giovedì 30 maggio 2013

Non vorrei che tu mi sopravvalutassi:

Ci si circonda, spesso, di persone che ci vedono nella stessa luce nella quale immaginiamo di essere visti. Che ci reputano bravi nelle cose in cui crediamo e speriamo di primeggiare, importanti, utili. L' importante è che nella corte dei nostri interlocutori spicchino soggetti competenti ma spettatori, quindi artisti inutili e inefficienti, e che siano circondati nelle loro frequentazioni da persone inferiori a noi, o quanto meno all'immagine che ci siamo fatta di noi. Che sappiano distinguere la qualità della nostra seta rispetto alla melma circostante e che siano intimiditi dalla nostra possenza, dal nostro profumo, a tal punto da non lavarsi il palmo di una mano per giorni, dopo avercela stretta per qualche secondo. 
Di fronte a un tale e conclamato successo, ci si diverte a giocare alla sottrazione, recitando un ruolo fasullo di ostentata umiltà che è ben lontano da quel comportamento di dominatori che ci gratifica e ci stabilizza, consentendoci di far perdurare quel tipo di frequentazione all'infinito, fin quando i conti tornino sempre a nostro favore e nessuna altra figura ci sostituisca o ci offuschi. In quel caso, nel caso di un'eventuale sostituzione, quelle persone non andranno più bene, molto spesso saranno maledette, allontanate, criticate allo sfinimento davanti ad altre persone che fino a qualche giorno prima erano oggetto di quelle stesse critiche.
Io sono fatto in modo del tutto diverso: non dico a molti quello che faccio di preciso. Lo faccio di nascosto, come qualcuno che sta rubando qualcosa nel buio. Eppure nella mia vita non ho mai rubato e non ho alcun motivo di nascondere nulla di quello che ho e di quello che faccio. Sono impaurito da me e ho sempre la tentazione di essere di troppo, di fare rumore, anche solo scrivendo.
Stamattina, parlando al telefono con una mia amica, che tra l'altro mi sta affidando un incarico delicato e molto importante, quanto emozionante e bellissimo, ma bellissimo sul serio – del quale avrò anche modo di parlarne, più in là – a un certo punto della conversazione le ho detto: non vorrei però che tu mi sopravvalutassi, qualcosa del genere.
Quando si parla o si dicono certe cose, non sempre le si controlla o forse quelle stesse cose che si dicono sono loro a prendere la parola alle tue spalle, a imbrigliare per qualche istante il tuo discorso e a dirottarlo. Come se fossi sempre attraversato, nelle mie elaborazioni, da un filo logico, più o meno continuo e coerente, e da una serie di altri frammenti di finzione o di metafinzione, spesso preconcettuali, che emergono e si intrecciano in contrappunto al primo filo.
Riflettendo su quello che all'improvviso le ho detto, riguardo alla possibilità o all'ipotesi di una sua eventuale sopravvalutazione della mia persona e quindi del mio operato, mi sono accorto che quel tipo di espressione non è stata affatto casuale, ma che poteva addirittura essere interpretata in più modi diversi – per mia fortuna avevo e ho a che fare con una persona intelligente, talentuosissima e tanto altro, quanto sensibile e generosa, per cui. In ogni modo: queste che seguono le possibili interpretazioni che darei io, personalmente, di fronte a chi mi dice "Non vorrei che tu mi sopravvalutassi":

1) Falsa modestia: mi sottovaluto per farmi tirare su, un po' su o anche molto, molto su;  è una tattica molto diffusa per scoprire quanto ti pesa davvero chi ti parla. La stessa tattica funziona molto bene quando hai dall'altra parte soggetti che sono in tua adorazione, quelli che pendono dalle tue labbra senza sapere chi sei e dimenticando il tuo nome. Ma se qualcuno di questi non risponde come vorresti, e dice che in effetti non sei  niente di speciale, confermando in un certo modo quello tu hai appena detto, il piano è fallito e si ritorce contro di te.

2) Mancanza totale di stima e di fiducia in chi ti dà fiducia. Se qualcuno si fida di me, di solito sa bene il perché lo fa. Se io gli dico "Guarda che non è come o quanto credi" un po' è come dirgli che non ha tanto fiuto, e quindi sono io che sottovaluto lui. Quando siamo noi stessi a ricevere un atto di fiducia, di stima, di generosità, spesso non riusciamo a distaccarci dalla nostra prospettiva claustrofobica di visione, e viviamo un nostro copione stracciato, per cui l'altro, di solito, è solo un tramite per dare voce al nostro piccolo show. (Quante ne ho viste e ne vedo, anche sulla mia pelle).

3) Reale mancanza di fiducia in se stessi: anche se di solito chi è davvero sfiduciato è difficile che si esponga e che agisca. Io non mi sognerei mai di fare una partita a biliardo, non avendo mai giocato e nemmeno avrei il desiderio di fare pratica in qualcosa in cui non sono ferrato. Mi dedicherei a cose più vicine al mio mondo, perfezionando solo quelle che avverto come abilità. Di solito ci si espone in cose dove si avverte di valere quel minimo, anche senza eccellere, altrimenti le cose si fanno dure e si lasciano andare. Dunque: chi è insicuro non ha nemmeno la sicurezza che sia giusto sottovalutare chi ti ha dato la sua fiducia, sopravvalutandoti. Andiamo avanti.

4) Bluff: molto simile al punto 1, ma in questo caso è più marcato e macchinoso, quanto feroce. Rispetto a chi agisce per falsa modestia, colui che sta bluffando bluffa su ogni piano di quella relazione, e non soltanto sul piccolo stratagemma in cui gioca a svalorizzarsi. Bluffa fin dal principio e utilizzerà tutti i tasselli di quel mosaico di circostanze, di occasioni, di momenti tra i più svariati, per giocare d'azzardo in quel piano relazionale, tradendo tutta la generosità, la stima e l'affetto che gli sono stati dati, credendo che l'altra persona trovandosi al suo posto agirebbe allo stesso modo, quindi per convenienza: così va il mondo, adesso tocca a me e questa cosa me la prendo e me la gioco così! Sarà tutto calcolato: un copione vero e proprio che deve puntare a un finale. Mi prendo la tua stima, fingo di non meritarla, ma solo perché mi serve. Vi sarà un momento in cui avrò preso quello che mi serviva e passerò avanti, dimenticandoti. Per sempre. Perché io bluffo e non ho altro motivo di avvicinarmi a te se non per portare avanti la mia partita, a modo mio.
Quanto è comune e dolorosa questa condizione, specie tra molte persone che inseguono un certo sogno di espressione. Contornarsi di amici, utilizzandoli come ponti levatoi per passare il fossato, e alla fine, una volta dentro...insomma, ne ho viste di situazioni simili. Gettare un amico in un fossato è una cosa che mi dà i brividi.
Adesso veniamo a me:

5)  Non posso immaginarmi agli occhi di un altro. Non ho uno specchio per pettinarmi quando lavoro a un mio progetto, non so come sarò, spesso avverto il mio broncio – quando scrivo mi sento la faccia agguantata in un broncio, mi sento il graffio del broncio, senza vedermi. Sono in una cena al buio con la mia vita. Chi mi dà fiducia mi emoziona e mi paralizza. Mi dà una mano nel buio e io non tradirò un gesto di fiducia se non con la massima responsabilità,  umiltà e il massimo rispetto per la persona che mi è davanti e accanto, per il suo mondo, per il suo tempo dedicato e investito,  che è molto più importante di me, di quello che dico o che penso di fare e di quanto immagini o pensi di valere per quel dato incarico che mi è stato offerto. 
Non saprò mai il mio valore autentico, ma in effetti nessuno lo saprà davvero. E anche il proprio valore autentico, una volta riconosciuto, sbiadirà e sarà fumo, come saranno fumo i nostri visi, le mie parole, i nostri nomi, i nostri sogni, i bluff, la mancanza di fiducia, la presunzione, la sottomissione, il potere, questo stesso post, ma non quel gesto di fiducia, quello non morirà mai. Quella fiducia avrà molto più valore del valore che pensiamo di avere per essercelo meritato. Io valgo per quanto ho dato, non per quanto penso di valere per qualcosa che ho fatto, perché forse avrò avuto il dono di farla in un certo modo – non si vale per i doni ricevuti, ma per quelli regalati.
Che senso ha chiedere a qualcuno quanto io valgo, o quanto io pesi, o quanto sia alto o basso o bello o brutto, o simpatico, moderno, interessante? Se la mia pratica creativa  dovesse limitarsi alla ricerca di una valutazione, di una conferma, di una verità precostituita, di uno standard di eccellenza a cui ambisco e che è l'unico motore che mi muove, allora dovrei puntarmi una doppietta alla bocca, ancora prima di cominciare.
Se dovessi ragionare in base alle valutazioni personali delle molte persone che mi conoscono, sarò una persona diversa per ciascuno di loro, come nella prospettiva della visione a mosaico di un insetto o dei numerosi ommatidi della mosca domestica.

Tornando indietro, e riavvolgendo il nastro, quello che ho detto alla mia amica, è nato dal punto numero 5,  ed era un qualcosa di nebbioso, insensato, ma forse frutto di un disagio sottile e interiore ma non certo macchinoso, che mi fa chiedere sempre permesso, prima di entrare, di scrivere, di parlare, di cominciare. Che non mi fa considerare un atto di fiducia come una possibilità di potere, un atto dovuto, ma come una prova di umiltà, di miglioramento, di condivisione di un percorso di possibile bellezza, che sarà sempre unico e insostituibile in un'esistenza.
Ecco allora perché...
Non saprò mai se quello che sto facendo avrà o non avrà un valore, dove saranno le prove, i testimoni, gli avvocati, gli estimatori, i banditori d'asta? Quello che invece so è l'espressione di accoglienza ricevuta ieri mattina, quando ho fatto una sopresa alla mia amica inglese e a suo marito, andandoli  a trovare nel loro nuovo negozio. Ho varcato la soglia, un po' di corsa, con gli occhiali da sole e  ho visto che hanno alzato entrambi la testa, con un'espressione stupita e indimenticabile e mi hanno detto: "Nooooooo!". 
Ecco, questo è quello che so e non è misurabile. Che cosa potrei mai chiedere di più alla mia vita? 

mercoledì 29 maggio 2013

Sotto la tenda di una squaw...

Le persone che incontro, quelle che incontro davvero, diventano parti di me. Diventano me. I miei amici, uomini o donne, uccelli, metronotte o pinne di pescecani, non sono miei ma sono me. Mi trasformano e si fondono con la mia vita, i miei giorni sono i loro capelli o le loro ciglia i miei minuti, i loro occhi le mie parole, il mio muso quando scrivo, le mie pizzerie, i miei caffè, il mio ascensore, le mie scale. Ciascuno una parte preziosa e insostituibile. Unica.
Sono quasi sempre nostalgia di sapere che tempo fa nella loro vita quando da me piove forte, il desiderio di addormentarmi anche io dentro di loro, un minuto o forse un secolo, ma senza saperlo mai dire. Parlare o scrivermi con loro è più importante della scrittura di un romanzo. 
Io vivo un carico inaudito di rispetto e insieme di dolore per la figura di chi mi attraversa e si concede in un'amiciza senza confini, senza tempo, senza regole. Ma ho anche paura di invadere e di essere di troppo, è stata sempre una mia paura. Per cui cerco di fare piano, di non fare rumore, di non togliere luce.
Una grande amicizia  per me è un nodo terribile alla gola, grande quanto la nostalgia di mio padre che mi fischiava qualcosa nel buio della mia stanza, prima del sonno,  o della ragazzina che mi confidò il suo amore dietro gli occhiali sotto una tenda da squaw e diventando pallida e stanchissima, come se svanita, approfittando come un bandito di una mia distrazione.
Spesso gli amici diventano i miei ricordi, il mio sguardo un po' annebbiato e commosso per tanta fortuna, a volte l'amore indiretto dei miei defunti, un bacio di mia moglie nel sonno o le sue gambe, i due biglietti della metro per tornare a casa – per favore due, grazie – e ancora avverto e patisco che cosa sarebbe di me dentro di loro o senza di loro, o chissà, se dovessimo perderci o dimenticarci. 
Con alcuni amici è successo, senza un motivo, una ragione, un movente, ed è stato qualcosa di luttuoso, che spesso ancora brucia.
Sono stato un ragazzino senza amici, con poca aria al viso, poche parole, emozionato da quanto fosse grande e spaventoso quello che avvertiva. Credo che in questo momento della mia vita qualcuno, dall'alto, mi stia facendo scoprire il tepore delle grandi e rare amicizie, restituendo a quel ragazzino lontano la tenerezza e la protezione negata, come sotto la tenda ombrata di una squaw...

lunedì 27 maggio 2013

"La California", di Michelangelo Salerno


Un ragazzo ineguale sisma
vulcano test psicologico
i pugni sugli occhi.
Intruppato.
Stomaco milza cuore
in artigli legami
tangenti linee spezzate
segmenti di demitizzazione.

Una stanza è una stanza
con porte finestre ritratti
un tavolino la rabbia
e il mondo le praterie
le spade conficcate sulla linea
dell'orizzonte
chiamano a lunghe tappe a viaggi
estenuanti.

Un ragazzo ineguale ha l'incertezza
dei suoi pensieri un libro
da scrivere
non sa i percorsi le mappe
i patti le rese senza condizioni.

La California ricca di frutti
di pascoli e un punto
equidistante dal centro
lontanissimo Sud.

Le notti a imparare
i nomi delle costellazioni
la rosa dei venti l'atlante.

Michelangelo Salerno "Di Dio e di altre persone" Editrice Forum Forlì 1976

La scrittura e le gambe delle donne.

Una storia che funzioni potrebbe non funzionare per niente. Una storia che abbia tutte le caratteristiche, il potenziale per essere equilibrata, intensa, perfetta, potrebbe rimanere ferma, come se non scritta, mai nata o pensata.
Se racconto qualcosa, quasi mai conta il cosa. Ma il mistero tra quello che sento di dire e l'utilizzo personale dello strumento con cui lo dico. Quelli che insistono sulle regole e sulle sezioni auree perché una struttura narrativa abbia i documenti a posto, ignorano, forse anche consapevolmente, qualche volta, che in certi casi una dose di clandestinità può giovare a certe condizioni.
Non è mai quello che ti dico che farà sì che tu ritorni da me.
Ho letto stesse situazioni scritte da persone diverse. Situazioni simili elaborate da scritture dissimili, lontane. Una stessa idea, una stessa identica idea, può spezzarmi il fiato o lasciarmi del tutto indifferente, assonnato, intorpidito, senza che la mia vita abbia minimamente risentito del suo passaggio. Anche un'ottima idea, può essere fumo. Assolutamente sì; soprattutto un'ottima idea, specie se troppo collaudata, rettificata, protetta, esibita.
Ho letto idee bellissime che mi sono scivolate addosso, senza toccarmi. Scivolate come se sognate. Fumose, in certi casi noiose. Geniali ma noiose. Geniali ma inutili. Non vi è nulla di strano in quello che ho appena scritto. In diversi casi un'idea geniale che voglia nutrirsi di se stessa, è assolutamente inutile.
Che cosa conta allora, perché quella certa idea si ammanti di quel particolare che me la renda equilibrata, intensa, importante, fisica? Quello che non si vede. La fucina. La velocità dell'auto, di una qualsiasi auto in corsa, è qualcosa che puoi misurare e modulare e modificare, non così l'efficacia di una qualsiasi storia. Deve esservi un tipo di scrittura che stravolga e avvolga questa storia di un suo flusso, di un flusso che la imprima di un suo mood, che la renda irripetibile e non solo appetibile, pur contenendo elementi già visti, sentiti, conosciuti. Un particolare assetto e congegno misterioso che renda impossibile comparare quello che avviene come se già esisitito e accaduto. Che renda impossibile la possibilità di ogni misurazione o confronto con altro, dal momento che non se ne ha il tempo, così come non si avrebbe il tempo di fare e di osservare qualsiasi altra cosa quando un bambino salendo in braccio a una madre giovane o  una possibile zia, le scopre irrimediabilmente le bellissime gambe, quando quella intanto finge di non accorgersene e si ricompone con un attimo di ritardo, semmai catturando per caso o per rapina il tuo sguardo appena ferito dal misfatto – nessuna minigonna inguinale potrebbe mai competere con un attimo sospeso e tenebroso del genere.
Un libro e una certa ottima scrittura faranno lo stesso: ti prenderanno alla gola scoprendo le gambe davanti alla tua vita, come se fossero le prime o le uniche gambe al mondo mai viste o scoperte per sbaglio, con appena una puntina velenosa di ritardo nel riassetto e di sguardo dall'ombra, che non ti dia più nessuna garanzia e speranza di pensare ad altro.
Credo.

domenica 26 maggio 2013

Alessandro Amadesi: la video intervista e l'intensità

Appena rientrato, ho ascoltato la video intervista di Alessandro Amadesi  e mi sono detto: devo inserirla assolutamente in un  mio post. È un'intervista bellissima, originale e molto intensa. 
L'intensità di questa video intervista si evince da quanto questo scrittore e sceneggiatore sia riuscito a esprimere di sé in pochi minuti, non più di sei, credo. Non è affatto facile farlo con tanta nitidezza, passione, precisione e leggerezza. Alessandro Amadesi ha parlato dei suoi scritti "Sopravvivenza forzata" ed "Ombre", dei suoi trascorsi cinematografici, della destinazione del suo percorso, del rapporto con i suoi personaggi, delle sue tematiche, della sua formazione letteraria, con una grande e impareggiabile intensità. Amo l'intensità delle persone e delle cose, perché è quella  caratteristica misteriosa che le fa brillare e le rende diverse, spesso indispensabili. 
Ho condiviso e condivido con lo scrittore Alessandro Amadesi uno stesso percorso editoriale, ma anche un'attività parallela da sceneggiatori, e la passione per la musica. Alessandro Amadesi è uno scrittore molto generoso. Non si è mai risparmiato e ha colto sempre ogni piccola occasione per darmi un suo segnale di stima, di rispetto, di incoraggiamento – tra l'altro è una cosa davvero rarissima tra scrittori, specie in una fase così nera e nebbiosa per chi scrive e sgomita per farsi spazio, nell'assenza assoluta di uno spazio, tra l'altro. 
Mi sento quindi di condividere sul mio blog questa sua interessante video intervista, in modo da favorirgli una nuova occasione per avvicinare nuovi lettori ai suoi scritti e alla sua dimensione espressiva, quanto, e soprattutto, alla sua rara e particolare intensità.
Tutto qui:

sabato 25 maggio 2013

La pallonata

Ritornando a casa ho preso una pallonata in pieno viso. Il tiro non era fortissimo, di sicuro maldestro, tirato da un bambino molto incerto, attorniato da altri più grandi e smaliziati mentre attraversavo la loro area di gioco.
Non porto occhiali da vista, solo di giorno quelli da sole; avevo delle pizze calde nei cartoni. Il pallone è arrivato dritto, ho avuto la destrezza di girare di colpo la faccia e di lasciare la guancia destra libera nell'impatto, per cui la pallonata si è infranta nel viso giusto al centro della guancia, risparmiando orecchio, naso, bocca e occhi. 
Qualche istante, ma nemmeno e nei miei occhi scorrono gli occhi dei ragazzini che stavano giocando, sospesi e spaventati dalla possibilità di una mia reazione. Mi conoscono tutti molto bene. Mi vedono passare quotidianamente, quasi sempre a piedi, con alcuni mi saluto, ma non era mai successo che una pallonata avesse colpito proprio me, quel tipo magro, piuttosto elegante, gentile e silenzioso,  con una felpa a strisce blu e gialle, colpito e sfondato: in pieno viso. Non potevano immaginare la mia reazione in quel momento. Fin quando non avviene una qualsiasi novità e variazione all'interno di una certa dinamica, si è sempre nuovi, per se stessi e per gli altri. Eravamo sullo stesso piano, io e loro non sapevamo in quel momento quale sarebbe stata la mia reazione. Il mio passo intanto, dal momento che abbracciavo i cartoni con delle pizze calde, non rallentava, ero riuscito a scattare con il collo senza interrompere l'andatura e poi i loro visi negli occhi, così preoccupati, spaventati, ma che brutta sensazione, mi dico: che cosa orrenda incutere soggezione, smarrimento, ansia, spavento. Per l'errore di un tiro, che in fondo ho schivato bene, certo se c'era qualcuno con gli occhiali o più lento di riflessi, al posto mio, immagino, ma in quel momento, che non era successo niente, che cosa faccio: sorrido e li lascio stecchiti, a quanti ne erano. Penso di aver detto qualcosa, ormai ero sotto il mio portone, del tipo: non è successo niente, senza nemmeno mettermi a rimproverarli, a fare l'educatore il sabato sera, quando in effetti i loro visi più che preoccupati erano anche dispiaciuti. E quale sensazione più bella di riuscire a rischiararli, con un gesto infinitesimo di resa, di discesa dal piedistallo, cosa davvero molto difficile quando arrivano degli imprevisti, tra l'altro io mi squaglio per situazioni molto più stupide, ma in questo caso ho vinto, e non ho lasciato nessun gesto, nessuna smorfia vendicativa per nessuno di loro sciogliendo in breve tutta la tensione dell'attesa. Una reazione che ha sorpreso insieme me e loro. Che mi ha fatto bene. Ho mangiato con più appetito. A tavola nesuno mi ha detto se c'era l'alone di un super santos sulla mia guancia destra, forse l'alone era sbiadito o è rimasto appena invisibile, a ricordarmi di questo piccolo istante magico, di tenerezza e grande stupore.

Fatti corsari (Corsair Tales): Trailer

venerdì 24 maggio 2013

Lynn Harrell – Rachmaninov: Cello sonata in G min. Op.19












giovedì 23 maggio 2013

L'infinito lato indimenticabile

Quanto è impoetico tutto quello che si forza verso la poesia. Quanto è astratto questo sforzo di essere poetici, artistici, artisti, a tutti i costi, autoproclamandosene, senza certificazioni o sentenze a favore, e dimenticando tutto quello che di più grande si nasconde oltre ques'ossessione, in apparenza così docile e innocua ma totalizzante.
La bellezza di assistere, senza fare o disfare; senza tentare di sedurre, costringere, convincere, è una forma delicata di poesia senza versi. Quella di chi fa senza dirlo e saperlo, così come chi ama e carezza una foto di nascosto. Rimpiange quello che ha perso, ma ne ricorda le ricorrenze più dolci e le festeggia da solo, in un oscuro fidanzamento.
Scrivo e sento la pioggia, che scroscia di nascosto da me. Questa pioggia ha la voce di una ragazza stanca, che dice di me alle mie dita ancora molto attente, in cerca di un portone dove ripararsi da se stessa.
Quanto è impoetico, dicevo, dimenticarsi degli altri, il non aspettare, il non ascoltare chi ti ha da dire quel poco che gli basta per tenerti vicino, solo per il pensare a quello che di poetico e di artistico dovrai ottenere, incubare e costruire. Quante cose meravigliose si perdono rinunciando ad assistere al mondo di chi non conosce l'arte, di chi la disprezza nelle sue convenzioni, o che forse la ama ignorandolo, e diventa uno spettacolo personale, particolare, per il solo fatto di sentire il mondo col proprio naso, l'aria con la sua faccia, senza immaginare di dirlo mai a nessuno, ancora una volta vivendo di nascosto. 
Che cosa sento io più di te, da non doverti ascoltare e preferire a te le feci di un mio pensiero, di un mio sogno di dire, di scavalcare, di raggiungere quel primato astratto e nebbioso, che ritornerà nella nebbia di tutti i primati. Le carezze, a differenza dei primati, non diventano nebbia. Cominciano nella nebbia ma si fanno strada nelle zone notturne e inesplorate di ciascuno, come defunti ancora vivi, che ti tremano nella luce della lampada, prima del sonno, o ti tirano i capelli, ti nascondono l'accendino.
Dovunque mi giro vedo trapezisti, funamboli, mangiatori di spade e di fuoco, lanciatori di coltelli, eppure l'operaio che mastica il suo panino sformato, sempre alla stessa ora, quando passo per raggiungere la metro, nasconde lo stesso mistero di un Picasso, di un Mozart, di un Bach.
Perché limitare l'occhio verso l'infinito e non spalancarlo verso il piccolo finito di chi non vuol parlare ma si traduce nella natura incolta del gesto, del dolore, del rimpianto di resistere a questo mio stesso momento, che ci vede insieme per un attimo e che non ritornerà più?
Ho voglia di semplificare, ridurmi all'essenza, dimenticare quello che ho imparato e che mi ha allontanato dalla sensibilità a quell'incrocio di occhi o di gambe. Ritornare indietro verso l'imperfezione, la dissonanza, l'aria opprimente delle giornate che si accorciano.
La foga e la fame di poesia, oggi, deve nascere dal desiderio del silenzio. Allontanarmi dal traffico e cominciare a tacere, nelle prime luci tutto mi piace perché tace e io con lui. Tace la mia scrittura  e riaffiorano gli amici, le risate, l'odore dei mandarini sbucciati, i palazzi illuminati di compleanni, dove mi concedevo e rimanevo fedele a ciascun istante per quello che era e non per quello che avrei voluto diventasse.
Rimanere parecchio assente e assonnato, e riprendere a respirare, senza aspettare che qualcuno mi ascolti, ma tendendo l'orecchio al cuore di chi mi è accanto senza una voce, che non scriverà mai romanzi, saggi, trattati o poesie, ma mi farà battere il cuore del suo vero, infinito  lato indimenticabile. 

mercoledì 22 maggio 2013

22 - 26 maggio: Incontra un libro: L'azzurro della notte, di Luigi Salerno



Incontra un libro:


ESTRATTO CAP. 10 SCRIBD:

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lunedì 20 maggio 2013

Per favore, non te ne andare ancora

Un pensiero ferma il tempo. Quando mi attraversa ha la forza di un grande uccello, è già lontano e il pendolo riprende a scoccare. Che cosa rimarrà nelle mie parole di quel bagliore e di quella distanza? Quanto inganno che ancora non avverto. Ogni sillaba dovrebbe cercare la forza misteriosa di un attimo che è andato, il suo focus creaturale, il suo fianco.
A chi potrò chiedere come si fa a smettere? A chi come ricominciare nel modo giusto? A chi come ritrovare quello che ho perduto, se attraverso questi sentieri scritti rischio di allontanarmi da me, da quei momenti nemmeno più pensati, forse preconcettuali, fantasmici, passati e rarefatti già nel loro nebbioso presente?
Quanto conta e quanto mi costa questo sentiero fitto di ombre, senza una guida, una mano, una carezza? Dalla mia finestra avverto l'avanzata delle nuvole, che sembrano cavalli stanchi e assetati della mia luce. Un cane adesso abbaia. È tornato il sole, ancora per qualche attimo, quando tutto sembrava nascosto dai cavalli.
Queste parole dicono di quello che è ma che è altro. Perché ciascuna parola sarà altro per ciascuno sguardo e ciascun ascolto. Gli stessi odori che sento, come renderli veri, fragranti? E anche lo stesso silenzio, la sua fine, l'arrivo di un suono, di una risata, di un bagliore da una finestra che si apre.
Il sentiero a volte ti dice di riprendere, ma ti accorgi che non ti diverte più. Nessuna cosa senza divertimento si fa più profonda, al contrario. Il divertimento implica profondità, impeto, leggerezza, possenza. Senza divertimento ci si assenta.
L'inadeguatezza a quello che si vorrebbe dire è sempre crescente, rispetto a quanto sia soffuso e delicato l'impulso del dover dire, semmai solo  a qualcuno. Ma una frase non conosce il sottovoce o le dinamiche umane di chi ti è accanto. A chi potrò mai chiedere che cosa significa l'intimità nella scrittura? A chi potrò mai chiedere, invece, come dare più forza e vigore a una frase, quando qualcuno già si allontana, e non mi sente più? O come raggiungerlo senza svegliare quelli che gli dormono accanto?
Se decidessi di non scrivere più, nemmeno una lettera – come qualcuno mi consigliava – forse oltre a guadagnare riposo da queste domande senza risposta, perderei qualcosa: la possibilità che su milioni di persone, nella bruma, si sollevi appena una mano e mi dica: per favore, non te ne andare ancora.
Credo che sia tra le più grandi e delicatissime risposte, che attraverso una qualsiasi forma di espressione nella pratica della finzione, ti facciano sentire come tutto quello che si avverte e si controlla, sia altro da quello che realmente avviene in una trasmissione così fragile e medianica, come è quella dei pensieri scritti. Altro da quello che credevo...
Avviene il desiderio che quel misterioso flusso ronzante e silenzioso, rimanga ancora acceso, come un fuoco, che rimanga nell'aria con il suo filo bianco di fumo...Per favore, non te ne andare ancora, come se dovessi raccontare una fiaba per far addormentare un bambino ammalato, e in quel caso avverto che nel groviglio dei dubbi e delle calamità di chi scrive, affiora quella piccola insistente richiesta perché la mia luce non si spenga. Perché rimanga ancora, solo per poco, anche qualche minuto, nemmeno. Rimani perché altrimenti senza di te ho paura, o fa buio prima, o tremo come una piuma. Qualsiasi motivo potrebbe bastarmi a resistere per una persona sola.
Non trovo altra ricchezza al mondo di quel passaggio di tempo richiesto, dedicato; di quell'urgenza nascosta e inconfessata, che, per una sola persona al mondo che la avverta e me la richiede, anche se nel mezzo sonno, varrebbe lo stesso la pena di rischiare e di continuare, senza limiti e confini, ad esaudirla.
Ancora.

domenica 19 maggio 2013

Pomeriggi con Rachmaninov

La tenerezza del pomeriggio presto, per me è ancora dolore. Soltanto dolore.
Tutti i pomeriggi presto del mondo sono trafitti  dal dolore di una pausa senza sonno e senza vero riposo. Non è notte e non è giorno. Non è mattina e non è sera. Il mio sentire, oggi, è intriso di questa intercapedine di nebbia e di sogno, dove affondo e spesso non riemergo mai per tempo.
Come affondavo quando cominciavo a provare quello che si muoveva dentro di me, e che ancora non capivo e non capisco. Quello che si avverte intorno e non si sa mai dire, è l'unica ricchezza da custodire, forse, quella che nessuno scoprirà mai.
Sono rimasto avvolto tra questa patina di inverosimiglianza di un pomeriggio prestissimo e la paura dolce del buio e degli altri. 
Come in quei pomeriggi da ragazzo, quando ero in compagnia della musica plumbea di un Rachmaninov insolito, enigmatico, che risuonava nella mia stanza, raccontandomi quello che non sapevo dire di me, ma che riconoscevo vero. Quando in quei pomeriggi avvolgevo la mia vita di quel momento in quella musica, mi sentivo nella pioggia, ma protetto. Il II movimento del Concerto n. 1 è avvolto dalla pioggia di quei pomeriggi che non sono ancora finiti e nemmeno cominciati nella mia vita. Ma esistono senza esserci: sono i miei primi pomeriggi con Rachmaninov... 
Lo stesso come quello di oggi, ma adesso è pieno di sole, e di una sensazione annuvolata di vago, di vuoto, di inutilità, che sconfigge la mia impressione, la mia possibilità di espressione e il mio sentire. Come se in quest'adesso ritornassi indietro, alla pioggia fitta di quei miei momenti perduti e intatti ma senza un tempo, che mi ricordano appena appena chi sono, senza saperlo dire già più:

Post scriptum

Una nota, in relazione al precedente post "Lo spero": l'audiocassetta con le voci della classe, che non ero riuscito a trovare e che speravo, un giorno o l'altro, quanto prima, di ritrovare, nell'unico luogo possibile dove poteva trovarsi, questa mattina, meno di mezz'ora fa, l' ho trovata.
Ecco.

Lo spero:

Quello che mi capita a volte segue un suo filo invisibile dove mi accorgo che i miei occhi svelano un copione riflesso e misterioso, attraversato da vicende e situazioni sempre più insolite e particolari.
Anche da universi insondabili di tenerezze improvvise e inattese.
La testimone di nozze, questo mattino, al matrimonio di un'amica, viene incontro a me e a mia madre, con uno sguardo commosso, emozionato. Questa giovane donna insegna italiano a Madrid; adesso è moglie di un medico che esercita anche lui in Spagna, e mi dice che tutte le mattine, prima di cominciare la sua lezione, pensa a mio padre Michelangelo. Alle sue lezioni, per lei rimaste ancora indimenticabili, alle quali si appiglia, si ispira di continuo. 
Lo diceva con un'espressione così tenera e ispirata, come se quel suo pensiero che ci teneva a comunicarci, le premesse dentro da tempo. Lo diceva con uno sguardo così partecipe di quell'assenza così presente nella sua vita lontana di insegnante, ma anche con un atteggiamento di grandissima umiltà, che conoscendo lo spessore e il livello della persona, mi hanno fatto pensare. Una persona può attraversare viali, aeroporti, regioni federali, per aver fatto cultura in un certo modo; per aver fatto del bene attraverso la comunicazione della sua cultura, del suo dono. 
La testimone di nozze era molto elegante e commossa e contenta di vederci, e la sua emozione mi ha sospeso, riuscivo a dirle poco, giusto qualcosa, come è nel mio stile quando vengo raggiunto da certe particolari  evocazioni.
Più avanti, nel pomeriggio, si riprende a parlare, mi presenta suo marito medico, e anche lui mi dice di quanto sia presente mio padre nelle loro lunghe giornate a Madrid.
E lei: li ho conservati tutti i temi del triennio, mi dice, che tuo padre ci restituì e ai quali ritorno di continuo e le cui tracce le ripropongo sempre ai miei alunni. Io sono piccola così, di fronte a lui, mi fa, ma facendo in questo modo mi sento più forte. E la prima lezione sull'Illuminismo, continuando, ricordo ancora le prime parole di tuo padre, e anche come impostò Virgilio, e quanto Virgilio abbia accompagnato altri argomenti, da quella sua angolazione così singolare.
Si parlava nel sole, quando ebbi un lampo, e ricordai che la testimone e insegnante a Madrid, faceva parte di quel gruppo di ragazzi che nell'ultimo anno, dopo gli esami, avevano regalato un'audiocassetta a mio padre dove avevano registrato tutte le loro voci. Ciascuna voce un pensiero, un pensiero da ragazzi, un ricordo, una battuta, ma che rifletteva e tesseva di un percorso, di una sensazione di abbandono a un viaggio misterioso e affascinante, dal quale ciascuna di quelle voci faceva fatica a scendere.
Ed io: credo di avere ancora quel nastro con le vostre voci, credo che sia quella stessa Terza, l'unica terza che è rimasta unita, nel tempo, grazie al suo professore. 
Ma come, mi fa lei? Quello è l'unico nastro che avevamo, non ne abbiamo altre copie. Sarebbe bellissimo se in qualche modo...non so...
Sono certo di averlo. Siamo rimasti d'accordo, prima di salutarci, che avrei fatto il possibile per doppiare in qualche modo quel nastro con le loro voci, anche registrandolo con un cellulare, come stesso lei mi proponeva, così lo avrei recapitato a sua madre o comunque ad altre persone in comune di quella classe. Anche da Madrid, mi diceva, sono ancora in contatto con molti di loro, pensa che bello, però...
Poco prima di scrivere questo post, mi sono accorto che nell'unico luogo dove ero certo potesse trovarsi il nastro con le loro voci, il nastro non c'era più.
Ho ancora la polvere sulle dita, mentre scrivo, per quante vecchie audiocassette ho tirato fuori per controllare. Ma è l'unico a mancare all'elenco: il nastro con le voci di Terza...
Chiudo questo post con la speranza di cercare meglio, di ritrovarlo, un giorno o l'altro,  o quanto prima. Sapendo che nei pensieri di quell'insegnante di Madrid, le loro voci di un tempo sono ancora in attesa di parlare, al buio, nella mia casa italiana.
Lo spero:

sabato 18 maggio 2013

Ancora senza trucco

Tutto quello che ho visto, che mi ha arricchito, che mi ha colmato, non l'ho mai stretto. Forse l'avrò visto o intravisto di nascosto, senza quasi esserci. Ancora senza trucco.
Qualsiasi cosa o persona che sarà ambita, desiderata, una volta posseduta, per molti uomini, diventerà esattamente come tutte le altre. Una volta ottenuta sarà fatta di fumo o di niente. O cambierà luce, come tutte le cose possedute con strategia, dopo essere state ambite e desiderate, sgualcite come lenzuola dopo un amplesso. 
Ciascuna donna non ancora toccata, ma solo e appena sfiorata, o nemmeno, brillerà ancora della sua individualità, della sua prima luce, inviolata, ancora senza trucco. Avrà la gioia di esserci come persona e non come bersaglio vivente. 
Imparare a sfiorare appena, senza toccare, proprio per mantenere integra l'individualità di quello che non diventa possesso, dominio, ma scambio e silenzio. Scambio e mai merce di scambio.
Non posso mai dimenticare, qualche anno fa, un ragazzo sposato da poco, che avevo visto sì e no un paio di volte, che ci presentava sua moglie,  appena arrivata con la suocera, come farebbe un allevatore mostrando delle vacche a degli acquirenti per assortirle con un buon razzatore. Mancava solo che le schiaffegiasse una natica, per farci sentire come risuonava il suo timpano all'aperto!
L'unico modo per svilire qualcosa di molto bello è volerlo soffocare, toccare, maltrattare. Stringere, verificare, esporre per la sola pulsione di dominio.
La bellezza di una qualsiasi donna non deve essere certificata come una colpa, un delitto, o considerata delittuosa per il solo fatto che non possa espletarsi in un proprio claustrofilico regime di assedio. In una propria fortezza blindata e senza luce.
Ho ricevuto soltanto amore e bellezza, da tutte le donne a cui mi sono accostato. Molto di meno dagli uomini che ho incontrato lungo la mia strada.
Solo una volta, alle elementari, una supplente mi cacciò fuori perché, avendo preso l'abitudine di fischiare il silenzio come un capostazione, con tanto di fischietto al collo, io avevo osato simulare il rumore di un treno in partenza in contrappunto. È stata l'unica donna che mi ha fatto qualcosa di meno carino, per il resto ho incontrato persone meravigliose, generose, uniche.
Bisogna farsi carico delle violenze efferate sulle donne, all'interno delle famiglie, delle scuole, dei luoghi di formazione, perché quelle violenze sono anche il frutto di piccole frizioni, atteggiamenti diffusi e comuni, di piccoli bisbiglii, di mezze frasi equivoche, per cui una donna truccata meglio, appena più sofisticata e autonoma, o che cerca solo la felicità e che sorride appena un po' di più perché le va, sta cercando qualcosa di sporco, di molto losco. Allora ripugna perché quel sorriso non è più tuo e non puoi impugnarlo e sottometterlo e allora devi solo punirlo. Oggi qualcosa che non può essere impugnata del tutto, per molti va punita ed espugnata. Diventa scomoda se non sottomessa: diventa specchio di una mancanza frustrante, di una retrocessione rispetto ad altri sguardi di lupi sospetti e in agguato. Il muro della mia vita non lo puoi scavalcare, qualcuno avrà detto: è pieno di vetri. Oltre non si passa. Devi toglierle il trucco dal viso a furia di schiaffi, dirà qualcun altro, o toglierle la vista, il respiro  e la parola a calci.
Chi stringe la gola a una donna, lo farebbe ugualmente a una bambina, a un uccellino, alla propria madre nel sonno. Il confine delittuoso sarà ormai infranto, per sempre.
Sarebbe il caso  di insegnare ai bambini, nelle scuole, l'arte dello sfioramento e del sogno e del silenzio, la delicatezza dello sfiorare, insieme al leggere, allo scrivere, al parlare e al camminare: la delicatezza estrema dei grandi pianisti, che sentono il respiro che passa tra i loro palmi e il tasto.
Una questione di tocco. Immaginiamo quanto sia più importante e cruciale affinarlo per un essere umano così prezioso.


venerdì 17 maggio 2013

Fascinazione dolorosa: le ombre cinesi dei personaggi

Nella revisione di un romanzo ancora inedito, molto lungo e complesso, il cui ultimo titolo definitivo è "Not a soul", mi sono trovato di fronte a tre personaggi femminili, credo quasi centrali, intorno ai quali si snodano le vicende di alcune famiglie della borghesia francese, articolate tra Camargue e Lione. 
Madame Isabelle Joubert, figura romantica e complessa, molto classica nel suo fascino borghese, nella sua apparente leggerezza, ma avvolta e soffocata dai suoi fantasmi; sua figlia Sophie, una ragazza inquieta e speranzosa, anche lei attanagliata da diverse nubi misteriose e temporalesche e la  fidata cuoca spagnola dei Joubert, Luisa, una figura così diversa: corpulenta, latina, maestosa e materna, ma anche fragile, di una fragilità molto diversa da quella della sua adorata Madame Isabelle e da quella più tersa e cristallina della figlia Sophie. 
Su queste tre figure ho cominciato a intessere un particolare mosaico, un tessuto variegato di forme, di condizioni e di condizionamenti tra diverse entità che vivono uno spasmo continuo dove la mano non arriva mai. La ricerca di una stasi impossibile. La descrizione accurata di questa impossibilità.
La bellezza di un personaggio in diversi casi è data dallo spazio, anche minimo, che lo separa da una stasi. Quel piccolo spazio che automatizza la tensione  e lascia che organizzi da solo le sue tattiche per trovare quiete. Così come un quinto grado di una cadenza, che stenta a risolvere, che vaga, che si intrattiene nel suo vuoto, che mentre è quasi in procinto di concludere, ti inganna e si sposta in un'altra direzione.
La fascinazione dolorosa di queste tre figure femminili, così diverse tra loro, mi ha sorpreso e anche molto incuriosito sul loro apparato così nervoso, autonomo, particolare, dal momento che le angolazioni sono tre e sono tre gli spazi diversi che separano tra tre altrettanti obiettivi diversi, che in fondo non sono nemmeno così chiari come potrebbe apparire. Le tre donne sanno che esiste uno spazio, un certo spazio doloroso che separa ciascuna di loro da un punto di stasi, ma non hanno ancora idea di cosa sia questo punto di stasi da una certa tensione, quale sia il suo viso, la sua forma, il suo colore. 
È come chiedere a qualcuna di loro di descrivere il profilo di Dio o di formarlo con le mani in un'ombra cinese. Le tre donne di questo lavoro, hanno solo coscienza dello spazio che le separa da un ulteriore spazio che da una stasi porterà forse a successive tensioni o alla febbre del vuoto. Solo correggendo e revisionando ossessivamente le parti di "Not a soul", mi sono accorto di questa circuizione claustrofobica e labirintica tra il desiderio e i desideri oscuri, rispetto alle dinamiche che muoveranno i vari personaggi nei loro rispettivi intrecci. Circuizione che divora qualsiasi altra cosa che non sia quella breve distanza o spazio che separa ciascuna di loro dall'infinito doloroso di una stasi ancora sconosciuta.
Credo che in "Not a soul" vi sia molto di quello che ho appena scritto. Ed è in quel breve spazio claustrofobico, dove ciascuno cerca il suo senso, che affiora la fascinazione dolorosa, l'estasi verso l'impossibile di un personaggio. La sua formazione e mutazione sulla parete: come  in un'ombra cinese.

giovedì 16 maggio 2013

La ragazza dal viso sporco e la mia vita....

Se dovessi scegliere tra la bellezza di un tramonto caraibico e un viso di una ragazza sporcato di grasso da una carezza, non avrei dubbi.
Un viso di una ragazza sporco di grasso sarà molto più interessante di un qualsiasi tramonto. Di qualcuna che ha molto sonno che non sarà mai bella come vorrebbe e che ha rinunciato al sentirsi importante e che potrebbe portarti grane, qualcuna che veste anche male ma che ha gli occhi che mi parlano di me.
Mi accorgo di essere guardato da un fondo naturale di bellezza inquinato, come se chi mi guarda si riconoscesse nella mia profonda inquietudine e cercasse quasi di leccarne una glassa di veleno. 
Senza un motivo. Uno sguardo che mi attraversa gli occhi come un vetro il polso di un suicida. Non c'è uno sguardo che abbia incontrato nella sua inconsapevole scorsa, che non mi abbia dato qualcosa di prezioso e di doloroso insieme.
Ricordo, quando andavo in Conservatorio, una ragazza sconosciuta e molto carina, di quelle bellezze napoletane, che prendeva sempre lo stesso mio pullman, un pomeriggio mi offrì una gomma da masticare. Io la rifiutai, perché ero imbarazzato da morire. Non mi era mai accaduto di trovarmi in una situazione del genere, eppure cominciavo a ricamare a mano il mio mood di sempre, che negli anni ha calcato le sue impronte sulla mia gola a mani aperte, con la perfezione di uno strangolatore seriale.
Col passare del tempo, divento sempre più fragile e delicato, come il ragazzo che rifiutò quella gomma da masticare dentro un pullman barcollante sulle strade di Napoli. 
Credo che si stanno accentuando negli ultimi due anni i sintomi di una fobia sociale (uno stadio molto più alterato della timidezza), sempre più paralizzante e invasiva. Non so dove sia il viso sporco nella mia vita, che si è impigliato dentro di me e non mi lascia mai. Ma che cosa significa questo carico così gravoso, questo sentire l'impossibile e patirne gli arabeschi e le staffilate dell'aguzzino? 
Se potessi fare a cambio e non scrivere più un solo rigo per accettare in cambio gomme masticanti da sconosciuti...
lo farei. A partire da adesso. O forse mi tradirei, tradirei questo mio dolore dal viso sporco, che mi cerca la spalla libera o il braccio nudo per affondarvi la bocca. O che un po' mi ama? Se questo mio dolore un po' mi amasse?
Ecco perché preferisco un viso di una ragazza sporcato di grasso a un qualsiasi tramonto caraibico...Perché forse è parte integrante e divorante della mia vita. Perché forse è soltanto la strada mia...


mercoledì 15 maggio 2013

Scrittura e nostalgia di sé...

Il mezzo di scrittura è un mezzo potente di espressione. Potente perché comune.
Difficile incontrare qualcuno che non abbia qualcosa da dire, da organizzare, anche se in possesso di una manciata scarna di parole.
Bigliettini di compleanno, lettere d'amore o di morte, ma anche piccole confessioni private, lasciano la suggestione in ciascuno di noi, in particolari momenti di crescita, o anche di rinascita e di dolore,  di poter controllare questo mezzo ancora così potente – anche se oggi, almeno nell'apparenza potrebbe non sembrare più un mezzo così potente –, ma soprattutto di renderlo non comune, quanto meno nelle proprie mani.
Quanti ragazzi, ragazze, ma anche adulti, ai loro primi tentativi di scrittura condivisi, più o meno riusciti, si saranno detti:
"Quello che ho scritto è qualcosa di unico. Scrivere è difficile come suonare il piano, il corno inglese, andare in moto senza mani, trattenere il respiro, fidanzarsi con la ragazza del primo banco, che dopo aver letto questo racconto forse mi amerà".
È possibile inserire dentro uno strumento così potente, una serie di significati e di particolari attributi, che lo rendono speciale e unico solo se attraversato dal nostro particolare e originale utilizzo.
Riuscire a suonare bene un pianoforte può sembrare molto più complesso, parlo di suonarlo a certi livelli, del comporre un breve racconto di qualche pagina. Così con la fotografia, con la pittura, la scultura e con tanto altro.
Le parole sembrano sempre qualcosa di già posseduto, di familiare, di meno segreto. Qualcosa con cui si può cominciare da soli e sentirsi grandi senza che il merito se lo prenda un insegnante di musica, o l'Accademia di belle arti. Attraverso le parole, in diversi casi, si può riuscire dove non si è riusciti, e si può arrivare dove non si è arrivati. La loro potenza arriverà nelle profondità del cuore, partendo dalla ragazzina del primo banco e andando oltre a conquistare un certo ruolo, un posto importante, di qualcuno che diventa bravo in una cosa diventata difficile per il solo fatto di averla scelta come propria voce dalle cose comuni e più disponibili. Poco comuni, ma dove nessuno di quelli che conosci ti avrebbe mai immaginato.
Ma di quali parole parliamo?
Le parole di chi cerca di scrivere, sono le stesse che usa chi non scrive? Di chi non ha interesse a raggiungere gli altri scrivendo, semmai nemmeno parlando? Saranno davvero così comuni queste strane  e misteriose segnaletiche, che dovrebbero imprigionare attenzione, tirare i capelli, innamorare, irretire, stupire, incantare?
O c'è qualcos'altro? E nel caso vi fosse qualcos'altro, una polverina magica, che solo uno scrittore conosce, come si fa ad ottenerla? È qualcosa vicina a una tecnica? O vicina alla magia? È qualcosa che devi avere già dentro o che ti basta desiderarla? È qualcosa che ti brucia o che ti piace? Qualcosa che non sai di possedere e che hai rubato, o qualcosa che non hai rubato perché sei convinto di possederla? Qualcosa che ti sia stata donata?
Perché quelle parole nelle tue mani hanno quella luce, hanno quella forma, e non sembrano più parole, ma sembrano altro. In certi casi suoni, riflessi, immagini, aquiloni? Esistono altri tipi di parole, allora?
Un grande scrittore non usa le stesse?
Insomma, queste domande potrebbero non avere risposte, ma è giusto che chiunque cominici ad attraversare questo paesaggio oscuro e tremendo dello scrivere, sappia che non ci sono risposte facili e univoche; non c'è mai una sola verità, e potrebbero esservi più strade diverse per raggiungere uno stesso luogo, anche irraggiungibile, diverse per ogni persona che si accingerà al viaggio.
Una sola cosa ho imparato, ma più che ho imparato che ho provato sulla mia pelle: la voce di uno scrittore deve creare prima di tutto nostalgia di sé: uno scrittore grande, non ti parla di sé stesso ma ti dice di te. Si interessa a te. La nostalgia che proverai per lui e per la sua scrittura, quando l'avrai conclusa, in certi casi anche interrotta, abbandonata, sarà tanto più lacerante quanto lacerante sarà il rapporto con la dimensione dei tuoi segreti, delle tue ombre, di qualcosa che hai vissuto con qualcuno di cui non sai nulla ma insieme anche tutto, e che in qualche modo ti ha stregato.
Credo quindi che un segnale importante per continuare a scrivere, è accorgersi di aver modificato qualche piccola cosa nella vita di chi ti ha letto, semmai niente di importante, ma qualcosa di toccante, di intimo, forse di stregante. Qualcosa che uno scrittore forse non saprà mai, ma che potrebbe intuire, così come quasi mai si sa del sentirsi amati dai timidi, che non avranno mai il coraggio di confidartelo, ma che darebbero la loro vita di nascosto, per te.
Ecco il fascino enorme della scrittura. L'invisibilità e la solitudine di un sentimento espresso, verso latitudini oscure, ma che improvvisamente, per ragioni insondabili, potrebbero ritornarti indietro, e farti riconoscere in qualcuno che ti ha letto, ti ha sentito e ha provato una nostalgia fortissima per le tue parole. Anche se non te lo dirà mai.

martedì 14 maggio 2013

Camminando nel buio: impromptu senza parole.

Camminando nel buio più pesto.
Non c'è un'anima intorno a me. Da lontano la luce di una candela, dove qualcuno soffia,
giusto nell'attimo del mio passaggio.
Riuscire a proseguire, avvertendo del vento sinistro sul collo, senza limiti alla strada, senza più un'altra luce. Ma sentire anche che ai lati della strada senza limiti, potrebbe esservi un dirupo, profondo e insondabile. I passi di chi ha soffiato sulla candela sono dietro di me. Molto nitidi. Il loro suono scintilla sul vetro. Vi saranno diversi vetri che schioccano sotto quei passi, ma non sotto le mie scarpe. Le mie scarpe hanno la suola di gomma ma dicono di uno strato dolce di sabbia. Chi mi segue ha quindi un selciato diverso, sulla stessa strada.
Non posso fermarmi. Ho molto freddo e poi i passi potrebbero raggiungermi e affondarmi nel cuore il suono del loro vetro. Nel fermarmi potrei bloccarmi, impantanarmi nella sosta e non ritrovare lo slancio per proseguire.
Qualcosa da quel buio mi dice che la direzione è quella. Anche nel buio è quella la strada di casa. Ma non ho riferimenti. Adesso quei passi dicono anche qualcosa, ma più che altro sono risate, qualcuno che mi sghignazza dentro, come uno schizzo d'acqua da una fontanina, uno sputo in faccia.
Cerco di non farmi condizionare. L'importante, mi dico, è mantenersi lungo la strada, anche nel buio, non perdere l'equilibrio, rimanere centrati e attendere qualche prima luce, anche un segnale fioco che mi dica che sto andando bene.
I passi e le risate sono sempre accanto a me. Ogni tanto mi arriva qualche spintone, qualcuno anche violento, cercando di farmi decentrare. Uno di quegli spintoni mi fa inciampare nelle scarpe e da quel momento anche il suono dei miei passi si fa di vetro. Non avverto più la sabbia sotto le suole gommate. Odore di panna, molto intenso. Alzo la testa al cielo, ma vedo solo una massa opaca di nuvole.
Una tosse di anziani, da una casa spenta. Da una finestra chiedono aiuto, qualcuno sta molto male. Serve un medico, grida la voce, soffocata dallo spavento. La casa è immersa nelle tenebre, così la mia strada, le nuvole del cielo, i lati senza limiti del mio percorso: buio pesto. Ma quelle grida, adesso molto disperate, sono una sorta di luce da seguire. Da quella casa trapela anche un odore di mele cotte, molto intenso, intenso come quelle grida. Allora cerco di seguire l'odore, di addentrarmi in una traversa, sempre buia, profondamente e assolutamente buia, ma dove si dirama il fumo di quella voce e insieme di quell'odore di mele.
I passi sghignazzanti e gli spintoni si sono dileguati. Sarà perché ho deviato, mi dico. Avanzo e avverto ancora un altro terreno sotto le suole. Non più sabbia, né vetro, ma sassolini di mare, quelli divertenti e molto bianchi, ma il loro colore lo avverto dal loro suono. Sono ancora nel buio.
Intanto avverto una lieve discesa, allungo le braccia in attesa di toccare la casa da dove vengono le grida. Sento il muso di un cane che mi tasta e mi bagna un ginocchio con l'umido del suo amore.
Le grida chiedono di un medico. Io non sono un medico ma devo entrare.
Allungo ancora le braccia e incontro una porta. Di legno, la avverto al contatto.
Chiusa, e socchiusa, la spingo con forza e si spalanca. Altro buio. L'odore delle mele cotte è molto più forte, ma le grida sono cessate. Avverto un'aria familiare, un venticello pomeridiano e ciondolante, come quello di un dopo pranzo. Cerco qualche ostacolo che mi orienti. Sarò in una corte, forse una piccola corte con delle scale che mi portano sopra.
Sta morendo un uomo, la voce adesso non grida più. Mi è molto vicina, quasi accanto all'orecchio destro. Deve fare qualcosa, dottore. Sta morendo un uomo che si sente donna. Nessuno lo può curare o salvare. Perché quest'uomo non ha il coraggio di farsi salvare, ma nemmeno vuole morire.
Non capisco, rispondo alla voce. Io non sono un medico.
Non importa, deve salvarlo, anche se non è un medico.
Non posso salvare una vita, signore. Solo i medici possono salvare la vita.
Dica almeno qualcosa, qualsiasi cosa. Anche qualcosa che sia medicata.
Non conosco parole medicate, la prego, mi pare più giusto cercare qualche medico. Un telefono.
Siamo al buio da ieri. Non c'è linea, non c'è luce. Abbiamo appena l'aria e adesso c'è lei. Siamo da soli. Io, l'uomo che sta morendo e la sua morte. La sua morte è seduta su di una sedia a dondolo, e sta aspettando qualcuno. Sta aspettando un medico con cui giocare a carte.
Io non sono un medico.
Ma potrebbe fingersi medico e giocare a carte.
Io non ricordo il gioco delle carte. Al buio, poi, come si fa.
Non ha mai giocato a carte al buio?
Non ho mai fatto niente al buio. Solo dormito.
Non ha mai amato al buio?
No, al buio non ho mai amato.
Perché ha seguito questa strada?
Voglio ritornare a casa, prima delle sue grida stavo ritornando, poi anche l'odore delle mele cotte, ho anche molta fame.
La prego, io lo so che lei è un medico.  Salvi la vita a mio figlio. Nel modo che sente o che sa.
Allora, allora lei è il padre?
Io sono suo padre. Non trovo possibile che una vita finisca così. Nel buio.
Io vorrei tanto aiutarla.
Giochi un pochettino a carte, ci provi almeno! Provi a giocare a carte!
Ma io non sono un giocatore e nemmeno un medico! Al buio sarebbe una follia!
Io credo che lei debba provarci. Le darò anche delle mele cotte. Mi segua.
Non vedo niente, non ha una candela?
Le hanno divorate i topi. Tutte! Le candele piacciono molto ai topi.
Molto, lo immagino. Sono fatte di cera.
Mio figlio ha amato come pochi. Mio figlio sta morendo di amore.
Di amore?
Si è innamorato di un topolino, che veniva a trovarlo tutte le sere e dal buio, con il suo musino tremante e delicato, gli diceva delle parole bellissime, così tenere e commoventi, che nessuna anima al mondo gli ha mai dedicato. La sua sessualità contorta non ha mai trovato tanta dolcezza, se non dal musino bianco di quel topo.
Quanti sessi ha suo figlio?
Non abbiamo capito. Ha uno strano apparato, che tutti temono. Lui amerebbe il mondo intero, se soltanto qualcuno scorgesse la sua parte interna, la più delicata, quella che si nasconde. Come il topolino nella notte.
E allora?
Il topolino da qualche giorno non si vede più. Ha cominciato a  piovere forte e di nero sulle campagne, dall'assenza del topo. È venuta via la luce. Il topolino aveva promesso di tornare ad amare mio figlio tutte le notti di tutta la sua vita, fino a quando mio figlio non sarebbe vissuto.
Quanto vive un topolino?
Immagino qualche anno, ma certo non quanto un uomo.
E l'amore di un topolino, signore? Quanto vive?
Ma un amore non si misura in anni di vita. Io credo che...
È una storia d'amore così strana, tra un ragazzo con più sessi e un topo.
Nessuno sa di quest'amore. Solo un padre, o una madre, possono capire l'amore di un figlio per un piccolo sorcio.
Che cosa diceva il sorcio a suo figlio?
Gli diceva che c'era la stellina della sera, che lui vedeva dal fienile, una stellina quasi azzurra, che brillava del loro amore, e allora mio figlio sorrideva e anche io ero contento. Alla luce di una candela, si attendeva insieme l'ombra dolce del topolino, che arrivava tutto tremolante del suo amore, e poi, quando arrivava, io li lasciavo soli. A parlare.
Che cosa strana, io...io sono davvero rapito.
La sente la sua voce, dalla stanzetta?
Sì, avverto qualcosa.
Sta ancora piangendo a dirotto, lo sente?
Che cosa possiamo fare.
Possiamo dargli la mano, solo questo. Le darebbe fastidio tenergli la mano?
La mano.
La mano nel buio.
Ma...la partita a carte, le cure mediche?
Non importa, solo la mano. La mano nel buio.
Credo che...
È possibile che non arrivi a domani, che cosa le costa. Poi con le prime luci ritornerà a casa, la prego.
Vorrei anche delle mele cotte, prima di salire.
Salga e poi gliele porto.
L'uomo, dalla voce anziana, mi portò sopra. In una stanza buia. Un odore buio.
C'era una sedia vuota, al buio, accanto al letto.
La voce del figlio tra i lamenti chiese chi stava arrivando.
Un amico, disse il padre.
Un amico? Ma io non ho mai avuto amici, papà!
Questo invece è un amico, mi fece, spingendomi con dolcezza verso di lui.
Incontrai con un ginocchio una sedia. La sedia vuota. Presi posto e cominciai a tremare, come non mi era mai successo.
Come ti chiami?, fece il  figlio.
Mi chiamo Saturno, gli feci.
Sei davvero un mio amico?
Sì, sono il tuo migliore amico.
Davvero? È vero, papà?
Sì, figliolo, è tutto vero, ascolta, ascolta quello che ti dice.
Anche tu sei il mio migliore amico, gli dissi.
Me la dai la mano, appena un poco, mi chiese?
E io senza rispondergli gli presi la mano nel buio.
Sentii per la prima volta un calore, un calore misterioso, molto familiare, umano, ma forse sovrumano.
Mio padre che cosa ti ha detto?
Niente di importante. Solo che...
Che sto morendo per amore, è così?
Per l'amore di un topolino.
Allora te lo ha detto. Può sembrare da pazzi, è così?
No, non credo. Amare non è mai da pazzi.
Anche amare un topolino non è da pazzi, Saturno?
L'amore di un topolino può diventare grande e delicato come l'amore di Dio.
Il ragazzo mi strinse la mano.
Non ci dicemmo altro.
Gli lasciai tutta la notte la mia mano nella sua.
Alle prime luci dell'alba suo padre mi portò le mele cotte che mi aveva promesso dalla nottata.
Il letto era vuoto. L'uomo padre mi sorrise.
È stato davvero molto buono, dottore.
Adesso dov'è, gli dissi. Volevo salutarlo, prima di andare.
È andato a correre, stamattina è sereno. Siamo certi che ritornerà anche il topolino e questo lo dobbiamo soltanto a lei.
Ma se io non ho fatto niente.
È stato l'unico al mondo che gli ha tenuto la mano...questo non è affatto niente. Almeno per Dio...
Ritrovai la strada di casa.
Ogni sera penso a quella storia. Di quel padre, di quella mano nel buio, del topolino innamorato e della stella della sera intravista da un fienile. Pensando a Dio, intravisto da un fienile, dal muso tremante di un topolino.
Ogni sera da quella sera penso a Dio. E mi accorgo di aver capito che cosa sia l'amore e anche cosa sia il buio. E che l'amore ha senso solo al buio.
Senza parole.

lunedì 13 maggio 2013

"La compagna di classe", un estratto:

 Se fosse successo qualcosa dovrei sbrigarmela da solo e arrivarci sempre prima io. Come avviene con le buone notizie, anche con le cattive: c’è chi si espone sempre per primo, perché ha maggiore raggio di azione; forse maggiore resistenza, scaltrezza e autonomia in certe dinamiche o una certa maledizione nel cuore o nel destino. Così mi avvio, senza meta, senza telefono. Sperando che spunti un taxi con la sua mano che batte il vetro e mi saluta o forse la sua sagoma a piedi, sul primo tratto di curva, prima dei due pini. Con la sua solita andatura baluginante, le buste piene attorcigliate alle sue dita. Scorgo appena delle ombre, ma poi non c’è più nessuno, e sono passate già le nove e non ricordo nemmeno se mi abbia detto qualcosa prima di scendere. Cerco di ricordare e intanto oltrepasso la prima striscia di negozi già chiusi. Mi guardo bene da ambo i lati, prima di attraversare e ancora ricordando a vuoto, e poi rallento. Perché il traffico scema e allora quelli più violenti alla guida corrono come matti e finisce che poi ti falciano se non stai attento. Ci sono i lampioni muti, quando attendo ancora e il tempo passa e quasi non me ne accorgo. Quando mi si accosta al fianco destro, quella macchina bianca con i due romantici; quella che poco prima era parcheggiata davanti al mio cancello. Mi giro di scatto, e proprio in quel momento l’uomo che guida abbassa il finestrino e mi guarda.

Deduzioni sull'abduzione ne "La compagna di classe" di Luigi Salerno.




A volte chiudere un racconto, è come chiudere un caso. Un caso con un frammento acceso della propria vita; a volte una fiammata di un candelabro da spezzare con un solo palmo; una colpa, verso la propria idea del linguaggio, che a distanza di attimi sembra tradita o sorpassata. Per ogni storia esistono passaggi privati e complessi, ponti levatoi di memoria, e ancora resoconti o rimorsi.
"La compagna di classe", racconto finalista alla rassegna letteraria organizzata qualche anno fa dalla case editrice Oxp con la facoltà universitaria L'Orientale di Napoli, nasce nell'ignoto e nell'assenza e vi rimane, quasi come in una costante, e mantenendo una linea severa che mi porta ancora a volerne capire di più, e arrivare quanto più giù possibile. 
Forse non era proprio voluto dall'inizio, come spesso accade e mi accade, ma lo strano racconto trattiene e contiene insieme, dentro di sé, una piccola spina, quella della sua strana logica che ricorda quella della "reductio ad absurdum", e forse "mimando" alla lontana, la dinamica del meccansimo dell' abduzione, nel quale ho provato a immaginarmi, soprattutto a lavoro ultimato e anche oltre. Un nuovo approccio rispetto alle dinamiche del fatto avvenuto o possibile, della sua interpretazione, del suo eventuale risultato. Questo  in particolar modo nello sviluppo della fase centrale e finale, sia in relazione al dubbio sull'identità della donna – la donna folle e la donna madre; la donna del poker, la donna del dirupo di ortiche; donna viva e donna morta – ma ancora più forte sull'identità oscura dell'autista-autista specchio, autista-altro; autista-killer?
Questi strani fattori paralleli, o dati, premono e svincolano il ragionamento da fattori certi, così come la storia oscilla tra luoghi noti e più familiari, fino a sprazzi di irrealtà, di sospensioni, di sfioramenti, contro la certezza, almeno in uno dei due casi, del risultato assoluto, del vero. 
Così come non sia un dato certo che la donna introdottasi nell'auto e nel garage, appartenga alla vita passata del protagonista, e che sia venuta a conoscenza del suo nome per una voce misteriosa da un balcone, allo stesso modo lo stesso personaggio principale potrebbe aver guidato la sua auto, di cui non si dice il colore, e dimenticato di essere parte viva di quella precisa confessione, anch'essa non dimostrabile nell'immediato e forse nemmeno oltre, così come l'identità oscura della donna che narra e confessa qualcosa di eventuale, ma non per questo meno terrificante e spiazzante per chi non sa o non ricorda. 
L'apertura della forma abduttiva del ragionamento, aprirebbe così a molte più possibilità diverse, nonostante l'azzardo e la troppa istintività del mio accostamento. Ma l'idea, anche se azzardata, non mi dispiace. L'abduzione in fondo opera su più piani, sfoggia un tipo diverso di interrogazione sul reale, complica, smarrisce, ma a volte paradossalmente rischiara verso un nuovo territorio sensibile, che in questo caso mi è sembrato adatto a questo insolito poligono di tiro dove mi sono collocato a lanciare.
Ma anche questa rimane un'ipotesi, nulla di più. Un'abduzione, in piena regola, e nello stesso labirinto fertile del sillogismo. Me la concedo, in sintonia con il suo confuso paradosso. Quello dell'altro, per esempio. Di qualsiasi probabile altro, della fiducia che può ispirare o infrangere, di quello che sa e di quello che dimentica. Della sua mitezza e della sua minaccia, a volte intercambiabili e preziose, allo stesso modo. 
Ecco il link con il racconto: La compagna di classe.
l.s.