mercoledì 31 ottobre 2012

Mistakes are gifts

Rimango sempre più convinto che diverse cose della propria vita si imparino e si migliorino soprattutto facendole, ma anche sbagliandole in pieno, fallendole. E perdendosi completamente nel proprio farlo anche durante lo sbaglio, anziché sfiorarle appena in un'idea convenzionata e premasticata di giusto e di corretto. Anestetizzati dalle proprie informazioni.
Credo che in ognuno dovrebbe esservi quel sensore che tracci un confine di lecito, di giusto, di corretto o di sbagliato in quello che si persegue e che si fa; quel piccolo antifurto che avverte dell'intromissione di un fattore estraneo o pernicioso lungo il proprio percorso, ma che non sempre suona nello stesso modo o nel momento più opportuno: qualche volta suona credendo che il ladro sia il lattaio, il vicino di casa, il postino o il portiere di notte, e in alcuni casi i ladri sono lattai ed entrano tranquilli e sorridenti. Manca ancora la confidenza col buio. Non capisco perché si voglia evitare a tutti i costi il gusto di brancolare e di cercare una propria strada, anziché aspettare un segnale esterno che ci deresponsabilizzi dalle acque alte di una ricerca personale. 
Il brancolare ha qualcosa di animale, di fresco, di caotico e di molto selvatico, il verbo pare accartocciarsi come una foglia nel fuoco. Credo che per chi voglia esprimersi, il brancolare sia la base e l'arrivo, anche la sede degli errori. Oggi è la condanna a rimanere fuori.  Troppe certezze possono essere un'arma a doppio taglio.  Il regista Lars von Traier durante la lavorazione di Melancholia disse a un suo collaboratore, in riferimento ad alcune tecniche di ripresa a mano: "Don't you worry about mistakes, i love the mistakes: mistakes are gifts". (Non preoccuparti degli errori, io li amo gli errori, gli errori sono dei regali).
Non ho altro da dire, stamattina, a parte che condividere il trailer di Melancholia, in omaggio a questo elogio così ispirato, anche se così emarginato, dell'errore creativo.

lunedì 29 ottobre 2012

L'azzurro della notte: un breve estratto dal capitolo 3

Ci guardammo, con l'uomo cupo e padre o mesto patrigno delle trafitture, non appena entrò muto nella stanza di Simonetta, dove ci eravamo trasferiti. Lo strapiombo del suo viso assonnato di chanson triste, profumato di boschi bagnati da temporali, ancora rabbuiato. Gli occhi pressati dal calco della mano bianca che riscalda e schiaccia i pensieri di chi ascolta l'opera lirica da solo, nel semibuio di una grande stanza dai lampadari antichi e ancora tutti spenti. Il soffitto alto. Il riflesso dell'ultima luce naturale nei vetri della cristalliera. Le tazzine e i bicchieri frullanti con i violoncelli e con i contrabbassi, in un lungo sgorgo omofono; e intanto sua figlia lo assaliva e lo toccava nella faccia e nei capelli tristi a spazzola, e poi se lo abbracciava, guardandomi a tratti, sbandando lo sguardo sporco e orfano, come aveva fatto prima con il cane Lampo e adesso anche con me, per sciogliere quell'attimo sospeso di tensione e di forte euforia. "E' stato lui che lo ha portato, è stato lui, papà! Si chiama Plamf, non è buffo come nome, papà? Il nome di un orsetto o di un coniglio: Plamf”, e io mi sentivo la sua voce e il suo sorriso artigliarsi nella gola, quando cercavo di sfuggire lo sguardo burrone dell'uomo padre".

domenica 28 ottobre 2012

Lo scrivere nell'esser soli

Dentro, dietro e oltre le mie parole, ma credo anche in quelle di chi scrive con impegno, ricerca paziente ed ardore, esiste un mondo temporalesco e preverbale, che cammina di pari passo con quello che mi appare e che avverto controllabile da un certo tipo di procedimento o (in)disciplina. Che attenta alla pace del metodo, di qualsiasi metodo al mondo. Il fattore sismico e oscuro di un'esperienza profonda e solitaria, vissuta senza certezze, nel silenzio tombale - o peggio nel giudizio morale di un'estetica infarcita di convenzioni, ma avulsa da ogni logica e da ogni astrazione. 
Un universo filamentoso e lagunare, che si distende e si nasconde nel linguaggio stesso, con un suo vibrato stretto e capriccioso, ostinandosi  in sequenze astratte e aggressive, artigliate ai registri della  piccola voce rauca e stonata, che vorrebbe a tutti i costi la sua lucina sulla sedia, dove salire e canticchiare il suo piccolo a solo, per i pochi e ultimi amici assonnati rimasti. 
In questa soglia così delicata e confusa, nascono e si articolano sensazioni vaghe di linguaggi altri, che a volte diventano l'ombra di una parola, o forse del suo primo suono, non vincolandosi quindi all'ortodossia di un solo nesso logico,  di senso accertato o verificabile, ma a qualcos'altro, che mantiene in ogni caso un suo filo, anche se molto oscuro. 
Non credo di potermi identificare con la perfezione più o meno perseguibile delle mie parole: quella è la strada più facile, la più domabile. Conta molto di più l'abbandonarsi alla dilatazione del loro spettro verso l'imperfezione di quel disordine così scomodo e così poco economico,  ma che in qualche modo mi ama e mi rappresenta, come poche altre cose al mondo mi hanno mai amato e rappresentato nella loro invisibilità. 
Adesso che scrivo sento tuonare. Il processo verso la parola a volte ha la stessa forza implosiva di un tuono nella notte per un bambino solo: qualcosa di tremendo e di calcato a mano sullo sterno della sua vita di quell'attimo, che gli rivolta il cuore. Che fa tremare i vetri della sua stanza e che non si vede.

sabato 27 ottobre 2012

eBook: Guida creazione ePub, di Bookolico

venerdì 26 ottobre 2012

Titoli definitivi per un mio progetto di raccolta:


Qualche ora fa ho chiuso il cerchio e ho definitivamente stabilito quali racconti costituiranno l'anima del mio progetto di raccolta, sul quale sto dispendiando grandi fatiche ed energie, ma sempre con grande gioia ed entusiasmo. 
La  scorsa definitiva, con una spolverata di sinossi:


1) Delle luci della sera di un tempo, (racconto lungo: l'amore delicato e segreto di un professore di liceo per una sua allieva).

2) In un giorno vispo di pioggia, (racconto lungo: una sperimentazione ariosa in forma quasi teatrale, sulla storia di una compagnia che rischia di sciogliersi, e della ricerca disperata di un personaggio dell'ultima commedia da rappresentare, che la salvi per tempo).

3) Il telegramma, (vecchio racconto già pubblicato, a suo tempo e in cartaceo, da Terre di Mezzo, selezionato dalla Scuola Holden tra i migliori del 7° Concorso Letterario per italiani e stranieri. Due vecchie sorelle sole, ricevono uno strano telegramma da un nipote lontano, che annuncia loro di un suo arrivo improvviso nel paese, dopo anni di assenza e di assoluto silenzio).

4) Linea Gialla, (un incontro al confine tra sogno, follia e destino, con una misteriosa dattilografa mattiniera e sconosciuta, spettinata dal vento dei treni, alla stazione Ovest della Metro).

5) La vecchia e il bosco, (L'insonnia oscura di una bambina, di nome Anita,  attratta tutte le notti da una casa appena accesa nel bosco, dove canta e vive una vecchia calva con un nano musicante,  e dove Anita riuscirà a dormire e a sognare come in nessun altro luogo al mondo).

6) Due compleanni, (Storia di un'amicizia tra un ragazzo ricco e borghese e il figlio di una coppia di operai della fabbrica di biscotti. L'organizzazione di un compleanno, tra misteri e nebbiose coincidenze).

7) La donna della stanza diciannove (racconto lungo: Un ragazzo,  afflitto da una fastidiosa e penosa malattia della pelle, è in vacanza con sua madre in un albergo in costiera. Incontrerà una donna affascinante e spettrale, che lo ossessionerà oltre l'immaginabile).

8) La cascina (Una famiglia raggiunge una cascina in un luogo solitario e campestre, per chiudere la trattativa dell'acquisto di un terreno).

Tutti questi racconti dell'elenco, hanno in comune la prova superata dell'interiorizzazione, quel processo o fase, spesso inspiegabile, che rende un insieme disordinato o anche composto e pianificato di parole, parte essenziale delle proprie emozioni, delle proprie sensazioni e della propria vita, anche a distanza di tempo. Qualsiasi cosa si potrà dire, tacere o pensare su ciascuno di loro, non cambierà quello che avverto per ognuno, la loro dimensione interiore e risonanza dalla loro silenziosa profondità. Solo a queste condizioni riesco a lavorare sul mio materiale: la sua interiorizzazione; e solo a questa condizione sarò pronto a proteggerlo, a correggerlo, a migliorarlo, per quanto mi sarà e sentirò possibile, per poi inserirlo nella follia di un progetto di scrittura del genere.
Non altro, al momento. 

giovedì 25 ottobre 2012

Delle luci della sera di un tempo...(Incipit)

Questo incipit appartiene a uno dei miei racconti inediti a cui tengo di più al mondo, - al di là di quello che potrà accadergli o non accadergli o del suo eventuale o inesistente valore; tra l'altro cuore di un progetto piuttosto prossimo di raccolta, che sto rielaborando e preparando con molta cura e fatica. Non conosco la ragione di questa preferenza; credo appartenga a una questione irrazionale quanto stregante, che avverto soltanto dentro di me e che quindi, per mia fortuna, non so spiegare. 
I primi colpi:

"Arrivederci, professor Steiner!". 
"Arrivederci, ragazzi!". 
"A domani, allora, professore!". 
"A domani, a domani...se mai sarà così". 
Il tratto obbligato lungo il ritorno dal Liceo Classico Osip Mandel Štam. Quel suo saluto appena incerto o sospeso, quando incrociava qualcuno di noi. 
Era piuttosto impacciato, noi alzavamo le braccia e le voci al suo passaggio a piedi o in bici, e lo circondavamo togliendogli tutta la luce intorno, come nell'assedio di un crepuscolo. Insegnante di aspetto giovanile, timido, scapolo, sempre molto curato, Steiner viveva da solo con sua madre, poco lontano dalla nostra scuola, in una traversina elegante del corso Ottorino Respighi. Una vita tranquilla, metodica, ordinata. Una grande passione per la letteratura, in particolare per Ovidio  e le sue Tristia, ma anche per certa pittura francese. Il suo sogno era sempre stato quello di insegnare in un liceo, ed in quello era stato esaudito. 
Con noi ragazzi di terza, si era instaurato un rapporto particolare e molto intenso. Steiner era proprio uno di noi, - è così che di solito si diceva, quando qualcuno dei professori era più vicino al nostro mondo; o forse eravamo noi ad essere più vicini degli altri al suo. Sposava senza riserve le nostre cause, cercando di venirci incontro il più possibile, di istradarci alla gioia nebbiosa dell'apprendimento, alla giusta tecnica, senza mai minacce o severità, e cercando di guardare più lontano delle apparenze, contagiandoci di quella sua capacità luminosa di sguardo sulle cose, come se ognuna di loro svelasse la delicatezza di una volta stellata all'imbrunire, anche quelle più semplici, e così anche le nostre figure magre dentro i banchi, dietro i suoi occhiali d'epoca Bellamore di New Orleans, diventavano qualcos'altro da noi". 

martedì 23 ottobre 2012

Ingresso in casa d'altri


Un ingresso singolare, ma dalle grandi profondità nebbiose. Come tutta la scrittura di Silvio D'arzo. A detta di Montale, con questo racconto Casa d'altri D'arzo raggiunge la perfezione, infatti lo definisce "racconto perfetto". Considerato fatto d'aria, ma anche tra i più belli del Novecento.
Lo rincontro dopo diverso tempo. Rileggendo a notte fonda i brevi e ariosi capitoli che lo compongono. Mi nutro della sua intensità poetica, delle sue strane luci, delle sfumature, della profondità del borgo e dei muri freddi, dell'odore e delle ombre della campagna. Tutti questi elementi si rapprendono di altro, si fanno sempre più precisi e indefiniti per ogni nuova scorsa di valico. La particolarità di questa scrittura è proprio il rapporto con la materia. Gli odori e le luci hanno una loro fisicità ma anche un loro nucleo inscrutabile e selvatico, quanto le dimensioni più oscure dell'umano che vi si avvicendano. Leggere D'Arzo in uno stadio di abbandono, che lascia che le atmosfere arrivino e si ramifichino da sole, consente un ingresso in un territorio delicato e stregante. 
Vi lascio quindi solo l'inizio, per gustare appena il tepore di questo ingresso insolito, incisivo, asciutto:

"All'improvviso dal sentiero dei pascoli, ma ancora molto lontano, arrivò l'abbaiare di un cane.
Tutti alzammo la testa.
E poi di due o di tre cani. E poi il rumore dei campanacci di bronzo.
Chini attorno al saccone di foglie, al lume della candela, c'eravamo io, due o tre donne di casa, e più in là qualche vecchia del borgo. Mai assistito a una lezione di anatomia? Bene. La stessa cosa per noi in certo senso. Dentro il cerchio rossastro del moccolo, tutto quel che si poteva vedere erano le nostre sei facce, attaccate una all'altra come davanti a un presepio, e quel saccone di foglie nel mezzo, e un pezzo di muro annerito dal fumo e una trave annerita anche più. Tutto il resto era buio".




sabato 20 ottobre 2012

Quando tutto crolla prega:

Se quando scrivo chiedo permesso, chiedo scusa, per paura di infrangere qualche regola, per paura che il ragazzino di turno mi parli di disambiguazioni; per paura di disturbare, di pisciare con la porta aperta, di fare troppo rumore, di essere caldo ma stonato o freddo perché troppo intonato; di creare confusione, disturbo, frustrazione, apprensione, tensione, interruzione, o di non essere nel  giusto; di essere come non si dovrebbe o non si potrebbe, di stravolgere, travolgere o di schizzare qualcuno, di stoccare l'interno di un gomito o di un ginocchio, di respirare nel modo sbagliato,
allora il mio non sarà un atto creativo, ma un atto distruttivo di tutto l'eventuale potenziale creativo disponibile, che potrei forse avere avuto a disposizione per qualche piccolo istante di saggezza e di libertà. Quando scrivo e penso a quello che qualcuno potrebbe dirmi,  allora sto correggendomi prima di sbagliare e di precipitare,  ed è quello che il circa 80% delle persone vorrebbe che accadesse, con scrittori che scrivono pensando unicamente all'efficacia degli amori degli altri lettori per i loro altri scrittori. Senza sapere che l'amore non ha nulla a che vedere con l'efficacia. Sono due cose lontanissime: se amo uno scrittore, il mio amore per lui non sarà basato sulla sua efficacia. E nemmeno saranno poco efficaci gli altri scrittori che non scrivono come quello che amo. L'incontro con uno scrittore è quasi sempre una questione oscura e misteriosa. Anzi, toglierei del tutto quel quasi: almeno nel mio caso lo è sempre. Non si può ritenere qualcosa inefficace solo perché non la si ama, così come non si possono ritenere valide ed efficaci soltanto le cose amate. 
Proseguendo lungo il filo: non posso aspettare qualcuno che mi dica, se sta di genio, che ho del talento. Io non so quasi nulla del mio talento e di me, non più di quanto sappia dei nuovi inquilini del palazzo di fronte o del cane randagio che piscia sangue su via Scipione. Non conosco questi termini: disambiguano, direbbe qualche illustre, ma sono carta straccia. Oggi si parla soltanto di carta straccia, si rettifica e si classifica la gamma espressiva di chi vuole esprimersi e non esimersi, e ci si dimentica il fulcro doloroso che porta qualsiasi scrittore a mettersi in gioco, (questa rigidità, mi dispiace dirlo, la riscontro in diversi giovanissimi appassionati, ma blindati e murati nei loro amori e nelle loro convenzioni, quando invece dovrebbero scrivere come draghi, con le fiamme che gli escono dal culo e dalla bocca).
A tredici anni scrissi un romanzo horror, adesso non so che fine abbia fatto, ma dentro c'era tutta la mia follia di quel momento. Non avevo idea di quello che facevo, era un atto inconsapevole ma preciso, inconsulto e orrorifico; ero esattamente nel tempo di una chiavata infernale con la mia vita. Credo di non aver mai scritto con più efficacia, pur nell'inefficacia di un vulcano in eruzione che svaniva nella sua stessa lava.
Se qualcuno mi dicesse di lasciar perdere, io continuerei, ma se qualcuno mi dicesse di continuare, è molto probabile che vi sarebbe una buona motivazione nel lasciar perdere. Ma certe cose non si chiedono. Non posso chiedere a nessuno al mondo del mio possibile quanto inutile talento. Non posso chiedere il permesso a nessuno, non è giusto, anche perché nessuno me lo ha mai chiesto. 
Nemmeno posso però aspettare il rimprovero per cercare di dire la mia nel solo modo che conosco. C'è chi vorrebbe che tu fossi un altro e scrivessi come qualcuno che non sei e che non sai chi sia e che non sarai mai. È come dire: lavati le mani prima di scrivere. Scrivi con un'altra mano, un altro pensiero. Bacia con un'altra bocca. Una migliore, ma che non sia la tua. Come dire a chi ami di togliersi gli occhiali. Io non so chi sono, quando scrivo, ma il rapporto con questo sconosciuto è un rapporto sano e univoco, non ottimizzato dal filtro di qualcun altro, per mia fortuna. 
In questo clima, se qualcuno deciderà in questo istante di imbarcarsi in un'attività così frustrante, disturbante, caotica, anche se bellissima, lo faccia, per cortesia, senza chiedere permesso prima di entrare o scusa prima di aver urtato qualcuno. Lo faccia con coraggio e incoscienza ma anche con grande amore e delicatezza.
Concludo, in questo delirio di assoluta impotenza, dicendo che ho sempre la stessa precisa sensazione, quando devo leggere un paio di righini anemici su qualche mio scritto: quella di aver preso una merda e di occupare la sala delle feste di un palazzo ducale in una serata di gala e di sbadigli, dove tra l'altro non sono stato nemmeno invitato. Sensazione precisa, limpida, sempre la stessa. Incantevole, a dir poco, dal momento che il mio scrivere non ha uno scopo se non quello di perdermi.
Chiudendo con Miller, da Big Sur e le arance di Hieronymus Bosch:

"Ma non darebbe un'occhiata al mio manoscritto, per favore? Non può darmi, almeno, qualche parola di consiglio?". No, non posso. Anche se avessi il tempo e l'energia, o la presunta saggezza, sarebbe inutile. Uno deve credere con tutto il cuore in ciò che sta facendo, rendersi conto che è il meglio che possa fare al momento- rinunciare ora e sempre alla perfezione!- e accettare le conseguenze di ciò che comporta la paternità...Non esiste un libro di "aperture", come nel gioco degli scacchi, da poter compulsare. Per trovare un'apertura bisogna fare una breccia nel muro: e il muro è quasi sempre nella propria mente. Se senti il desiderio e lo stimolo di assumerti grandi compiti, allora scoprirai in te stesso le virtù e le capacità necessarie alla loro realizzazione. Quando tutto crolla, prega!". 
Henry Miller. 

Ecco la mia aria aperta: 

Tour Nook Simple Touch with GlowLight

venerdì 19 ottobre 2012

L'azzurro della notte e La bella addormentata. Appunti e stralci: parte III

L'azzurro della notte contorce e stravolge alcuni passaggi de La bella addormentata (il balletto ispirato alla fiaba di Perrault e commissionato al compositore russo Pëtr Il'ič Čajkovskiy).
I vari aspetti che vengono accennati ma rielaborati in modo anarchico e quasi in moto cancrizzante: 
La puntura letale dell'arcolaio. 
I fusi nascosti e banditi dal regno. 
Lo svenimento di Aurora dopo la puntura. 
Il clima cupo di magia e maledizione. (La maga Carabosse, il rapporto sottile tra il sonno e la morte). 
Il castello addormentato nei rovi (come le ombre e le finestre del ghetto ebraico, alveo insonorizzato, senza definizione e figure umane visibili). 
E ancora: l'inversione della rottura dell'incantesimo e dei rapporti tra salvezza e mistero, con una prospettiva di perenne incertezza tra bene e male, salvezza e rovina, sortilegio stregato e incantesimo, in  un continuo dibattersi tra intimità ed estraneità, spavento mortale e fiducia incondizionata. L'incantesimo, in questo caso, invece di spezzarsi, si forma lungo la narrazione, con un suo copione oscuro e inscrutabile (la stanza della musica lirica).
La paura del buio e della luce.
Ciascun personaggio tutore, o potenzialmente destinato a una certa dose di responsabilità, rimane velato dalle stesse ombre del castello piombato nel sonno e sepolto nella  luce spettrale dei boschi. 
Nell'Atto III, nella festa al castello, tra gli invitati comparirà l'Uccello Azzurro, che nella nostra storia sarà lo sfondo di un cielo ansioso, creaturale e insonne, che pare cibarsi degli occhi e dei cuori dei personaggi. 
Lampo come uno degli animali o invitati delle favole. O forse unico tutor mentore?
La luce azzurra e nera  e l'elemento fiabesco di Perrault: 








giovedì 18 ottobre 2012

L'azzurro della notte: gli Ebook Store



Ecco i principali store della rete dove è reperibile da oggi L'azzurro della notte:

La Feltrinelli

Rizzoli

Ibs

LibreriaUniversitaria

Ultimabooks (Simplicissimum)

Ecstore

9 am

Bookrepublic

Ebookizzati

Ebookmobile

Ebook.it

Mrebook

Omniabuk

MediaWorld

Webster

Deastore

Biblet Telecom





mercoledì 17 ottobre 2012

Fa già buio, di Luigi Salerno, nella raccolta free "Racconti di Halloween Vol. 1":

Racconti Di Halloween VOL. I - Edizioni Il Pavone

L'azzurro della notte e il profumo degli astri:

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"Mi affacciai al mio balcone, alzando la testa e slanciando il viso verso il punto più alto e stellato, in quel momento il più pulsante e il più vicino a me. Mi sembrava di avvertire il profumo degli astri, o il loro flebile canto tremendo. Abbassai una mano e l' abbandonai aperta. L'umido del suo muso dilagò nel palmo, come in un primo bacio notturno e disperato".

martedì 16 ottobre 2012

L'amore per la vita che passa e le mie parole

Continuo a provare una costante lacerazione, quando guardo i lavori che sono davanti a me, ancora incompleti, pieni di correzioni, di graffi, di appunti, ma anche di speranza, e poi quando rivado a quelli chiusi, dove il processo è ormai finito. Manca solo la sentenza.
Questa sensazione ricorrente, di fiducia maggiore in materiale in corso d'opera e di grande diffidenza, per qualsiasi altra cosa sia stata ormai chiusa e definita, incombe con una certa costanza e ha delle motivazioni ancora oscure, forse legate al fatto che col tempo si cambia, che le cose che mi risuonavano e che mi davano forza, in un certo momento, mentre le elaboravo e le sentivo, adesso marcano solo la distanza da un passo diverso di crescita, o spesso anche da un passo falso o mutamento e virata maldestra, che potrebbe anche rappresentare una certa involuzione o comunque un cambio di visione sulle cose che sono state e che forse più non sono come credevo che fossero.
Concludo, pensando a queste afflizioni dell'ultim'ora, piccole o grandi che siano, come parti vive di uno stesso processo di ricerca e di crescita, dove quello che è stato, quello che potrebbe o che poi o mai sarà, farà parte dello stesso crogiuolo, dove si fondono le mie esperienze, i miei dolori, le mie speranze, le mie imperfezioni, la mia vista sulle cose della mia vita, e anche la mia stessa vita. Per il resto, quando non si ha più il controllo su qualcosa, su qualsiasi cosa con cui si è passato del tempo importante, sarà normale una sensazione di smarrimento, di vago terrore di aver visto, ascoltato e aver detto altro, da quello che pensavo di aver  visto, sentito e quindi scritto. 
Ma l'importanza e la delicatezza di quel tempo trascorso con un qualsiasi scritto, che sia l'ultimo scritto al mondo, avranno un loro valore molto grande, indipendentemente dal risultato oggettivo di quel lavoro. Il valore di avvertire, attraverso le proprie strane, buone o cattive parole che siano, l'amore per la vita che passa.

lunedì 15 ottobre 2012

L'azzurro della notte: un breve estratto


"Ormai era la mia maledizione, quella di ritrovare quel coltello così affilato e fedele, che mi costringeva ancora a farlo, fino all'ultimo affondo di tenebra. Continuando, adesso senza più fermarmi. Avevo preso il ritmo giusto, una volta piombato dentro l'ardore non ne uscivo più facilmente. Ero ritornato quello di un tempo, naturale, ispirato, così lirico e assorto, senza neanche guardare le parole che sgorgavano fuori, dimenticando la fatica, con gli occhi schiusi e squali verso il teatro di un altro luogo lontano e ignoto, mai visto prima.
Ogni tanto una lunga leccata canina, che mi smuoveva i paragrafi e mi faceva più lucida quella piccola stesura di vecchia fiaba e di dolore. Adesso rivedevo, febbricitante e raccolto in una vestaglia, il suo fosco patrigno, dagli occhi pressati e piccoli; i capelli di quel triste, a spazzola e proprio così come l'avevo lasciato. Mentre scrivevo prendeva paura anche il cane, recuperando il suo odore di casa dalle mie parole appena trascritte, quando la tensione del testo saliva e si infoltiva nella sua bava, facendo tremare le luci già fioche del nostro teatro, inselvatichire le punte dei rami, che si scorgevano dai vetri appannati del rosaurora".


Copertina: Alessandro Mitola 
Direzione artistica della copertina: Federico Scudeler


sabato 13 ottobre 2012

"Not a soul": un estratto

Pierre Joubert scorge la luce accesa della cucina tra i rami degli alberi. L'unica possibilità è quella di entrare e salire sopra di corsa, dicendo di aver già mangiato, senza lasciare il tempo a Luisa di guardarlo per bene in viso, di domandare. Il resto lo avrebbe deciso in seguito e con più calma. Si avvicina alla casa. Luisa è sudata accanto al forno acceso. Al rumore dei passi,  abbassa la testa alla finestra, scosta la tendina e vede Pierre avanzare con affanno, nelle ombre: il volto basso e rabbuiato, i capelli sugli occhi. La porta di ingresso è ancora socchiusa. La donna sospira, comincia a prendere la tovaglia, mentre il ragazzo impegna l'ingresso e si scaglia dritto verso le scale, senza nemmeno lanciarle una voce. Arriva in pochi balzi nella sua stanza e vi si chiude dentro a chiave. Due mandate schioccano nella tempia di Gèrard, che solo allora ritorna vivo e riapre gli occhi. Il rumore della porta chiusa scuoterà Luisa e anche Gèrard, che da distanze e in posizioni diverse gireranno il capo allo stesso modo, avvertendo nell'aria qualcosa di strano e di indefinibile.
Pierre intanto si distende sul letto, immobile. Il viso è ancora fresco di escoriazioni, gli occhi aperti e sbarrati al soffitto. Ma il sangue è molto calmo e non cammina più. Adesso sta tremando e suda freddo. Ha i vestiti sgualciti e sporchi della sabbia bagnata di Camargue. Respira forte, chiude gli occhi e si apre con una mano la patta del pantalone; i palmi allargati e ancora macchiati di sangue.
Il viaggio delle due donne continua nella pioggia, con le loro voci nel treno, appena più stanche.
“A volte fa molto male il sentirsi amate.”.
“Il sentirsi amate è il sentirsi sole al mondo”.
“Si è da sole al mondo solo nel sentirsi amate”.
"Adesso è diverso, quel momento, o è già passato".
“In un posto così piccolino, ci mangeranno vive...".
“Lo vuoi un uccellino?”.
“Uno vivo?”.
“Un uccellino vivo, allora?”.

venerdì 12 ottobre 2012

Revisioni d'autunno

In questo mattino di pioggia fitta, ma così autunnale, forse il primo giorno autentico di una stagione che amo in modo particolare, mi appresto a preparare il materiale selezionato da revisionare, quello da infornare in stampa e su cui lavorarci in un'immersione profonda, senza tempo. 
Fino a ieri, tra i testi che avevo selezionato, ve ne erano alcuni che immaginavo molto diversi e maturi, che mi rassicuravano sulla possibilità di potervi accedere e intervenire con quella gioia e quella fame da lupi, che di solito è l'unico segnale più affidabile e ispirante per procedere. E invece tutto quello che immaginavo e che credevo pronto e disponibile per essere sezionato, manipolato, adesso rimarrà ancora intonso, in attesa, mentre un altro testo, a sorpresa, un lavoro mezzo dimenticato, un romanzo del 2009, (mai successo di aver accantonato una bozza prima per tanto tempo: sono molto curioso di scoprire quanto dureranno le atmosfere che mi hanno convinto, a mio rischio, a metterlo in revisione prima degi altri) che mi ha colpito in modo particolare, nella scorsa notturna di alcuni suoi blocchi che ho aperto solo ieri dopo anni, per il tipo di suono, per una sua luce molto insolita e vaga, raccolta, ecco il termine esatto: una luce e una dimensione raccolte, che gli altri testi a cui avevo dedicato la mia attenzione pianificante, non mi hanno ancora rivelato, almeno non con quest'intensità. Per cui utilizzerò questo testo come base di lavoro, in più aggiungerò qualche racconto scritto quest'estate. E intanto la pioggia scende e mi riaccende.
Buona giornata a chi non si arrende:

giovedì 11 ottobre 2012

Considerazioni dissennate sul senso del mio scrivere. E sul suo dissenso:




...quando mi accorgo che il percorso espressivo non sia così retto e diretto come si dovrebbe, allora c'è da riflettere. A lungo. E io la faccio con me stesso questa disordinata riflessione, anche adesso che posto questa sfilza di considerazioni come un gregge sparso senza cane e senza pastore, con il lupo nero che ringhia nella notte, in una sorta di flusso anarchico e pensante, che forse mi sarà utile per fare un tantino di luce in più, o farà divertire ma anche un po' sonnecchiare chi si troverà a leggerla,  chissà.
Partenza:
partendo dal fatto che la prima problematica sia quella del fattore del sogno incombente: fattore disturbante, quello che spesso non accompagna l'interno del mio scritto, la sua polpa, il suo nucleo, ma il luogo dove immagino e dove sogno possa collocarsi in un lontano o prossimo futuro il mio scritto; luogo inesistente, che probabilmente non avrà mai una sua collocazione definita e precisa, - questo anche perché i luoghi sono fatti di persone e quando scrivo non posso avere idea di quello che potrebbero pensare o non pensare le persone che abitano certi luoghi irreali delle mie parole, quelle stesse parole che dovrebbero comporre un'idea più o meno fragile di scritto, di testo narrativo, o di scrittura.
Questo primo punto ne include a ruota un secondo: qualsiasi scritto senza la certezza di un atto più o meno diretto di fiducia, di ascolto, e quindi di crescita, di critica costruttiva, di relazione e di costruzione, diventa una messa in scena infernale del peggio che può risiedere nel creativo inespresso di qualcuno che abbia la fame di dire, il suo desiderio acceccante. Non sempre quello che si desidera scrivere o descrivere sarà proporzionato alla capacità di imbrigliare e di essere all'altezza di quel desiderio; di cavalcarlo senza redini, senza caderci e farsi schiacciare, insomma: (mio nipote a circa tre anni di età, vide il cavallo bianco cavalcato da un carabiniere, in villa comunale, e piantò un capriccio perché voleva cavalcarlo e portarselo a casa, il cavallo, naturalmente. Un capriccio che durò circa un'ora, senza rendersi conto, perché bambino, che i bambini di tre anni non cavalcano i cavalli dell'arma e che in un appartamentino di città i cavalli dell'arma non hanno accesso, né sulle scale, né in ascensore, né dalla porta di casa. Ma questo il suo capriccio non lo sapeva e non lo capiva. Il suo desiderio era così forte da creare varchi, campagne aperte e spazi inesisitenti dentro e al di fuori di lui, dove invece vi erano strettoie, limitazioni urbane, gradini moderni e condòmini uterini). 
Se poi non avessi ancora il metro, pur nel desiderio di un luogo espressivo e molto aperto, e nemmeno l'occhio e neanche l'orecchio adeguato per discernere su quello che sia davvero presentabile, o quanto meno diginitoso, e per quello che invece sarà da scartare perché pesante, sterile, inutile, dannoso, disarmonico, vecchio, antico, o al contrario troppo moderno e ardito?
Dunque, mi dico: da solo chi sarò io per valutare l'effetto finale di un mio eventuale progetto creativo? E le garanzie sulla sua validità? Quanto sarò davvero affidabile nella sua gestione? Anche nella più accanita sperimentazione, si ha bisogno di un minimo di umiltà e coordinazione, di una certa voce, di un certo peso nell'appoggio di questa voce, di un confronto arioso e non ossessivamente giudicante, come la maggior parte di quelli che si incontrano. Chi potrà garantirmi, allora, che non stia cucinando con ingredienti guasti, inappropriati, scaduti? Avrò certo l'occhio per leggere la scadenza di un ingrediente, questo me lo concedo, ma quanta sensibilità avranno i miei sensi per valutare la resa di un certo insieme, l'effetto del concerto degli aromi a un assaggiatore esperto e neutrale che sieda per un caso alla mia tavola? Potrò bastarmi, da solo, come chef, nella mia casa vuota, con le parti più sfibrate e accanite di me, cucinando senza ospiti a cena e senza nemmeno la forza dell'appetito? Questo per dire che scrivere senza un minimo contesto, più o meno autorevole di scambio, di confronto, di attenzione critica, può essere un'attività inutile, o quanto meno legata a processi del caso, dove la macchina del dire e del fare scrittura per un mero riconoscimento, diventerà più importante di quello che si avrebbe da dire, che si sente, o che si dovrebbe avvertire, prima di comunicarlo e di far sì che venga riconosciuto o eletto tra milioni di altri tentativi. E questo spazio al quale vorrei ambire, potrò davvero meritarlo? Su quali basi e criteri?
Ancora qualcosa, non ho finito:
anche se pianifico dei progetti di lavoro, con una certa forma, una loro linea, anche se ancora imbastardita, accennata, chi mi dice che siano davvero farina del mio sacco? Che non siano un tentativo, anche inconscio, - questo è possibile -, di divertirmi a mimare, alla men peggio, tutto quello che mi piace e che mi è piaciuto leggere, che mi emoziona e che mi ha emozionato, che mi affeziona alla possibilità di riprodurlo in un altro certo contesto? Che non stia dissanguandomi in un tentativo maldestro di emulare qualche fantasma, qualche fantasma che nemmeno so o che rappresenterà forse un insieme di più spettri di un mio passato ancora impalpabile e vacillante, al fine di sentirmi appena un po' realizzato? Realizzarmi con le melodie o e le molecole di un altro, che immagino mie solo perché non ricordo più dove le abbia prese? Insomma: se sto appena più attento, e rileggo a distanza alcuni passi di scritti diversi che ho buttato giù, credendoli originali, vivi e frizzantini, solo perché risultati divertenti nello scriverli, vedo sempre cose diverse, ma molto spesso il caos di amori inespressi e mutanti per cose che ho letto e che vorrei ricreare, spesso solo per riattivare l'effetto e la dimensione dell'incanto subito, per materializzare una bambola posticcia e grassoccia che impara a camminare e a chiudere gli occhi quando si distende, come faranno diecimila altre, allo stesso modo. Un meccanismo di comunicazione a batterie scariche, e concludo con questo punto, dove conta l'effetto di un sistema, di una circostanza che ha funzionato narrativamente o poeticamente nei miei ricordi da lettore, e che non ha quasi nulla di autentico, se non il tentativo di rivitalizzarla e tradirla, con la mania di un cattivo copista. 
Qualche altro sprazzo sul finale.
Quanto so per poter dire più di chi tace e di chi non scrive? Esistono persone interessanti, ricche di storie e di idee, preparate, appassionate, creative, che non buttano giù una riga, che non scrivono un bel nulla, ma che comunicano, in un loro modo particolare, personale, anche oscuro, un loro mondo molto interessante e variegato, ma soprattutto non influenzato da nessuno e non interessato a colpire e a catturare nessuno, - quest'ultimo punto credo sia sacrale. Sarebbe così bello scrivere senza cercare un ruolo, un'identità, facendolo senza farlo, ma solo per la bellezza e la complessità misteriosa del processo. Se un bel mattino comincio una frase e penso a quanto abbiano da dire persone che una frase non si sognano nemmeno di cominciarla, allora mi fermo, guardo fuori e un po' mi arrendo. (Ho visto un gatto nero bellissimo, ieri mattina, nel parco pubblico dove vado a correre. Aveva un nero del manto luminoso e lucido, si muoveva nei raggi del sole come un imperatore orientale. Aveva una leggerezza, una possenza, una sua saggezza nella maestà naturale, rigogliosa, spettrale ma autentica, e pensavo a riuscire a scrivere almeno una parola con quella stessa maestà, con quella grande autonomia di pensiero e di potenza espressiva, con quella magnifica strafottenza incantevole. Contro quel silenzio regale e impalpabile, ogni parola era una scia sanguinolenta di catarro. Partire da quella figura, dal mio occhio bagnato in quella sagoma leggera e pregnante, niente di meno, niente di più: in quel caso sì che avrebbe un senso).
Ritornando agli umani, ecco perché, in questo rigagnolo disordinato di considerazioni e di tentazioni, credo sia giusto applicare alcune varianti al mio percorso, oltre allo stupido desiderio di batterlo cavalcando un cavallo della villa comunale. Non vivere l'esperienza dello scrivere come un esame, come un compitino da portare a casa, un disegno o un esercizio ginnico da migliorare, da spersonalizzare nella sua perfezione e da lanciare poi nelle grinfie di un mondo assonnato e distratto che dovrebbe riconoscerlo valido, e che ti risponde, su 600 pagine di scritto, con un cumulo di massimo due tweet. Ma come un processo intimo e silenzioso, l'affondo di un lungo pugnale azzurro nel mio orecchio, che mi porta a gridare e a sporcare di quel grido gli spazi bianchi rimasti, in attesa di qualche anima buona che mi tragga in salvo, forse di quel gatto nero ed elegante del parco che me lo sfili e che mi faccia le fusa durante la fleboclisi. Mi toccherà invece mettere in gioco quello che provo e che sento di esprimere, nei luoghi più semplici e familiari che mi appartengono, l'unica realtà tangibile e percorribile, anche se in apparenza piccola, di questo momento, ma viva: la mia piccola rete, proprio questo angolino invisibile, questa strettoia dalla quale ogni tanto sbocca un righino di fumo come da una casa.
Questo blog, per esempio, potrebbe rappresentare una cabina di comando dove denudare in parte i miei tentativi, per condividere i miei piccoli minuscoli percorsi, tutto quello che vi è di inedito ma di sperimentabile con una relazione viva, sincera, selvatica e generosa, ma non pretenziosa. Lo scrivere per ascoltare gli altri e non per chiedere di essere letto e ascoltato. Lo scrivere per la ricchezza di uno scambio, per un viaggio in seconda classe accanto al finestrino e non solo per un riscontro; chiedere quello che prima si è dato, o che si è tentato di dare, per leggere nello scrivere chi ti legge e renderlo scrittore con la tua lettura-(de)scrittrice. Non mostrare uno standard di razza, questo è terribilmente noioso, molto triste, ma lasciare nell'aria un senso di qualcosa che ho provato, un'idea, un tiro di sigaretta, una luce strana che ho visto soltanto io, e che avrei voluto la vedessero anche altri, non perché chissà cosa avesse di particolare o di importante, che altri luci non hanno, ma solo perché mi ha detto qualcosa che altre luci non mi hanno detto. E perché nel mondo della propria fantasia e molto spesso del proprio dolore che cerca di prendere voce in questo gioco di fantasia, non vigono sempre le solite matematiche, e non vi è nulla di più onesto e difficile, di comunicare semplicemente quello che si è ascoltato dall'affiorare di certe piccole luci o sensazioni, lampioncini e lanterne tra i rami, niente di più o di così più importante: la prima sensazione, il riflesso, che possano essere fanali di auto, bagliori di ultimi tram, finestre di una caserma o di un convento, quello che conta è la condivisione di qualcosa che ancora non si è afferrata e che il solo tentare di comunicarla e condividerla, invece di affermarla, potrebbe lasciare qualche varco in più, un motivo leggero di speranza, o anche di impotenza a rendere uguale con le proprie parole tutto quello che si è provato da muti. Scrivere di questa difficoltà, nel rendere tangibile il silenzio con cui si è ricevuto qualcosa da dover solo dare e non dire, è il più grande regalo che si possa ricevere scrivendo. E anche dare leggendo.
Credo di aver considerato e dissentito abbastanza. Troppo_.

martedì 9 ottobre 2012

Le due inglesi

Esistono momenti di questo film che vorrei trattenere dentro, con la loro intuizione stregante, la sospensione, l'ariosità delle immagini, ma anche con la loro cupezza mortuaria, la densità poetica, il mistero. Truffaut ha lavorato sul romanzo di Henry-Pierre Roché Le due inglesi e il continente, con la delicatezza di chi maneggia la neve, - questa è un'espressione simile a una parte precisa della sceneggiatura, quando il protagonista Claude, nel ricordare il primo abbraccio più intimo con una delle due sorelle, credo si trattasse di Muriel, si dice: era come tenere della neve tra le mani.


Al momento mi godo una scorsa al rapimento ancora in atto, che mi porta a scriverne e a ricordare la varietà degli effetti, le sfumature, attraverso le parole delle immagini non ancora andate e ancora così ben scandite. Quanta personalità di luce, quanto dolore da questa luce, che scorre come un fiume, in luoghi di giorno che pare non conoscano sere e di sere che pare non conoscano giorni.
Così le penombre dei personaggi femminili, le loro complessità, l'eleganza dei loro movimenti tragici, impercettibili, sulle biciclette o lungo la rampa di scale della casa. Nella prima parte il contrasto sottile tra gli interni e gli esterni, la stanza di Claude, il lume azzurrino da tavolo dove prende vita, di notte, la sua piccola cronaca (anche se il punto di vista narrante del romanzo, sarà trasferito da Truffaut tutto in terza persona); e poi fuori, la casa di pietra, il dipinto morbido dei paesaggi, la nuca di Muriel, il dolore agli occhi, il suo posto vuoto a tavola e la prima apparizione da bendata, poi con gli occhiali scuri; così gli abiti bianchi che chiudono il collo, le ombre rosate del fuoco e il fresco dei mattini passati in tre, con tutti i continui rituali della storia, che ne diventano elemento costante, cantus firmus. Molto riuscita tutta la dimensione fotografica del lavoro, con il rosso intenso dei parati, le grandi spianate luminose degli esterni, e quella bellissima scena del "bacio della suora", dove Claude e Anne dovranno baciarsi per una penitenza, attraverso lo spazio costretto di due sedie vicine.
Il cinema romanza e si fa così tratta epistolare e fluente, dalle pagine silenziose di più diari intimi aperti, che attraversano gli intrecci in questa dolorosa piena di sentimenti appena novecentesca, che stringe e costringe a pensarci e a ritornarci su. È anche per questi motivi che lo credo uno dei film più belli e più intensi di Truffaut.

lunedì 8 ottobre 2012

Edoardo Sanguineti per Mario Persico

sabato 6 ottobre 2012

Bulgakov e una schiarita post-pluviale





La letteratura è un'arte tentacolare. Avviluppa territori lontani, li forma, li raggiunge, li trasforma, spesso nello spazio di un solo paragrafo,  anche di pochi righi, con la potenza di un piovasco tropicale. Sarà questo il suo miracolo quando lo scrittore è fatto in un certo modo e quando il suo tocco luccica ed è intriso della stessa sospensione magica che infligge alle ombre e alle luci di una sua storia. Territori diversi, come in questo caso specifico, che spesso hanno preso spunto e ispirazione da quel certo linguaggio dal quale vengono riassorbiti e rimasticati come dalle fauci di un drago. Quanto cinema o quanta fotografia, per esempio, in questi splendidi passaggi, che lasciano nel naso l'odore del piovasco appena finito e ritraggono la dinamica della luce in dilatazione, il suo peso, le figure nel pieno corso di un mutamento, che potrebbe sembrare impercettibile, ma che diventa per pochi attimi il centro e il teatro di un vortice dinamico molto pieno e potente. Un movimento saggio e sensibile di macchina, che non lascia il tempo per pensare che sia fatto di parole.
Sono passaggi di grandissimo effetto e intensità, dal romanzo Il Maestro e Margherita, dello scrittore Michail Bulgakov, partendo dal gioco musicale delle immagini:




Passò del tempo, e il velo d'acqua davanti agli occhi del procuratore divenne meno fitto. Per quanto fosse stato furioso, l'uragano si stava indebolendo. I rami non scricchiolavano e non cadevano più. I tuoni e le saette si diradavano. Su Jerushalajim non galleggiava più un velo viola dal bordo bianco, ma una comune nuvola grigia di retroguardia,

ai suoni:

A questo punto, da lontano, irrompendo attraverso il picchettare della pioggia ormai leggera...

(osservate che magnifica gestione del tempo e del suono, della distanza, con un solo avverbio e un aggettivo; ormai leggera),

giunsero alle orecchie del procuratore lievi squilli di tromba e lo scalpitio di alcune centinaia di zoccoli.

e poco più avanti, in piena schiarita:

Nel frattempo il sole era tornato su Jerushalajim e, prima di andar ad affogare nel Mediterraneo, inviava i raggi di addio alla città odiata dal procuratore e indorava i gradini del balcone. La fontana si era completamente ripresa e cantava a piena voce...

ecco adesso l'elemento dinamico e motorio, che succede armonicamente alle fasi di luci e di suoni rinvigoriti dalla quiete

...i colombi erano ritornati sulla sabbia, tubavano, saltavano i rami rotti, beccavano qualcosa nella sabbia bagnata. La pozzanghera rossa era stata asciugata, i cocci portati via, sul tavolo fumava un piatto di carne.

 e il paragrafo chiude nelle penombre fumanti di un interno, con qualche eco e fossile montaliano. Semplice, intenso.



venerdì 5 ottobre 2012

La crucifixion en rose di Miller, edizioni Buchet /Chastel




Letto e riletto, in due diverse edizioni italiane, "l'opulente" e  vertiginosa (tripartita) Crucifixion en rose, di Henry Miller, non potevo lasciarmi sfuggire questa magnifica edizione francese del 1968 Buchet/ Chastel, con traduzione dall'americano di Georges Belmont. Il volume comprende la parte I, Sexus, creatura ciclopica, (666 pagine!), mutante, poliedrica, di cui è stato detto di tutto e di più, da tante angolazioni diverse: 
"Une ouvre qui déborde d'emblée la littérature", così Maurice Nadeau, mentre André Rousseaux, da le Figaro Littéraire: "Une des plus opulentes créations de la littérature contemporaine..." 
Scritta con la penna di un martello: una piacevole scorsa, molto suggestiva, nel labirinto milleriano, ma con un testo francese di fronte, il profumo cambia, è molto vicino a certe atmosfere del Tropico del Cancro, forse per un certo suono, certi odori e aromi intensi e lussuruosi del linguaggio, dei suoi tempi, delle grandi colate laviche di vita e di sogno, che caratterizzano la forza anarchica della sua scrittura, della sua morbida zampata spiazzante. 
Prendiamo l'incipit, per esempio, giusto un assaggio, per la sua fragranza e generosità:
"Ce doit être un jeudi soir que je la rencontrai pour la première fois – au dancing".
Che spettacolo questo dancing, un tocco notturno, lascivo, oggi appena decadente, (non sento quasi più parlare di dancing)  au dancing, (si avverte il fruscio delle vesti nel buio, la smagliatura di un collant), che nella versione italiana dovrebbe corrispondere alla sala da ballo, forse anche qui appena crepuscolare, non quanto i salottini domestici gialli e tristi  dello Spleen di Corazzini, ma quelle sono tristezze incantevoli e private; quelle di Miller cosparse dei languori dei locali pubblici fumanti di sesso,  ma che nel primo rigo della versione francese creano un'atmosfera ancora molto swingante, di albe e di occhi cisposi e di lune enormi e bagnate, abbandonate come cose morte o panni sporchi sui tetti. E poco più avanti:
"La journée passa comme un rêve", il flusso sonoro è tipicamente milleriano, di colpo di un'intimità più spirituale e sospesa, il gioco  mirabile dei contrasti molteplici, dell'armonia degli opposti in pieno attacco di incipit, per poi ritornarvi di nuovo:
Je me mets à vivre quand les autres tombent de fatigue comme des mouches...
Mi ha sopreso divertirmi a controllare il suono di alcuni pezzi sparsi del romanzo, ascoltarmi e sentire l'acqua o il fango della storia che scorre in modo diverso, con le sue mosche verdi che brillano come gioielli nella notte. Con la stravaganza e l'immaginazione, e – così, come diceva Robert Kemp: con quella sua verve hiperrabelaissienne, che trovo sempre più inconfondibile e naturale, appagante per la gioia di questo atipico processo di saggezza e scrittura: felicemente e tragicamente milleriana. Soltanto sua.

giovedì 4 ottobre 2012

Ho saputo




Ho saputo
di una nonnina
muta e bianca
addormentata
alla sua finestra.
Con la sua bocca storta,
e tutta quanta aperta,
dove di fronte a lei
si formava una luna.

Immensa e rara,
come una sfuriata
di cacio mammone,
una natica di bove,
una valanga, 
un' orchessa.

Gigantesca certosa
nella camicia 
profonda di olio rosso,
le s'impennava
ancor più vicina,
dentro la sua bocca
una pomata di maga,
dalla sua frolla argillosa
che nel fiordo insalivato
piano piano si spalancava.
Senza che nessuno
mai più la ritrovava.

mercoledì 3 ottobre 2012

Pascal: Pensieri (814-6)


814-6  Come ci si guasta l'intelligenza così ci si guasta il sentimento.
Ci si forma l'intelligenza e il sentimento mediante le conversazioni, ci si guasta l'intelletto e il sentimento mediante le conversazioni. In tal modo le buone o le cattive lo formano o lo guastano. Importa dunque su tutto di saperle scegliere per formarselo e non guastarlo. E non si può fare questa scelta se non lo si ha già formato e non guastato. E così ciò fa un cerchio da cui sono ben felici quelli che possono uscire.

Blaise Pascal  Pensees

martedì 2 ottobre 2012

Il mio disagio e la pazienza dell'arrostito


Provo un disagio sempre più crescente. Il disagio per un certo clima, che avverto in diversi contesti e situazioni che osservo e a cui mi accosto, ritraendomene subito, come un dito da una punta di fiamma. A volte mi sento invisibile, ho la sensazione di non esistere,  che il sentirmi così a disagio mi cancelli. Alcune volte mi immagino o mi sforzo di sentirmi perfettamente a mio agio in questa invisibilità,  in altre mi sento ancora più lontano da me, ancora più a disagio, ma in quel caso a disagio con me e non con i contesti e con le situazioni. 
Saranno sensazioni certo, ma il clima che avverto è molto lontano dal mistero fitto dello scrivere che mi porta a farlo senza alcuna considerazione sull'efficienza di questo mistero, nemmeno sulla sua deficienza, sui suoi numeri. Un mistero non sarà efficiente o deficiente, ma semplicemente misterioso. Il mio disagio più profondo è che, in diversi casi, l'obiettivo e di rendere meno misterioso e solo più efficiente un percorso espressivo, di qualsiasi tipo esso sia. Di rischiararlo, codificarlo, ma senza nemmeno penetrarlo, ma interrogandolo con le verità precostituite, con il vezzo di fare per il fare, per il gusto del ben fare o del buon dire: tutto il resto è da buttare. Un clima di svogliatezza, rampantismo, tendenza ai decaloghi, alle grandi verità, alla voce grossa. In questo clima preferisco essere un muto, ma ancora felice del mio star muto nella solitudine di un mutismo: solitaire, solidaire.
In un clima di forte disagio, come quello che da diverso tempo sta dilagando sempre di più dentro di me, forse perché sto diventando consapevole di una certa realtà, anche analizzando con attenzione diversi comportamenti, mi accorgo che la mia voce contraria e contrariata risulterà sempre più appannata, come i finestrini di un treno che parte a Natale, verso una destinazione oscura, con l'odore forte di zucchero tostato e di mandorle, ma anche di medicine e guaiacolo, con tutto il fumo e la nebbia intorno...
...ecco che cosa mi ha ispirato il bellissimo passaggio da La pazienza dell'arrostito, di Guido Ceronetti. Ha descritto mirabilmente il mio disagio, e l'oscurità delle certezze che mi circondano e che forse mi faranno decidere di continuare a scrivere davvero solo per me, non che già non lo faccia, ma alzando un muro sulla possibilità di una qualsiasi condivisione. Ci sto pensando sul serio. In ogni caso il blog continuerebbe lo stesso, è un elemento che mi ha molto arricchito e a cui sono molto legato, che non sarebbe intaccato da questa possibile chiusura, che potrebbe avvenire questo stesso pomeriggio, tra un paio di anni o anche mai, ma che il mio disagio crescente mi prospetta e mi nutre, come un seno di balia. 
Ma adesso veniamo al nebbioso di questo estratto incantevole, che ho ripreso per caso giusto stamattina, e che rivela diversi aspetti profondi e inquietanti di un tempo e di questo disagio interno e radicato che sale:

"Un velo triste ha coperto le cose e non è un'illusione dell'animo malinconico transitiva; c'è qualcosa che somiglia ad un calo d'irrorazione d'amore. Di tutto si parla in un altro modo e se non s'impara questo linguaggio la presa sul mondo diminuisce. Di che cosa ( una finestra, un arco, una figura dipinta, una donna, un'idea...) si parla ancora mossi da attaccamento commosso, da passione di profondità, come si volesse accarezzarla pronunciandone il nome, perseguendone nel linguaggio il segreto della manifestazione? Mi sposto da un luogo a un luogo e mi si confonde e svapora la Geografia Emotiva: tra il luogo e il suo nome altro, che non conosco, che è oscurità, si frappone. Le cose non vogliono essere più amate e si coprono con la toga come Cesare, soltanto per ricevere ventitré miliardi di pugnalate convenute in quel punto per assassinarle. Credo non ne possano più, le cose, di essere studiate per qualche fine di utilità, scrutate e analizzate incessantemente da intelligentissimi cretini. La poesia, che era oscura, si è fatta più oscura: ha il timore che si capisca troppo che attraverso di lei qualcuno abbia amato, luoghi e nomi viventi si siano arroventati di passione..."

Da La pazienza dell'arrostito di Guido Ceronetti. Edizioni Adelphi


lunedì 1 ottobre 2012

L'azzurro della notte: estratto mp3


L'azzurro della notte: estratto mp3

Questa versione audio, utilizzata come breve anteprima del romanzo, è quella che al momento avverto come definitiva. Comprende un passaggio dal Capitolo 15, che in questo lavoro non è il quindicesimo capitolo, ma è soltanto il secondo. I lettori che approfondiranno il testo in futuro, comprenderanno quello che ho scritto. Nello stesso file è incluso l'Andante del Concerto per pf. e orch n° 2 in Si bemolle Maggiore, op.83 di Johannes Brahms. Licenze: Liber Liber/ Creative Commons 2.5.

Premio letterario Edizioni Libere

Questo il link del bando, dal blog di Angelo Ricci.