impulso a strutturarlo e a organizzarlo in un certo luogo, sono Beatrice Ripoli e Valentina Renzulli, entrambe attrici e registe teatrali,  insieme anche destinatarie dell'omaggio poetico di Shepard all'indagine poetica di Urbanact, loro splendida e variopinta creatura già viva e pulsante.
Ecco, adesso, i primi luoghi effettivi e già vivi dove seguire il percorso e le possibili impossibili sorti de "L'effetto Shepard", per chi ne abbia voglia, desiderio o semplice curiosità:
Il sito originale: L'effetto Shepard
Il backend: Gestione progetto
Il progetto presente e articolato su Cineama
La neonata pagina ufficiale su twitter
La pagina ufficiale su Facebook
Credo che ci sia tutto, al momento.

martedì 27 agosto 2013

La pioggia poco lontana


Da sterrati riabbaiano cani,
come campane rose d'acqua
raggelano di fumo una risata.
La pioggia ha lavato le strade,
il silenzio del paese ritorna
contro un palpito di occhi
dorati da un primo fuoco.

Stamattina la pioggia
graffiava una casa rossa,
un albero stava davanti
come un soldato fermo.
Arrivava il suo vento,
a morderlo fame viva
al verde di mandarino
che respira al tramonto 
la chiusa dei portoni;
se forse un solo momento,
scintilla fra i vetri gialli,
rinfrescata di piazze
come da scale azzurrate,
infrante a quel viso d'aria
che strilla buio l'androne.

lunedì 26 agosto 2013

Non prestarsi

Non prestarsi. È forma e parte di un pensiero che mi ha assalito e insieme rinvigorito questa mattina, osservando la diramazione delle nubi sulle campagne, la ferrovia, i colori  sfumati del melograno. Non prestarsi: come regola fondamentale contro il disfacimento spaventoso che avverto e che è diventato carne, valore aggiunto e disgiunto, verità, e che purtroppo sento che non si avverte così spesso, con la giusta nettezza. Non si scorge in pieno la natura pericolosa di questo disfacimento spaventoso che ottunde, così assoluto, irreversibile, che interessa chi imbocca in qualsiasi modo una mulattiera, uno scorcio nebbioso di espressività, un qualsiasi sentiero di canto.
Non prestarsi a cosa di preciso, poi? Di cosa avrei voluto parlare, nel mio silenzio, senza nemmeno sapere di dover scrivere di questo imperativo murato al diniego? Non alterare o sottomettere la propria voce in relazione a questo disfacimento, non inaridirla o peggio inabissarla sul muschio gelido che sfoggia e ammanta come pube di orchessa l'orlo del precipizio. Se abbasso la voce, dal momento  che qualcuno ha fastidio, forse per il timbro, per l'orario o per le cose che dico, qualcun altro mi chiederà, poco più avanti, se più interessato e ispirato, di alzarla. Mi farà un cenno delicato, invisibile di mano, ma ancora più intenso di quello che mi suggerisce il tacere, lo smorzarmi.
Non prestarsi a questo smorzarsi, a questo adattarsi a un territorio irreale, attanagliato da disattenzione e insieme da ripugnanza, ma anche da gratuita e incolta severità. Dalla sensibilità pianificata solo su certi richiami, su certi artifici ormai codificati, dove solo un certo linguaggio può accadere e smuoversi, spaziare, rovesciare i suoi limiti e le sue pretese verità. 
Non prestarsi, ancora: alle regie e alle regole scritte per essere rispettate, alla ricerca di una sola uniforme visione della storia, della propria storia, e questo è il tragico, che andrebbe raccontata e relegata e poi modulata sulla falsariga di altre storie, che dovrebbero dettare il loro passo perfetto pur rimanendo nel totale ignoto e digiuno di quello che la materia e il trattamento espressivo vorrebbero smuovere e approfondire della nostra, unica e propria che ci rimane da dire.
Assolutamente voltare le spalle al privilegio di un ascolto assonnato e perverso, quanto assonnante e invalidante, avvolto dal totale pregiudizio, dal sospetto, dal terrore sprofondante delle dissonanze, dall'apatia, dal conformismo, dalla cecità e dalla sordità giudiziose. Prendere in prestito i miracoli della propria ricerca minuziosa e infinita, le cadute, le sconfitte, così come i bagliori improvvisi di una certa possibile schiarita, gli squarci lirici o tragici, con tutto il carico d'ingombro emotivo ma anche della pienezza di un percorso consapevole e laborioso, silente, e quindi assimilarlo, farne cibo e tesoro, ma senza prestarsi. Che oggi significa: non disfarsi di sé, del proprio passibile incanto delittuoso della parola e del suo corso più oscuro, che spesso è tutto quello che ci rimane da perdere, ma anche da conquistare. Meglio perdere qualcosa, per sempre, ma perderla nella sua purezza e integrità, nella sua intonsa sostanza di cristallo pulito, fondale triste delle Azzorre, anziché rianimarla e preservarla nel disfacimento di un solo flusso apparente e opacizzato, lasciandola in prestito, come al terribile banco dei pegni di Canetti. 
Non prestarsi, quindi. Mai: al gioco; quando l' esprimersi e il mettersi in gioco potrebbero rimanere qualcosa di sacro, di tenero e di molto serio. Come qualcosa di vitale, di balsamico, di prezioso; e di tanto altro ancora, immagino.
Quindi?

venerdì 23 agosto 2013

Distinguere ciò che sarà uniformato


"Ciò che avviene è identico a ciò che non avviene, ciò che scartiamo o che lasciamo andare è identico a ciò che prendiamo o afferriamo, ciò che sperimentiamo identico a ciò che non proviamo, e nonostante questo la vita passa e noi la passiamo a scegliere, rifiutare e selezionare, a tracciare una linea che distingua cose che sono identiche e faccia della nostra storia una storia unica che ricordiamo e possiamo raccontare. Impieghiamo tutta la nostra intelligenza, i nostri sensi e il nostro zelo nello sforzo di distinguere ciò che sarà uniformato, o che già lo è, e così siamo preda di pentimenti, occasioni mancate, conferme, affermazioni e occasioni sfruttate, mentre l'unica cosa certa è che nulla persiste e tutto si perde. O forse non c'è mai stato nulla".

Javier Marías da Un cuore così bianco.

giovedì 22 agosto 2013

Efficacia narrativa:

Temo, ma non da poco tempo, questa inflessibile crociata dell'accorgimento, accorgimento metaintellettuale sul dettaglio narrativo perfetto, in particolare mosso da un atteggiamento astuto e poco ispirato, meglio se  smaliziato, assimilato in diversi casi come primizia iniziatica di scuola più che per un percorso brancolante e solitario, sofferto, mossa abile e toccata da grande scacchista contro una sassata o una saetta nella notte. 
O anche, l'insistenza sulla particolare attitudine a mostrare soprattutto efficacia nella tecnica narrativa, efficacia che in diversi casi non guarda ad altro che al rivelarsi tale, efficace, probabilmente efficiente della sua salda e sagace efficacia, educata a potersi giustificare per la tenuta dei fianchi, per il portamento, per lo standard ideologico-letterario del passo, per il suo aspetto sintatticamente atletico e performante, che si contenta dell'affabulazione più che del nutrimento, della rasatura ben curata più che del sano colorito – detta in soldoni: del mostrare gli incisivi al posto del cuore. 
Il resto sarà e rimarrà quindi secondario, comunque poco importante. Quello che conta è l'efficacia, come aspetto recondito e interiore di una certa particolare estetica o regime di una verità inviolabile e superiore, totalizzante. La tecnica sacrale e cruciale dell'efficacia, fine e sublime a se stessa, alla sola muscolatura del tessuto.
Temo l'efficacia quando è stornata dalla sua luce non riflessa; la preferisco ombrata se non assorbita, semmai in controluce, come conseguenza di un moto parallelo e contrario, e non essenza assoluta e forbita di una sola precisa struttura codificata. Quando è cristallo di un apparato astrale ma non stellato, per un esempio.

martedì 20 agosto 2013

Passaggio di chiari


Quanto avvince questo
cielo di spalle: è sorte
degli alberi maschi,
coltre al pomeriggio
di scale lucidate;
il sole incerto imbeve
della pioggia scampata, 
e innerva il ciglio dei visi 
alle campane illunate,
al ferro battuto
di una lampada
la sua pomata.

Da un canto distano, 
nel fresco, 
una barca,
una scuola,
una torrida banda,
che sferra al chiaro
della quiete dei vetri
l'imponenza di un'ora
penultima e già tarda.

lunedì 19 agosto 2013

Le lettere da Capri, di Mario Soldati



Non capita così spesso che un romanzo possa prendere così tanto, travolgere come un incubo nero nel sonno, tanto da svegliarmi di colpo la notte, con precisione due notti fa, per costringermi a continuarlo e poi completarlo dopo poche ore, di furia, come un pasto notturno di una faina nel buio di un podere. Mi è successo giusto nella zona più avanzata  e flessuosa della narrazione, quella dove si snodavano i misteri più fondi e titanici della storia,  gli attriti, le toccate sagaci degli intrecci.
Quanta eleganza, tenacia e solennità in questo narrare sublime e fondente: colto ma aspro e insieme vellutato, impermeabile al passare del tempo, delle nozioni, degli stili.
Di notte o quasi verso il mattino, potrei dire, la prosa incantevole di Soldati avvince e strega con ancora più vigore e credibilità, senza concedere stasi, ulteriori varchi e strade di fuga dalla sua sevizia dura e generosa. Soldati potrebbe narrare qualsiasi cosa con quel tipo di colore, di ritmo sorpendente ma invisibile, che ammanta, frantuma e poi impiuma di siero azzurrato e terso ogni lato più minuto, intimo ed ombrato della storia, dalla rupe emozionante del suo telaio alla morbidezza più ispirata della forma.
Considero "Le lettere da Capri", di Mario Soldati, un affresco superbo, affascinante e misterioso, che rivela le dinamiche affettive e afflittive di una o due o mille e infinite relazioni che si specchiano e si disperdono nel loro mare alto e verdissimo, quanto insondabile, nella spasdomica ricerca di uno sbocco di gioventù e di verità, ma che sia fatta appena di pace o che ne abbia e ne mantenga appena l'odore, il punto più sottile e invisibile di coronaria. In uno spaccato verosimile e avvincente che prende ai polsi e alla gola, attraverso le tremende complessità atomiche dell'amore di ogni essere umano e di ogni essere umano catapultato e imprigionato nella dimensione labirintica e fobica di un amore assoluto, in contrasto con le regole di scuola, le ortodossie, la morale, le convenzioni.
Non aggiungo altro. Lascio al testo la precisione e la fragranza salutare della sua parola, per chi sarà curioso e vorrà forse avvicinarlo o insidiarlo, come sfida alle sue invincibili resistenze o alla pietrosità del suo sonno.

sabato 17 agosto 2013

Leggere in ombra

Ascoltare il passaggio d'ombra tra le frasi, gli istanti sparsi tra le parole, che siano scritte, trascritte da chiunque al mondo, o da se stessi, spesso non conta. Nel silenzio tombale del pomeriggio che cosa può osare un romanzo. Quanta aria e quanta luce imprevista al miracolo di una nuotata serale, come dal riflesso indaco di un attico, dove si prepara una festa per pochi, la feritoia di un nudo tra le pagine notturne, come dalla finestra dove si spoglia una cameriera d'hotel. 
Tra i paragrafi si snodano e si svelano forme; la disposizione dedicata dei piatti, per un solo invitato sconosciuto la fiaccola del suo tovagliolo pulito e ornato di mistero nel fondo del bicchiere.  Ecco quanto e cosa concede il forgiato tenace di un libro, tra gli occhiali posati sulle ginocchia di un vecchio alle pagine sgualcite da un ragazzaccio, che avanza a tentoni, leggendo per prima il finale con le dita sporche d'erba e di terriccio azzurro: non conta.
O leggere a cena, con accanto il vasetto aperto dei peperoncini, un gatto soriano, una candela spenta che sfuma. Leggere al buio e di nascosto, cieco e leggero, come un ultimo veliero alle tempeste. Leggere al telefono, a letto, in metropolitana, sulle gambe tristi di una ragazza, in uno studio medico, dalle mani mute di un padre, su di un albero o il fine settimana. 
Associo alla parola scritta i momenti di maggiore ferocia e intimità della mia vita con quello che non arriva solo dal pensiero, ma che dal pensiero irrora, feconda e concede la sua luce prima, la sua foce al buio del sorso. Un libro dice e insieme tace. Sarà questo il suo fragile delitto, o la sua stradina aperta nel fresco dei campi. Il balsamo efferato del tuo veleno al suo proverbio.

giovedì 15 agosto 2013

Cluster


In un processo espressivo avverto sempre il desiderio di mostrare qualcosa di celato, che si vorrebbe predominante, o che vorrei comparisse predominante e commestibile per una certa illogica economia e costumatezza di suzione. O, al contrario, di celare quello che appare predominante e poco fascinoso della mia propria  e prima persona che si esprime, in cambio di un lato diverso, ottimale,  impalpabile, ma ancora fulgido e ignoto.
La tenaglia del confronto con una certa platea fantasmica di manichini sottomessi, traccia spesso i segni sbiaditi di una strada labile e sabbiosa, confusa, come gli aloni tenui di un'orticaria in via di guarigione sulla pelle di una bellissima ragazza. Esprimersi in relazione a un certo ascolto, comporta un'inevitabile interferenza e cambio tragico di rotta, un delittuoso tradimento alla propria maledizione di credere ancora alla parola o a una qualsiasi forma di struggimento ad un linguaggio elettivo, come alla leggenda del chiodo arrugginito corroso e polverizzato dalla Coca Cola.
Quello che spesso di me viene riconosciuto, è così lontano da quello che davvero vorrei, anche se ancora non so quello che davvero vorrei fosse riconosciuto di me. Così succede che si è amati per caratteristiche lontane dalla nostra natura, per fattori che non immaginiamo ci rappresentino e che in qualche modo non riconosciamo nemmeno come parti buone e naturali di noi. E quindi, allo stesso modo, gli aspetti attraverso i quali desidereremmo essere predominanti, palpabili e indimenticabili, quindi forse riconoscibili e personali, sono gli stessi che ci inseriscono di diritto nell'elenco dei cattivi o peggio degli insignificanti strimpellatori. 
Eppure, mi dico, a volte: a cosa potrà mai corrispondere questo post o anche solo questo piccolo paragrafo, come nettezza o nitidezza di accordo nella dimensione di uno strumento musicale? A una chitarra scordata, che latra canzoni fra le dita nervose di un adolescente? O  a una tromba lontana di un concertista, alla sirena  di un antifurto, al fischio di un metronotte?
Come verificare e rettificare l'effetto di quello che dico e confrontarlo con il ronzio di quello che immagino e che penso di dire? A volte la separazione è fatta di chilometri, dirupi e scogliere a picco tra quello che si credeva e quello che è invece accaduto, tra il proposito e l'esito efferato del mio dire, intere distese boschive di rovi e di  notti nere. Come sbracciarsi da una scogliera, con il sole negli occhi, senza vedere chi ti raggiunge con la voce, nemmeno la sua figura, la sua altezza, eppure c'è qualcuno, non è nitido ma credo che avverta dal movimento del mio braccio tutta la mia febbricola di nuoto nell'aria azzurra di questa morte, tutto quello che il mio gesto disegna o che forse disdegna di me. Una donna che mi è accanto, si slaccia il costume nero e si addormenta con i capelli bagnati.
Scende la notte, ma non c'è nessuno. Un filo di radio da una barca, l'odore di una cena, una sola candela. Come qualcosa di non vero ma di forte, davvero:

mercoledì 14 agosto 2013

Devi portarti dietro tutto:

"Devi portarti dietro tutto, ed è magari quando non ti accorgi di averla che una cosa cammina con te. Quante esperienze apparentemente mediocri nella tua vita di lettore o di ascoltatore di musica o di spettatore di mostre ti porti in modo molto più vitale che non invece l'incantamento provato al Prado di fronte a un Velázquez? Certo in quel momento eri inondato da chissà quale sentimento, e poi ti è venuto invece come fatto importante, che ti ha alimentato di più, una canzonetta che sentivi sulla strada davanti al Prado, non il Velázquez del Prado".

Gianni Amelio da "Amelio secondo il cinema: conversazioni con Goffredo Fofi".

domenica 11 agosto 2013

Il facile fare del male


Fare del male è stupido ed è alla portata di tutti. Oggi si guarda con una certa ammirazione all'uomo violento, quello che è sicuro di sé, giustificandolo come persona complessa, stravagante, superiore, ispirata dai suoi demoni, quasi messaggero poetico e oscuro di una sua certa tenebrosa verità, quando invece è molto meno importante dello scopino del mio cesso o di una cassetta di veleno per topi. 
I suoi colpi nel buio saranno per qualcuno un prolungamento dei suo pettorali, un appendice del suo cazzo o della sua mente creativa che si ribella all'ostinazione di eguaglianza del sesso ex debole, che adesso per molti mette in crisi, suggella dolori, crisi di identità o crepacuori e per questo va punito, perché non si volta e non accetta il colpo sinistro dell'aguzzino o la pratica sodomica – da molti maschietti ostentata come laboratorio di dominio o prova di amore – ma intanto mette il gonnellino corto col tacco alto e va al cinema da sola, quindi "sotto sotto" se l'è anche cercata. 
La donna che paga un prezzo del genere in diversi casi è guardata, oltre che con pietà, con sospetto, dicendo qualche volta che se l' è cercata, che forse un po' streghina e tremenda era anche lei e che ha fatto la sua parte. 

Il mio profondo disgusto per questi tempi, nasce dal contorno che si svela intorno a certe tragedie, dalla tutela sottesa e occulta di un certo comportamento, come se appendice di una certa ricchezza, di espressività, di una reazione giustificata, di una malattia, quando certe persone trattano le donne come sciroppo per la tosse e così il loro seme sporco nella gola delle loro vite.
Organizzare una stretta alla gola di una donna, toglierle il fiato e spezzarle un braccio, è qualcosa di subdolo e di facile. Abbracciarla appena, e renderla felice richiede davvero del genio: oggi. È questo quello che ancora non si è capito o che non si vuole cogliere.

venerdì 2 agosto 2013

Il perfetto stile

"È facile conservare lo stile, l'aloofness (il distacco), la familiarità moqueuse (beffarda), l'aristocratica impassibilità, ecc. , con persone cui non si ha nulla da chiedere. Esse ci sono sommamente indifferenti, ci sono un gioco, un pretesto di posa, come animali (che non mordono).
È quanto si dice chiamando superiore il contegno sopradescritto. Ma appena si ha da chiedere qualcosa, non si è più nemmeno uguali, ma inferiori, per la ragione che l'altro potrebbe negarcelo. Il perfetto stile (tuoi rapporti con Dina) nasce dalla totale indifferenza.
Ecco perchè si ama sempre follemente chi ci tratta con indifferenza: essa è stile, è fascino di classe, è amabilità".
Cesare Pavese

giovedì 1 agosto 2013

Primo agosto:

Partenze
Ronzanti
Isolate
Mostrano
Occhialini
Appannati
Giovanotti
Orientano
Sigarette
Turche(si)
Oziando.