mercoledì 31 luglio 2013

Isola ed evocazione del segno

La sagoma di un'isola ha il profilo celeste. A quest'ora, nel vento, non sembra fatta ma sognata.
Le parole cercano di resistere a quello che un'immagine accenna o accentua. Eppure la forza evocativa del segno è proprio quella che dispensa maggiore profondità nell'immaginare quello che sarebbe o che potrebbe essere, al di là del suo semplice visto e suggerito all'infarto fiutato del codice, del suo fato. Se invece, al posto di quel timido rigo del mio inizio, avessi inserito una foto perfetta e luminosa dell'isola in questione, avrei ottenuto un effetto completamente diverso. Avrei dato una definizione dell'isola molto meno esatta, accurata e precisa di quella che adesso vedo, sento e concedo a qualche mio sparuto lettore, pur nella sua incertezza e vaghezza. 
il rarefatto contro l'esatto di un fatto: non si tratta ora di una precisazione tecnica, ma del fatto che quell'occhio che scatta non ha visto quello che io sento, guardando l'isola. Anche se la foto eventualmente inserita fosse stata scattata da me, in prima persona e nello stesso istante di visione, non avrebbe raggiunto, con la stessa dolorosa facilità, l'evanescenza evocativa del simbolo, la sua sagoma nel mio guado, è il caso di dirlo, che ha sempre un suo sottosuolo parallelo e insieme alternativo, primigenio di pura espressione autoctona e antieconomica. La descrizione con la parola ha una grana antica e anche molto moderna di sottomissione e alterazione del reale, tra l'istante di suzione dello stesso, al passaggio traumatico verso lo schizzo vivo. La possibilità di scomposizione dei fattori descrittivi, più che la facoltà di comporli, rimane il miraggio di chi vuol far vedere immagini attraverso il buio di un segno. La fotografia ha modificato e marcato il territorio pittorico, così il cinema ha rinfrescato lo sguardo su certi territori, o forse da Baudelaire sarà nato l'impianto primo del moto limpido nella tenebra, le prime penombre di candele alla finestra, la poetica del comune, del reale ordinario e svogliato che diventa altro e che trascina l'occhio in un ruscello fognario ma insieme stellato e metasublime.
Lavorare col segno per restituire all'isola la dimensione ventilante e insieme vacillante del presente, può comportare cesellature infinite e spasmodiche, a patto che il risultato non sia una stanza chiusa, ma la promessa di un'altra nuova isola, ripresa, attraverso quella sagoma, in un altro profilo, in un altro celeste, in un'altra ora, in un altro vento, in un altro fatto, in un altro sogno e relativo segno di sogno.
Da qui, forse, si possono misurare le smisurate potenzialità di un occhio surreale e assediante, come unico (anti)metro ancora attendibile per definire e smisurare il  fato del reale, o destinare,  e non saremmo poi così lontani, la tremolante figura del primo rigo di questo post, al disegno impreciso di un bambino di quattro anni, disteso per terra, che probabimente avrà scambiato e scanzonato la stessa sagoma per un mostro marino, per una grande nave pirata, una  macchina spaziale o una balena.

lunedì 29 luglio 2013

Quel muso puntato alle spalle

Conosco Remo Bassini come scrittore (è uno scrittore vero e di razza purissima, secondo me) e  ho qualche indizio della sua persona, dei suoi interessi, delle sue vedute, attraverso il suo blog
Remo oggi ha perso il suo cane.
Ne parla qui, in uno scritto breve ma dalla tenerezza incendiaria, che questa mattina presto mi ha lasciato sospeso, senza fiato né parole. 
Eccolo: Toby. La prima notte di quiete.

domenica 28 luglio 2013

Dire nel tradire: per bene mai per meglio

Nell'esplorazione di un proprio personale linguaggio, che sia depositario di uno spasmo espressivo, incontenibile, si nasconde in diversi casi la tenia di un certo compiacimento al dire per il solo dire e quindi tradire lo stimolo originario e puro di quell'espressione, relegandolo a solo atto autoreferenziale, spesso smosso da impulsi fiacchi, pretestuosi, vacillanti, meccanici e celebrativi se non competitivi.
Il modo di dire, o meglio il nodo e lo snodo catatonico di dire ancora, dovrebbe convivere con la possibilità di questo costante tradirsi e  tradire, spesso un tradimento senza architetture, ma sragionato e originato dalla stessa patina di fedeltà a un proprio falso arsenale-ideale espressivo, al quale si è relati per noia mortale o per semplice vezzo metaadolescenziale, orchestrato come gesto ribelle e dispettoso a una saggia poetica del silenzio.
Dire sarà ancora tradire, lo avverto, quando rileggo le dinamiche che mi portano a scegliere una certa strada. Quanto sia davvero indispensabile quel certo percorso, forse utopico, rispetto a tanto altro che ho accantonato? La tenia disturba la pace instabile del flusso, spesso con riflessi variegati, in altri casi smuovendo l'acqua con un polso tenace che cerca e succhia il liscio dei sassi, nel letto del fiumiciattolo, spaventando a morte la povera trota.
La strada maestra è intrisa di infinite solitudini, di pazzia e di inesattezza. Non sarò mai così esatto, se il mio linguaggio fasullo spesso diventa un vestito nero cortissimo, un richiamo, la coda del pavone, il rosso della Ferrari o del mestruo, il culo morbido che sconfina e zampilla da un pantaloncino corto, la gentilezza fascista del rasoio, la mollica dura del pugnale, la voracità di un topo bianco, che divora un cuore e lo smozzica dalle sbarre azzurre di uno sterno umano. L'esattezza opaca di un procedimento non risponde a calcoli troppo ortodossi, ma si evolve in un fluire ammaliato di regolette diverse e di medicine, che diventano armoniche nella loro purezza di regime e fanciullezza anarchica. Esiste un'etica sobria del dire e dell'esprimersi a patto che si abbandoni la certezza della propria voce bianca, il tono lupo del canto noto o cantus firmus, su cui disciplinare, come piccoli chimici, il paradiso perduto di un cataclisma artefatto, dove nemmeno il fumo ha più un odore, ma è solo patina di un disegno sbiadito, successione barocca di cluster  e di tritoni ostinati, diabolici e infetti, intrisi di muco e di miele di castagno.
Se invece avverto disgusto, un disgusto raggelante e diffuso per tutto quello che cedo e che vedo, che sento, che incontro, ho già tradito, non appena occupo uno spazio bianco dove cominciare a dire qualcosa, ho già tradito, ancora prima di tracciare con la punta di un dito o di un cucchiaino la mia sola intenzione e costruzione di parola,  che è già incubata e originata disonesta. Quel profondo disgusto sarà edulcorato da una mia certa costrizione contratta, che non potrà mai raggiungere la schiuma vorace dello sputo, la rogna sarcoptica tra i brandelli sparsi di questo tempo claustrovisivo, ostile e arido di clausure, di gabbie zincate, di sordità, ma solo una sua lieve penombra mediterranea, costellata da tumuli di sdraio a righe colorate e musiche atroci da film.
Una dedizione della parola scritta, è forse la possibilità di elidere o eludere la sorveglianza del tradire nel dire, perché in una dedica cerchi di recuperare la generosità del gesto, contro la logica asettica del mero compiacimento, o flutter atriale del solo getto infiammato e contento. Scrivere per qualcuno che me lo chiede, per esempio, come qualcuno a cui viene chiesta la cortesia di una commissione, e che ritorna con una busta colma di pane, che morde a sbafo dalla punta dorata, poco prima di salire le scale bagnate, senza ritegno, contegno né appetito.

Per dire qualcosa di mio, dovrei solo dimenticarlo, ucciderlo, scalfirlo e sacrificarlo, quindi dedicarlo. Ma non tradirlo nel dirlo.
Tacerlo, forse. Sarebbe l'unico svincolo di purezza. Per il suo bene, mai per il suo meglio.

giovedì 25 luglio 2013

"La collezione Lancourt", di Manuela Giacchetta: il booktrailer

Ho scritto e ho lavorato in tutte le fasi di elaborazione di questo booktrailer del romanzo "La collezione Lancourt" Las Vegas Edizioni, insieme a Fabrizio Fiore, filmaker e in questo caso anche montatore, e all'autrice  Manuela Giacchetta, la quale ha anche dato la sua voce agli estratti del suo testo.
Ecco il frutto di questa nostra collaborazione:


mercoledì 24 luglio 2013

Moonlight: (haiku)

Sbanda la luna
nel fumo di cucina
la tua slavina.

domenica 21 luglio 2013

Museo e mercato nell'avanguardia


"L'ingresso del dadaismo (come di ogni altra avanguardia) tra le pareti asettiche del museo, è parallelo e complementare al suo ingresso sopra i sudici banchi del mercato. Il museo e il mercato sono assolutamente contigui e comunicanti, anzi sono le due facciate di un medesimo edificio sociale: il prezzo e il pregio si identificano, agendo rispettivamente sopra il versante praticamente attivo o teoricamente ozioso del fenomeno estetico.
Se il museo è la figura reale dell'autonomia dell'arte, esso è insieme la figura compensatrice della sua eteronomia mercantile. L'arte discende sì al livello del mercato, ma da questo bagno salutare di rugosa realtà, di stimolante concretezza, viene poi immediatamente ribaltata nell'alto e inoffensivo olimpo dei classici. 
Il processo rimane misterioso, finché non sia colto nella totalità del suo meccanismo, finché cioè non si comprenda che il museo ha la sua specifica ragione d'essere nella sublimazione che ivi avviene di tutta la realtà commerciale del fatto estetico: è il prolungamento superiore ed estremo dell'arte come merce, dove, placandosi alfine il tumulto violento del denaro, la realtà nasconde la testa tra le nuvole, e il prodotto artistico sta come quella cosa che non c'è somma che la possa pagare".

Edoardo Sanguineti- Ideologia e linguaggio.

sabato 20 luglio 2013

Con un nodo alla gola

Ieri sera cercavi i tuoi amici, che ti avevano promesso di arrivare, al solito posto di sempre. Io li aspettavo con te. Ogni tanto ti allontanavi per controllare se in quella maglietta verde c'era Agostino, ma poi ritornavi deluso e stanco morto, al pensiero di essere stato un po' tradito da un appuntamento mancato, da un torto. E io ti guardavo svanire e poi ricomparire, nelle ombre degli alberi, tra le figure surreali di un dopocena estivo. Una donna bruna, sedeva su di un muretto, lo sguardo scuro e molto lontano, accavallando le gambe da un vestito stretto e blu avio. Una ragazza sprofondava in una grande cesta circolare oscillante; di lei solo le ginocchia e il display luminoso di un cellulare. Poco dopo  la ragazza ha raggiunto la donna e io intanto ti cercavo e non ti trovavo più. Ma dov'eri finito, eri su di un'altalena, deluso dall'incalzare del ritardo, accanto a te dondolava un ragazzino di circa dodici anni, che attendeva che il tuo posto si liberasse per dondolare con una sua amica accanto, probabile fidanzata imbronciantissima. Quando sei balzato via, schizzando a terra, la ragazzina ha preso il tuo posto e l'altro ha esultato, mentre tu eri tutto sporco di terreno, con l'espressione di chi non trova pace nel suo esser solo. Quanto avrei voluto che i tuoi piccoli amici ti raggiungessero, eppure il tempo passava, la tua bicicletta abbandonata ai bordi della piccola pista di pattinaggio. Il tempo di guardarla che svanisci di nuovo. Stavolta per più tempo. Comincio a vagare nelle possibili direzioni, adesso un bel rimprovero te lo dovevo: possibile che non ti accorgi mai di quanto sia pericoloso allontanarti all'improvviso, dentro un parco alberato che si annera, sul mare? E invece di colpo ti ritrovo, eri diventato gioioso e scalpitante come un lampeggio di temporale, – e forse per questo motivo ancora più triste e più solo. Mi sono fermato a guardarti, con una stretta al cuore: erano arrivati i tuoi amici e tu eri già perduto a consolarti, con una corsa impazzita, del loro ritardo già dimenticato. Ho guardato la tua bici abbandonata, con un nodo alla gola.
Poco dopo vi siete avvicinati insieme,  così felici da non riuscire a parlare. Non così la donna e la ragazza, di spalle e verso l'uscita, ma più lontane. 

mercoledì 17 luglio 2013

Dentro i nodi di un costume

Ho capito che dovevo scrivere cinema, quando moltissimo tempo fa ho osservato una donna che cercava di allacciarsi un nodo di un costume da bagno dietro la nuca, con una grande piccola fatica, ma insieme con eleganza e con mistero. Il gesto di ripristino di quel nodo era una situazione molto meno comune di quella che un gesto ordinario può rilevare a un ragazzo che guarda ogni cosa con dolore. 
In quel momento le dita di quella donna indaffarate nel buio del nodo – la donna muove sempre le dita al buio, non solo quando si allaccia da sola un costume da bagno – erano il  mio primo cilicio. Di solito l'allaccio del nodo alla nuca bagnata è un gesto molto intimo, per quella sua disinvoltura nelle tenebre, insieme a quella sua delicatezza materna e selvatica. E io cercavo di capire come dire quello che provavo e che sentivo e pativo in quel momento, del mistero di una donna senza viso, quasi sottoposta allo sforzo e all'impaccio di annodarsi alla nuca quelle stringhe nere, così luttuose e sfilanti, ma anche bagnate dalle cuscinate delle onde. Il suo collo, la sua nuca fascista, ma soprattutto la posizione particolare dove le mani dovevano risolvere quel rebus, e io non avrei mai saputo e visto quello che in quel momento dell'allaccio quella donna vedeva o non vedeva se una pinna di squalo o quella forma di sottile costrizione dolorosa nella quale pagava il prezzo del suo fascino girato di schiena, la sua bellezza trafitta dal sadismo di un ago da sellaio, di un filo spinato.
Lo stesso nodo che mi ha incantato l'altra sera, nel vedere giocare con mio nipote al calcio balilla una ragazzina diabetica e bravissima, dietro i suoi grandi occhiali la freschezza roteante della pallina, che incatenava i suoi occhi stanchi di un'intera giornata, come se smossi da una tromba marina; così la radice amara dei miei sogni e la loro rapina nella profondità di un bosco feroce, dove incontrare, in una notte spaventosa, l'abbrivio di Dio.

domenica 14 luglio 2013

L'abbraccio dedicato

A volte mi chiedo se sia una questione di tempi, di quegli istanti particolarissimi e preziosi, che spesso si organizzano al mio passaggio, nemmeno dovessero fingersi veri e credibili per la mia sola figura testimoniante.
Nemmeno mezz'ora fa, ero sui gradini di un ponte metallico, che divide la darsena portuale da un parco alberato urbano di una cittadina laziale, quando scorgo due donne, una appena più giovane dell'altra, che si scambiano qualcosa,  forse un piccolo regalo – credo quella con gli occhiali e con i capelli legati e portati all'altezza di una spalla, ma da un solo lato, che ha dato qualcosa all'altra. Rimango sospeso ma continuo a salire e una volta sopra, sul ponte, a pochi centimetri da entrambe, le vedo abbracciate, in un abbraccio forte, emozionante, stretto come un nodo da marinaio alle imbarcazioni poco lontane, che già si scorgevano dall'altra parte del ponte.
L'abbraccio è continuato per tutto il mio passaggio. Lo sentivo anche quando non le guardavo più. Quella con gli occhiali aveva la testa coricata sulla spalla dell'altra e sorrideva e l'altra anche sorrideva, senza dirsi.
E io passavo dall'altra parte e le guardavo ancora, così unite nel sole di questa domenica, pensando a quanto facciano bene certe immagini, quanto siano eloquenti, colte, lontane,  tra le darsene e i parchi alberati del mondo, in questa tenerezza così asciutta e sconfinata, che è solo patrimonio e matrimonio delle donne con il loro dolore.
Dedico questo abbraccio tra donne, a tutte le mie amiche importanti, alla loro possibilità di essere accudite e nutrite nel tempo dalla speranza di questo gesto potente e delicato, che rimanga fermo e contento, nel suo centro tonale, contro il gelo e le contrazioni di questo cattivo tempo e che le renda abitate dalla stessa luce azzurrina che ha raggiunto le vele sulla darsena, mentre mettevo già in moto e ripartivo.

sabato 13 luglio 2013

Lezioni di surf


Allora poi mi vieni a vedere, vero?
Alle dieci, puntuale, d'accordo...e così scendevo prima, con l'auto, per raggiungerti e assistere a una tua lezione.
Gli occhi ancora di sonno mi hanno subito visto arrivare e si sono emozionati. Così come era emozionato il tuo sorriso di sorpresa, i passi scherzosi e le tue ginocchia perfette nei pantaloncini azzurri e bagnati.
Una giornata meravigliosa e benefica, con una calma diffusa in ogni sua cellula, come in un'arietta d'Opera. I tuoi preparativi, appena un po' impacciati, ai quali assisto muto, le braccia conserte, gli occhiali da sole a murarmi una qualsiasi espressione di imbarazzo o gestazione di una certa intimità, nell'essere l'unico invitato privilegiato a presenziare al tuo piccolo numero.
La partenza asseconda il fruscio della tavola e la tua figura romantica per qualche tempo mi ignora, per eseguire le indicazioni tecniche impartite. Eppure in quei momenti sono dentro il tuo pugno, come una stella marina ancora porosa e non ancora inchiodata. Assisto allo spettacolo seguendo la tua scrittura della scia nel suo specchio marittimo, e pensando a quanto valgano di più quelle parole che scrivi sull'acqua, contro quelle congegnate, elaborate, filtrate da me in luoghi troppo chiusi e appartati. Quanto sfumano e impallidiscono le mie parole contro il silenzio infinito di questi gesti, fatti di tendini, dell'arcata di un tuo fianco pieno, dei capelli che ti discendono sugli occhi e del tuo bel disegno in eclissi.  Ancora molto più lontano, quasi irriconoscibile, ma poi ritorni indietro e alzi il viso per controllare se io ci sono. 
Non è avvenuta nessuna caduta, il tuo equilibrio è tenace e impeccabile. Le braccia tese sono le stesse che ho sentito allacciate al collo, quasi a spezzarmelo, e adesso combattono con il vento e la stanchezza felice dello sforzo.
Alle dieci, puntuale, d'accordo, e ancora ancora rischiavo di non arrivare per tempo, forse qualcosa dentro di me voleva trattenermi da questo spettacolo incantevole e così malinconico di bravura, da questi baci di sguardi rubati, dedicati alla mia sola esistenza, con la tua paura di sbagliare qualcosa, di farmi perdere la prima fila nella brezza di quell'equilibrio in pericolo, covato nel fondo fresco e ripido del mio sguardo.
Quando ti ho fatto segno che dovevo andare, ho percepito una scia di dolore, molto palpabile, che ti partiva dagli occhi, dalla tua magrezza e solitudine argentina, riflessa nella dolcezza cupa del mare.
Non mi hai detto niente, hai solo sorriso, forse credevi fossi rimasto più a lungo. 
Ritornando, la strada luccicava di belle ragazze, di quelle che si svegliano tardi, con gli sguardi ancora immersi nel sonno e nella tua  stessa delusione che si ingannava felice. Belle ma anche tristissime, e un po' spericolate come te:

venerdì 12 luglio 2013

Come le cose lontane

Ho ricevuto una mail importante alle 2.55 del mattino e alle 04.21 sono ritornato lontano e dentro di me, nel mistero notturno del mattino. Da qui si avviluppano ombre fitte e il ronzare delle pale al soffitto che friggono e vegliano.
Ieri sera, era già buio, e tu eri sulla bicicletta e mi aspettavi. Eri dentro i miei occhi in tutto il tuo leggero ansimare, sfiorando e distando, nello stesso tempo d' inganno. Al ritorno, io sempre a piedi, hai soffiato sulla candela di un dancing quasi a spegnerla e hai proseguito. La tua nuca sempre più furba e rapida verso l'inizio a ritroso di via Tito Scipione, che è calato nel nero più fitto. Tutti i bei lampioni allineati spenti, come se quel tuo soffio avesse colpito a morte e per gioco, dentro il tuo sorriso che mi guardava, tutto l'impianto della fettuccia di costa e tu avanzavi nel mio stesso nostro imbrunire. A metà strada le luci di una festa e ritorni a galla, quando ti fermo con un braccio e ti dico: vogliamo fingere di essere invitati e ci infiliamo, e allora il tuo sorriso dal buio si apre in una stretta dolorosa di gioia e di complicità, come un filo di vento dal vicoletto Miglio. Hai risposto con la purezza dei tuoi occhi lucidi a voler tentare con me questa follia clandestina di imbucarci in un luogo di gioia che non ci spettava, il golfino appena aperto dalla bicicletta, le luci basse delle lampadine riflesse sul manubrio dove ti curvi appena. Affidarti a me, a perderci dentro nugoli di invitati e di invitate, come nel fumo di un incendio, quando il litorale notturno ci stringe ancora di più del suo petrolio e paradiso lussuoso, lo stesso del tuo costume stretto e invitante che molti ti ammirano, il segno dolce del filo annodato alla nuca dalle clavicole, e tu prosegui, ancora di più, ormai fuori sortilegio. Quando mi hai preso di spalle, con il fiatone e mi hai tirato la maglietta rossa, c'era ancora una luce grandissima, adesso è tutto così pauroso e ancora nostro quanto estraneo, come quando hai perso il fiocco elastico che tenevi nei capelli alzati nella pioggia e io te l'ho trovato e te l'ho ridato,  con le mani bagnate di te, e te lo sei messo al polso, come se fossi un mio dono...forse è stato solo ieri, ma allora tu dov'eri...
L'ultimo tratto di nero, poi tre, quattro lampioni funzionanti, lontani dal gioco un po' stupido del tuo soffio rupestre. Che cosa rimane delle cose lontane, dei miei passi contro le tue pedalate senza vento, la tua figura di sera è grande e insieme magrina ma dal seno forte,  che mi riempie gli anni dei  giorni, come le cose lontane che ho perduto e che ho tenuto con me solo perché mai state. Quanto è lungo questo pensiero in questo deserto dell'alba, a quest'ora avrai chiuso gli occhi da tempo e sei di nuovo a piedi. Come le cose lontane, che non cominciano e non finiscono mai.

mercoledì 10 luglio 2013

Urbancreactivity: qui comincia l'avventura...

...di una città: urbancreactivity

martedì 9 luglio 2013

La richiesta della passeggiata

(Dedicato a B. e a V. contro i marchi bovini del tiepidume ustionante).

Pensando...alla richiesta di una passeggiata, fino a pochi giorni fa mi è successo di godere di questo invito all'intimità delicata e incerta del camminare insieme, senza meta. Una bellissima passeggiata che rimane eterna nella possibilità delle sue ombre al paesaggio, che non sarà più lo stesso dopo il graffio dei passi in comune, rallentati, adattati, modificati al sentimento di chi ti cammina accanto.
Persone di età, sesso, stato, condizioni diverse, hanno dimostrato sempre un grande piacere di ripetere con me uno stesso percorso di passeggiata. Che cosa incantevole il passeggiare e soprattutto il sapere che quella passeggiata mi è stata dedicata perché richiesta e non sarebbe mai stata la stessa senza di me, il mio passo, i miei silenzi, le mie parole dette e non dette e così senza i passi, i silenzi, le parole dette o non dette dell'altro/a.
Eppure io passeggio molto da solo, spesso raggiungo le punte bianche delle vele, oltrepasso il traffico degli skipper, e rasento la costa e non mi dico altro. Quando qualcuno è con me, qualcuno che mi ha chiesto di camminare con lui, non ci diciamo altro, ma cambiano gli oggetti, le rifrazioni, le figure, i colori e le ombre che ci avvolgono e ci appannano. Tutto rimane impalpabile e segreto, come qualcosa di non detto, di mai detto, che potrebbe essermi confidato, in quell'occasione di affiatamento che potrebbe e vorrebbe protrarsi all'infinito se solo cedessi a proseguire quando qualcuno mi fa: continuiamo ancora? E non sempre io riesco a trovare una risposta appropriata al tipo di esigenza. Qualche volta ho proseguito, quasi sempre ho proseguito ancora e ho atteso che dalle parole del mio compagno o compagna di strada, uscisse qualcosa che motivasse la mia presenza esclusiva e richiesta accanto a lui o a lei o a loro. Perché proprio io, ma forse per il mio ascoltare, ascoltare, senza stancare e anche perché quando io parlo ascolto e forse non stanco troppo, immagino di sì o che ne so. Non ho mai notato distrazione nei passi, nella direzione. Nel passeggiare insieme si svela il sentire comune di una certa luce di accudimento, dai ricordi di tante altre passeggiate perdute in un dispiacere o tenute ferme e murate dentro una sacca di angoscia. Passeggiate semmai non richieste ma sofferte e patite, nelle prime luci della sera, a volte le prime che sapevano già di ultimo e di atroce, di latte o di confine estremo alla soglia ansiosa di un grande dolore, di una stronzata, di un'ossessione.
Quando qualcuno mi chiede di camminare con lui, mi fa capire che quei passi insieme sono una richiesta di affetto perduto e tradito, o forse di amore per il primo spettacolo dei miei passi nella sua vita, per la mia figura magra e sconosciuta, che non assale e non verifica né mortifica, e che forse nemmeno c'è...quando si incammina e il vento se la gioca nella sua rapina.
Passeggiare ancora insieme e senza molte parole, in un mondo che prende alle spalle e alla gola, che ti grida addosso e ti scotta, che ostenta frasi e giudizi come lanciatori di coltelli da cucina, rimane una piccola speranza di delicatezza contro la spocchia d'assalto dei vulcani minori e le loro sentenze tremende di lava. Una speranza che brucia forte, e che non ci passi mai...

venerdì 5 luglio 2013

Chiudendo una finestra

Chiudendo una finestra, un punto stellato, sulla notte che ammanta le campagne marine.
Una stella forte e insulare come un pianeta.
Passa un treno. Sferraglia, svanisce. 
La finestra aperta lascia l'aria zingara e delicata di quella stella rapprendermi di ansia, dove avverto la mia solitudine come un aperitivo notturno con Dio. La gabbia del non sentirsi amati, nel silenzio assoluto, nemmeno un filo di anima  e di respiro, ma quanto mi costa tutto questo? Esisto davvero, allora?

giovedì 4 luglio 2013

L'ombra del disagio

È questa penombra che si fa ombra e mi allontana, sempre di più, da questo impero di numeriche che riguardano gli esseri umani, conteggiati nelle proprie relazioni sui social, ostentati, come se fossero un bel sedere, un muscolo. Ho più amici di te, guarda quanti, a volte mi ricorda i ragazzini che misurano la loro massa virile dai pantaloni: che orrore...Ho più amici di te che poi è come dire: ce l'ho più lungo o comunque sono più in gamba, popolare, efficace. Ho più seno, sono più alto, più forte, più capace, seduttivo, appariscente, importante, performante, devastante.
Tutto questo non mi appartiene e mi incupisce.
Preferisco l'ombra, la solitudine, che non potrà mai essere enumerata, brandita, ostentata. Conteggiata.
Il mio disagio è puro e senza fondo. Senza numeriche, classifiche, resoconti e statistiche di sorta.
Vorrei avere uno zero, uno zero schiacciante che mi cancelli dal conteggio ossessivo, dalle adesioni che ormai hanno intrappolato il mondo. Uno zero  che mi risucchi nelle sue sabbie mobili, senza speranza.
Sono fatto di tutto quello che non ho enumerato, inventariato, inquinanto dal potere del numero che mi quantifica. Sono fatto dei numeri e dei primati sociali che non ho mai raggiunto; sono la mia sola ricchezza, la mia identità senza codici. Sono fatto della qualità del poco che ho faticato ad avere.
È per questo che sto meditando un cambiamento.