martedì 31 gennaio 2012

Questo stesso laccio di pace: (bozza I)

Questo stesso laccio di pace
dell'intera campagna vorace
che tu più ancora patisci
ma che nessuno perdoni,
al vago lume di una terrazza:
di chi  sotterra, muto, suo figlio,
e di chi gli insegna, invece,
le prime rotte dell'Orsa stanotte,
al canto futo* dello stesso tiglio.

Da poco più lontano
s'illunavano biciclette
tra lunghi fari di fidanzati.

futo*: dal dialetto napoletano sta per: profondo

Gaeta

Secreta lanosa di chiari
pastello in una lunga vela
nelle mura di mari celesti.

Luna di solitudini ariose,  
al pane delle case rosate 
carezzava di innamorati. 

Variazione Bozza 1: L'alba violenta

L'alba violenta (Bozza con variante)

I
Un presto d'alba sa già del suo tardi,
pane di luna alle bocche dei morti
scoperte tra i minareti del sogno
al battito limpido del pianino;
il vento strinse di amore un paese
e il mare grosso delle sue scoscese,
quando le porte sono quasi rosa
e  riazzurrandosi lampi di prati
al sesso murato della tenebra,
le calze di una vedova filano
come il suo sangue più nero dal naso.

L'alba violenta (Bozza)

Il presto d'alba sa già del suo tardi,
navi di luna alle bocche dei morti
aperte tra i minareti del sogno
al battito lento del pianino,
quando le porte sono quasi rosa
e  riazzurrandosi i primi prati
al sesso murato della tenebra,
il vento strinse di amore un paese
al mare grosso delle sue scoscese.

Le calze della vedova filando
come il tuo sangue più nero dal naso.

lunedì 30 gennaio 2012

Sera d'inverno (Varianti)

Le luci sbiancavano
l'amore dei passi,
al bene oscuro di una
voce negli occhi
illimpidì tra le mura
come una nevicata;
la mano di questa sera,
zelante come di nonna,
che mi stana, leggera,
il sudore dell'ansia
dal collo di camicia.

Sera d'inverno (schizzo su scatto)

Sera d'inverno (schizzo di getto sullo scatto):

Le luci sbiancavano
l'odore dei passi,
il bene oscuro di una
voce negli occhi
illimpidì tra le mura
come una nevicata;
la mano di questa sera,
zelante come di nonna,
che mi stanca, leggera,
il sudore dell'ansia
dal collo di camicia.

Inverno notte (Bozza 2)

Gli occhi si allungavano alle giornate
dal tuo passo sbiancato di vela, 
nelle calze fioche slentavi 
la darsena a uno specchio magico
e nell' amplesso nato di un sogno.
La treccia di una strega ti scioglievi
alla mela di una luna sull'acqua,
dove affondavo la faccia di sete.

domenica 29 gennaio 2012

Il Sabato arancione del Vomero (Bozza prima)

Addormentando di pioggia calma
il bel fantasma dai colori a cera,
nelle lucine blu di una mia sera
e di un Sabato lontano, lontano:
gli ultimi tacchi colti dal Vomero
al sonno dei baci travolti sul muto
delle schiene di camicie agata
e di scivolosa pomata serena,
incagliati nel balzo aranciato
e più cool di una fumata punk.

sabato 28 gennaio 2012

Biglietto di ritorno di sola andata. Il luogo del mio scrivere

Chi di voi non ha mai ripercorso da solo uno stesso tratto di ritorno attraversato nella sua andata con una persona amata o molto cara? E chi di voi, una volta immerso nel luogo al suo ritroso, non ha provato una sensazione di perdita,  dove l'assenza di quella figura ha cominciato a bruciare e scoppiettare dentro, come un ciocco in un camino, anche se fino a qualche istante prima non sembrava nemmeno esistere e pulsare con quella certa dolorosa frequenza?
È proprio in questo luogo di percorso a ritroso che immagino il cuore e il senso del mio scrivere, da qualsiasi latitudine lo si guardi, lo si analizzi o lo si condanni; è un pezzo di strada ripercorso con la presenza di un assente o con un gruppo di assenti illustri e importanti, che cambiano i tratti della strada per il solo fatto di non esserci lungo la mia rotta verso casa. (Vedi "Il telegramma" "La compagna di classe", "L'azzurro della notte"). Qualsiasi cosa fatta senza l'altro, qualsiasi altro accompagnato in un luogo da cui distanziarmi, avrà un suono e un passo intenso e diverso. Quando scrivo parto dal suono di quel passo, con la differenza che a volte il compagno amato e assente è proprio una parte viva quanto vaga di me.
Il luogo dello scrivere potrà quindi rimanere indefinito, consacrato alle più grandi critiche, sconfitte, indifferenze, ma manterrà l'essenza di un tratto a matita e a piedi di un ritorno, che potrà significare, forse, una nuova andata.
Ogni scritto che si muove è parte di un passo caldo nella notte. Scrivo "nella notte" perché non conosco molto e non capisco molto di questa flânerie solitaria con la mia vita che ritorna a casa. Non posso capire ma posso spiegare il sentito del non capito ma del saputo. Posso scrivere di un'assenza non compresa o capita, ma saputa. Sono piani diversi di azione e di relazione. Scriverò anche di cose che conosco ma che non dico, quanto di un mistero che svelo attraverso il suo frammento lampo di negativo, lasciando appena un indizio.
Quello che poi potrà avvenire o non avvenire ai miei scritti, e qualsiasi sarà il loro luogo, non potrà mai intaccare questo strano sapore di recupero  nel ritorno a piedi, dove scelgo di mantenere il filo di fiammifero nella sera, con la speranza che almeno una persona al mondo, ripercorrendo un tratto di strada senza le mie parole o con il suono della loro assenza un mio scritto, si riappropri, anche per un solo istante, dello stesso riflesso che ho svelato.

Lungo il filo rosa di un campo (Bozza 2)

Lungo il filo rosa di un campo

Biciclette di signorine lontane
baciano la bocca di campanelli,
snuvolando  voci  stanche le colline
come un filo di luna nei capelli.

La serata nevicava sulle lampade
al profumo di latte delle camicie.

Lungo il filo rosa di un campo (Bozza in prova)


Lungo il filo rosa di un campo

Biciclette di signorine lontane
baciano la bocca dai campanelli,
nuvole di voci rosando le colline
come un filo di luna nei capelli.

La sera nevicata sulle lampade
al profumo di latte delle camicie.

venerdì 27 gennaio 2012

Istantanea marittima: inverno notte (bozza I in prova)

Gli occhi si allungavano alle giornate
dal tuo passo sbiancato di vela, 
nelle calze fioche slentavi 
la darsena a uno specchio magico
e nell' amplesso muto del sogno.
La treccia di una strega ti scioglieva
nella matita di mela sull'acqua,
dove affondavo la faccia di sete.

Attenzione evocata e forzata di uno scrittore:

Io credo che uno scrittore non debba mai forzare l'attenzione, ma deve evocarla, come camicia aperta su seno nudo e non come seno da una camicia. Il seno non esiste e non esiste nemmeno il tessuto della camicia. Quello che rimane e che si fa parte del fattore evocativo, è la possibilità del nudo e l'apertura della camicia. Un'apertura e un nudo non sono oggetti che si possono fermare né forzare. L'apertura è una fase di impermanenza di una certa condizione in essere o in moto; il nudo una possibilità remota che potrebbe svanire al suo stesso apparire, come naso di spettro in filigrana o essere anche velata da zone diverse di luce.
 La sua descrizione deve cominciare nello spazio del celato dall'apertura e del privato e negato dal nudo del seno. Credo che qualsiasi impresa, abbia molto a che fare con queste due impalpabili coordinate. Chi scrive staccando i bottoni o stracciando la camicia, perché le regole dicono che il seno è ostacolato dalla camicia e il lettore non lo riesce a vedere, sarà scrittore di scuderia e di successo, veloce e concreto, ma forzerà la sua attenzione e non la evocherà.
l.s.

giovedì 26 gennaio 2012

Aspetti cupi di Crepuscolarismo (?): Cechov e Baudelaire.

Due possibili accostamenti, o forse anche possibili illazioni, ma in ogni caso sento di condividere la sensazione, anche ricongiungendo due territori letterari piuttosto lontani, ma che in questo specifico contesto trovavo accostati da un certo nesso.
Mi limito a fissare i punti segnalando prima le fonti  degli estratti: da Charles Baudelaire, due quartine da "Le poison", tradotte in prosa poetica da Attilio Bertolucci, e da Anton Čechov un estratto dal racconto "Un caso futile" appartenente a quella serie di narrazioni a cavallo del 1885 e del 1886 inserite nel gruppo "Il giudice istruttore".
 Adesso da Baudelaire, "Le poison": 
"o, in una casa deserta, qualche armadio pieno dell' acre odore del tempo, nero e polveroso, a volte si trova una vecchia, memore fiala, da cui esce tutta viva un'anima che ritorna [...]  vecchia fiala desolata, polverosa, sudicia, abietta, vischiosa e incrinata, nell'angolo d'un sinistro armadio [...]

Credo che queste immagini lasciano nelle narici la polvere del tempo e di certi ambienti chiusi, assai simili, anche se traslati in un contesto del tutto diverso, rispetto agli interni spettrali e malinconici della bruttina Kandurin, davvero indimenticabili, per la ricchezza di sfumature e di descrizioni vive e pregnanti  del racconto di Čechov:
"...di sopra, poi, nell'anticamera, mi avvolse un'atmosfera propria solo degli archivi, degli appartamenti signorili e delle vecchie case di mercanti: par che ci sia un odore di qualcosa che è passato da un pezzo, che un tempo visse e morì, lasciando nelle stanze la propria anima".
Giunto a questo punto del paragrafo, giusto questo pomeriggio, mi sono fermato, e ho cominciato a rievocare i possibili accostamenti, rispetto a quello che avevo già scorso e trascorso.
E ancora, prima di concludere:
" Una principessa Tarakanov pareva essersi addormentata nell'aurea cornice, mentre l'acqua e i topi erano rimasti immobili per volere di magia. La luce diurna, temendo di turbare la generale quiete, filtrava appena attraverso le cortine abbassate e si posava in pallide, sonnolente strisce sui morbidi tappeti".
Esiste in queste parole una piovra vorace di ombre e di sensazioni vive, che riescono a fissare senza peso gli esatti punti chiave di quel teatro: "Mi faceva piacere andarmene da quel piccolo regno della noia e della tristezza dorata...".
Non sarà un caso che vadano a incontrarsi il primo, Baudelaire, che Roberto Calasso, a ragione, reputa il poeta con cui sarebbe cominciato il cinema (le candele dietro la finestra, saranno il vero inizio dell'idea di cinema) e l'odore caldo di tensione e di teatro del secondo?
Tutto qui.

Linea 1, metro collinare

Linea 1, metro collinare.

Che se non fosse per quel tuo sonno
forse davvero non ti avrei notato,
figurati: 
una in verde e in viola con la tuta,
e poi  vecchia e bruttina da far danno;

ma dormivi e ridormivi quasi in piedi,

tu dormivi e mi passavi una tristezza...
nel vagone della mia linea uno,
lontan così non vi andò mai nessuno
se non la tua levità di stanchezza,

che addormentata rivelavi  piano
da quel frastuono lupo della galleria,
svanendo in una casa o in  una mano
come una bambina in un tuono.

A zio Nisa (Nicola Salerno)

A zio Nisa (Nicola Salerno)

Le tue
canzoni
d'amore
come
i lumini
dai vetri,
baci di
candele
accese
da una
carezza
nel mio
sangue,
quando
piove...

Da una finestra (schizzo o scherzo notte)

Da una
finestra
ancora
accesa
si
possono
vedere
le parole
di chi
muore
o vuole
solo bene;
come luci
dal mare,
out 
of 
the blue* 
di galene.

out of the blue

mercoledì 25 gennaio 2012

Libero acrostico doppio "andata e ritorno" su mio nome e cognome

Lupesco leso
Urlavo ululati
Ingollanti Idra
Granturco già
Ispido in isole.

Sollievo solare
Adesso arrivato
Lasciando ludi
Elastiche estati
Rovine romane
Nei notturni 
Orticelli ocra.

Ostinato opaco
Nella nebbiosa
Rapina rugiadosa
Eleganza ermetica
Lagunare, lontana
Agguantò aderente
Sfaccimma stellata

Infiammate infarcite
Giostrine giallognole
Illuminate iridescenti
Urlacchiavo ultimate
LunarPark luminarie.

La corsa (bozza I):

Il collo in ebano di un cavallo abbronzato d'ombra;
la spuma della bava che arriccia,
ritorna indietro
in una rumba di vento.
A quest'ora la carovana del trotto
sbanderà come un mare nella notte,
bomba del passo che firma di muso
l'ultima curva bagnata dal vino.

(Da una finestra molto moderna
si sciolsero delle lunghe candele.)

martedì 24 gennaio 2012

Il rapporto col testo rifiutato...

...rimarrà ancora lo stesso agli occhi di chi l'ha scritto? Possibile che dipenda dal rifiuto la sua fisionomia d'insieme, che chi la scrive ancora non la conosce prima di un certo responso, o quanto meno non ne intuisce i limiti o le potenzialità eventuali e contestuali al luogo destinato? Il tipo di prospettiva che prenderà uno scritto rifiutato, dipenderebbe forse anche dall'altezza o dalla tenerezza del rifiuto. Dal tipo di spiegazione associata al testo rifiutato – di solito una ciocca di parole, nemmeno di righi. Da quanto si conosca del testo e di quanto si conosca del soggetto rifiutante. Rifiutanti e rifiuti diventano parti mutevoli e assemblate in un unico strano vortice, dove ricompare lo spettro di quello che si pensa di valere, a volte di non valere. 
Si incrineranno certi equilibri, anche se non si avrà mai la certezza che quel testo, quello stesso testo di prima del gelido giudizio, sia stato davvero pesato, palpato, letto, capito, approfondito, amato, odiato,  prima di essere poi rifiutato. O rifiutato in partenza. Al primo sensore di diversità dai canoni del giusto — è ancora possibile. Molte volte è anche importante mettersi dalla parte di chi rifiuta e di chi contribuisce a far percepire come rifiuto un testo che a distanza di istanti dal responso, brillava sotto un'altra luce agli occhi del suo scrivente. 
Ogni scritto un suo destino. Uno stesso scritto è già un rifiuto, al di là del possibile giudizio. Un testo, uno stesso testo, che funzioni e che viene rifiutato con una certa ostinazione, dovrebbe essere pieno di numeri o di uova piene e pulsanti. Ottimo segno. Un testo rifiutato in pieno ha molte più speranze di un testo appena tollerato, accettato e assemblato nel catasto per pura noia, o perché non c'erano elementi sufficienti a definirlo rifiuto, quanti invece a definirlo quanto meno riciclabile.
Le mie parole  quelle che lascio a volte in giro, e che qualche volta vengono rifiutate – per fortuna non sempre – non sono molto più importanti della mia merda. Non credo che abbiano questo valore sacrale, fino a quando non vengono assemblate in un certo contesto dove possono sciogliersi in qualcosa di altro, che prescinda da un rapporto di richiesta di un giudizio e passi a quello di condivisione . Quando le parole non sono comprese e quindi non sono individuate in un possibile seme di organismo comunicativo anche se viziato da mille difetti, rimangono ferme nella loro potenziale nudità dalla mia vita. La mia vita, le mie sensazioni, le mie pulsioni e i miei sogni, continueranno a traboccare al di là di quanta merda concimerà i campi, come guano, o verrà bollata come rifiuto. Il mio forno continuerà a divorare legna, e a schioccare profumi, senza direzioni, pulsioni, moventi, giudizi. I miei testi saranno tutti inutili e uguali, fino a quando non incroceranno una minima attenzione viva e ricettiva, ma sgombra, soprattutto, dall'idea fissa di quello che dovrebbero essere o che sarebbe giusto che fossero, altrimenti essi non conteranno più della suola della mia scarpa. Un testo che brilli dell'attenzione solo tecnica di un altro, non prenderà più valore di un altro rifiutato. Il giudizio di valore su di un testo non è un affare che si può sbrigare con tanta semplicità, così anche i killer dei miei possibili testi rifiutati, dovranno comunque trovarsi un movente valido e lasciare intorno al delitto il fascino di un intrigo.
Altra osservazione, che era poi quella da cui ero partito: che cosa succederà al mio testo rifiutato? Sarà corretto secondo indicazioni precise: forse, in alcuni casi.
Lasciato intonso: forse, in alcuni casi.
Distrutto: questo in nessun caso.
Accantonato per alcuni periodi di tempo: forse in alcuni casi.
Insomma, è tutto da verificare. Quello che conta e lasciare inalterato un nocciolo interno, una propria linea, indipendentemente da quello che accadrà o che non accadrà. Alcuni rifiuti, e questo lo confermo, saranno molto più fertili e nutrienti di alcuni consensi svogliati, sbadiglianti, lasciati nell'aria come fazzoletti perduti in un vecchio teatro, senza neanche del profumo rappreso. Esistono invece fazzoletti di rifiuti molto profumati e quindi molto più vivi e più utili per il testo e forse, ma non sempre, per uno scrittore. Uno scrittore non sarà mai il suo testo, quello che appare e che compare. Nemmeno si misurerà dal numero dei rifiuti. Uno scrittore è uno che entra nello stomaco e nel cuore del lettore, come un topo in una casa, o un ladro in piena notte. È quello l'effetto di rapimento che mi interessa e mi riguarda, il mio movente. Devo costringere chi mi legge a lasciare fornelli accesi e finestre aperte. Non cerco consensi o rifiuti, ma cerco un contatto di profondità dove divento e ritorno lettore dell'incanto di chi mi leggerà e mi eleggerà, in uno spazio superiore e sospeso, che trascenda rifiuti e conferme relative di valore. Un ladro in casa o un topo che ti scivola sotto un tappeto, non avranno un voto ma ti faranno balzare solo il cuore in gola. Se questo non avviene, almeno in una parte di pagina e ogni tanto, è meglio lasciar perdere, secondo me. 
Credo che valga sempre la pena di confrontarsi. L'importante è di farlo in quei contesti dove si accompagni, all'impegno del lavoro svolto, quanto meno un giudizio chiaro e ben articolato, almeno un paio di paragrafi in cui ti si dice di cambiare mestiere, – anche se per me questa è una gran brutta maledizione e non un mestiere: nel caso trovassero il modo per liberarmene, potrei anche ringraziarli, è possibile; o comunque di aggiustare il tiro in qualche modo. Nei casi in cui si imposti una certa comunicativa, i rifiuti potranno fare così da concime.
È questo sarà sempre un bene riciclabile. Le dinamiche di reazione e di gestione con i rifiuti dei propri testi, saranno allora parte viva del processo di scrittura, quanto il getto di una bozza, o di una sua revisione.

Notte fonda

Notte fonda:

Non si
disvela
un'anima.
Forse...
la vita
di quest'ora,
nel silenzio,
è soltanto
più tonda;
in attesa
che qualcuno
la scompigli
con
un
colpo
di fionda.

lunedì 23 gennaio 2012

Aspetti chiaroscuri del fattore creativo. Il suono del non scritto.

Un fattore che mi attrae e che mi sensibilizza alla conoscenza della mia persona scrivente, è quello della sensazione fisica da cui scaturirebbe, credo, il pensiero a cui sarebbe poi radicata la cima della parola. Non credo che sia sempre così, anche se sono convinto che la sensazione fisica sul pensiero abbia un ruolo molto importante, così come il pensiero avrà un ruolo determinante sulla sensazione e la parola diventerà escremento, perla,  detrito tossico.  Insomma, con la finestra aperta e con un odore di pioggia, non credo che attiverei processi  simili a quelli che potrebbero snidarsi da un odore di foglie bruciate o di bosco. O dal solo passaggio di qualcuno, dal cortile. Un tono di voce, lo scatto di un accendino, potrebbero sollecitare e invertire per frazioni impercettibili la condotta di un certo pensiero in delicata formazione, deformarlo, dirottarlo o ammantarlo di altro, nel suo stesso embrione: forse della freschezza e fragranza di quella sensazione esperienziale imprevista, così come quella che emerge di continuo dal mio lato nasconto e in carburazione, che mi assiste e che mi dissesta durante il viaggio.
La parola si forma come culmine di un processo alquanto oscuro, che può essere pianificato solo in parte come sequenza logica e coerente. Non amo nemmeno pianificare a ritroso mappe e particelle catastali delle mie buone o condotte narrative, preferisco altro. Ci sono persone che cercano di svelare ogni passaggio, quando molte parti rimarranno lo stesso nel mistero. Mi conosco di più, ed è questo il punto, quando scrivo, perché mi accorgo di quanto sia poco prevedibile, fino a pochi istanti prima della battitura, la formazione e la natura precisa del mio cristallo. Credo che una parola abbia la natura del cristallo, la fragilità ma anche la rifrazione e la condotta di luce. Mi conosco attraverso tutte le fasi, ma quasi nessuna è come avrei voluto o pensato di volere; sono tutte altro da quello che davvero avrei voluto, e anche se fossero stato quell'altro, si sarebbero insinuate ancora altre volontà spettrali di inespresso: sono quelle, secondo me, la vera voce di chi scrive, la parte amica e più profonda: l'inespressa, quella che non è uscita ma che ha lasciato una sua ombra. Per quell'ombra varrà la pena di continuare. 
Ogni testo, qualsiasi sarà il suo destino e qualsiasi giudizio riceverà o non riceverà mai da qualcuno, mi avrà lasciato qualcosa, per questa sfida con la parte non esprimibile, mi riempio e mi formo. Nell'impossibilità di dire quello che vorrei, comincio a dire: nel non scritto si comincia a vibrare di un suono diverso e frustrante, quanto più puro e autentico. In questo processo di elaborazione di parole da sensazioni e da pensieri, avrò conquistato anche una sola parte di me, che in altro modo sarebbe rimasta persa e inesplorata. Anche l'ultimo appunto dimenticato, può riservare grandi sorprese e ottime opportunità di introspezione, a patto che non siano infiltrate dal fantasma della competizione. Dal movente o dallo scopo, dalla strategia di arrivare allo scopo con dei compromessi per farsi accogliere o tollerare rispetto a un altro.
Mi piace immaginare ogni parola come un atto di puro assurdo, squarcio ginnico di femorali, capriola e verticale,  che al momento deve mantenere questo suo luogo naturale e sospeso, senza essere forzata ancora in una logica di concatenazione consapevole che non ha. Non sarà mai subito fruibile una parte fresca e materiale di linguaggio. Al massimo la posso toccare con la punta della lingua, ma non è ancora cibo. È molto importante elaborare la materia creaturale e letteraria verso il cibo, soltanto quando avrà espresso le sue possibilità primigenie, quelle dove la redine sarà allentata. Ci sarà sempre tutto il tempo di gestire le redini con maggiore tensione. Ogni fase di lavoro sul mio testo userò un tipo di tocco sensibile e di mano, di strappo, di tiro. Ma in ogni lavoro il metodo non sarà mai lo stesso. Spesso il metodo non è mai sempre lo stesso da un capitolo a un altro; a volte da una pagina; in alcuni casi da una parola all'altra. Devo modulare un sistema che sia flessibile con il mio universo di percezione, quindi di rielaborazione, attraverso fasi dure e diverse di tempo, in cui continuo ad allontanarmi da quello che  ero fino a poco prima e che sono stato nel momento del getto. Tutto il complesso ingranaggio e disegno, andrebbe così a scomporsi in nuovi universi, tutti legati alla sensazione o contesto casuale del momento percepito e trasferito. Per questo rimane sempre qualcosa di tralasciato, che però a volte è presente, ancora di più di quello che invece ho lasciato come elemento espresso e relativamente definito. 
Mio zio scriveva canzoni, e usava i numeri. Attraverso i numeri prendeva la taglia di collo alle sue parole, le incamiciava in un tempo logico che baciasse la frase melodica della musica e la penetrasse di una sua naturale unità, come in un abbraccio perfetto che confonde due figure intrecciate di fidanzati in controluce. Nella scrittura esiste una numerica inconscia, altrettanto funzionale e continuista, che si frappone tra quello che è pensato e che è calcolato, al lato violento e represso, che si esprimerà solo a frammenti lavici, disordinati, senza senso, ma preziosi.
La conoscenza di me attraverso questi processi, mi insegna come regola prima ad adattarmi e ad accettare l'imprevedibilità e la mia mutevolezza in qualsiasi processo di costruzione, che sia un incipit, un verso, un intero romanzo, una short story. Non esiste un solo punto da cui parte una sola retta. Esisteranno tanti punti diversi che dovranno tracciare il proprio unico filo, da distanze e da prospettive diverse. In questo sono maestri eccelsi i ragni; i ragni saranno allora ragni-maestri.

Frammenti di corteccia: scrivere e amare.

Credo di avere una grande fame di incertezze. Non credo nemmeno dove cominci una sensazione di incerto, ma nel prospetto o nel tentativo di un certo percorso, è un prezioso stimolo di libertà dall'asfissia dei numeri che si trovano e si ritrovano a tutti i costi. Una fame atavica di incerto e di malfermo. Scrivere sulla sola zampa di una gru.
Vivere l'avventura di un'espressione o di un'ossessione all'esprimersi, sarà intrisa di incerto e di fallimento. Credo che sia l'impasto principale quello del fallire, dello sdrucciolare sul foglio bagnato e del perdere presa e peso nella bella impresa. Anche un perfetto agglomerato di idee e di situazioni, avrà dentro di sé l'incertezza e quindi la possibilità di fallire o comunque di scricchiolare. Non credo che il fallimento e l'incerto siano i veri pericoli. Una forma può esprimersi e ravvivarsi pur nel suo conclamato fallimento. Il tutto è analizzare dove comincia il canone che decide il confine e che assegna i posti numerati al sentiero certo e dritto, contro quello storto, incerto, anarchico e nebbioso. 
Ho fame del secondo. 
Le nuvole nella mia vita hanno impedito al sole di sbucciarmi vivo, e hanno permesso alla pioggia di farmi guardare e patire le case di fronte con una luce poetica e nella malattia di una malinconia insanabile quanto ermetica. Una luce poetica e anche moderna di visione, è la certezza di un assoluto fallimento sulla realtà indagata. Chi esprime dettagli che hanno del poetico, urta contro gli indagatori del reale, che cercano di restituire al reale l'unico occhio possibile di visione e di tradizione del visto o del poetico conclamato come stadio certo, ingresso autorizzato entro la linea gialla. La mia fame di incerto, è data dal fatto che non posso più parlare o esprimere di cose che ho solo visto e che possono quindi essere ridotte a un solo tipo di indagine e di approccio, e quindi ritenute fallite perché false, anche se felici. Credo invece che il compito più interessante è dedicarsi con la massima premura all'incertezza del non visto. Del non reale e quindi non indagabile, di incerto, di prossimo al fallimento percettivo, ma forse proprio per questo meno tangibile e decodificabile come assemblaggio di pezzi meccanici defecabili.  Defecare del metallo, dopo averlo ingurgitato, è una tortura medioevale.
Scrivere, invece, di quello che vedrebbe un animale al mio posto: il punto di vista degli occhi di una cagna che allatta, di un gufo che spaventa una cavalla, di un topo che scala per amore di una cincia un cipresso che si riflette nell'acqua, di uno sbocco di fogna o di un lago montano. Ho bisogno di campi spalancati alle lune e alle eruttazioni dei pianeti più arcigni, che mi svelano la mia possibilità di snudare l'incanto di una costellazione aperta, come di una collana di perle nei denti di una sgualdrina di lusso.
Ho fame di sfumature e non di dittature del già visto. Che senso ha il ripetere lo stesso accordo, già ingurgitato e moltiplicato, accoppiato, ibridato, ingabbiato nella sua gabbiuccia dorata, da ripulire per bene, sera dopo sera, fino all'ultimo angolo di griglia, con un apposito spazzolino? Confrontarlo con altri accorducci, paroline in fila per due, come una bambina al suo primo saggio di pianoforte, con la coda di cavallo e il frontino ben centrato.
La certezza di aver trovato la propria strada linguistica ha la stessa possibilità, per la mia vita, di coltivare querce selvatiche e pioppi bianchi sul balcone di casa. La possibilità di navigare attraverso il non scritto  o attraverso lo scritto di qualcosa di non certo, di non indagato, ma di assolutamente sentito e provato, può darmi il barlume di un atto di amore assoluto verso l'altro che incontro, altrimenti è un suicidio e non ha senso. L'unico impulso logico che ammetto come possibile e indagabile alla mia vita e ai tentativi maldestri del mio linguaggio, è quello di uno spasmo disinteressato e disarticolato di amore puro; nella dedizione di una parola verso una concezione indagatoria di vero che non può essere disciplinata da un sistema se prima non si è assaggiata come sensazione viva e non ragionata. 
Vorrei scrivere per le punte delle lingue degli altri e non solo per i pensieri. Competere con la fragola, con le mele e con le medicine, con il riso bollito e le minestre.
La mia fame è data in primo luogo dalla necessità di perdermi attraverso le mie parole e non di ritrovarmi. Le mie parole sono il grande ostacolo, sono e saranno le mie nemiche, che si scopriranno le ginocchia nel pieno di una curva e che mi benderanno gli occhi con i guanti scagliandomi nell'abisso del dirupo. Non posso dedicarmi alle mie parole e nemmeno posso viziarle. Le mie parole sono un luogo dove custodire i gesti impossibili di reazione al mio amore per la vita, e a quanto c'è ancora da dire e da gridare. Se diventano cripte abbasseranno la luce in tutte le stanze e non consentiranno la scioltezza della ruota sulla riva. Un salto sulla corda, una parola dopo l'altra, adesso è notte fonda.
Sento solo le mie dita sulla tastiera, come frammenti di corteccia schioccati dal fuoco di un bosco arrossato, dove ho perso la strada.
Divento senza motivo più solo e più felice.

domenica 22 gennaio 2012

L' azzurro della malinconia

Esistono due brani, utilizzati in sequenze diverse e per diversi estratti dell'anteprima del romanzo, che hanno costituito una pura ossessione, dal momento in cui li ho presi in considerazione per assemblarli al file.
Il primo è un Preludio di Chopin, con precisione il Largo dal Preludio op. 28 n.4 in Mi minore per pianoforte, che risulta, nella sua spiralica brevità, una breve epistola confidente e lacerante. Il secondo riguarda l'Andante del secondo concerto di Johannes Brahms per pianoforte e orchestra, Andante che si apre con un solo di violoncello che ritengo tra i soli più intimi e toccanti della Storia della musica; e anche in questo caso una seconda ossessione, su corde o su gradi diversi. Poi la storia, la possibilità di racchiudere qualche passo di un capitolo dentro un mp3, ossessione nell'ossessione, nasce quest'anteprima audio che credo definitiva, o quanto meno la più idonea a rappresentare "L'azzurro della notte" così come potrebbe profilarsi nelle illogiche atmosfere del suo insieme. Ho il contratto già stampato da firmare e da spedire. Lo farei, credo, la settimana prossima.
E adesso l'ascolto. Una breve anticipazione sonora. 
Il link: mp3
Il link dal mio sito web


sabato 21 gennaio 2012

La villa delle suore

Di fronte al mio balcone, di sera, si accendevano i finestroni della villa delle suore. Avevo l'abitudine di rimanere molto tempo accanto ai vetri, e scorgere le ombre degli abitanti, quando i vetri si appannavano dai fumi del brodo, o  dai vapori del tempo cattivo. Ricordo ancora le sensazioni delle mie piccole ginocchia magrine vicino al vetro freddo; la luce spenta della stanza, immaginando dietro quelle ombre spettrali che cosa si velava. L'odore dei cibi, i pensieri, il senso di Dio, i colori delle belle giornate passate, l'albero bagnato, l'occhio aperto del passero, che in pochi secondi raggiungeva dal ramo prossimo alla villa la mia ringhiera, che di pomeriggio, ancora col sole, era la sua villeggiatura.
Ho assaporato quelle istantanee dal buio, con un misto di incanto e di spavento, fin dai primi anni di vita, in quella casa che è ancora la mia; i movimenti delle suorine senza viso, dai mantelli ombrati che facevano riflesso dalle vetrate, nell'ora di cena, hanno cullato la mia malinconia di bambino, la mia paura del buio o della morte, e forse la mia prima immaginazione, arrivando a raggiungermi, dopo tempo, dentro le parole che scrivo o che sogno, come raffiche di aromi e barlumi, odore di uva nera dalla curva di un bosco fitto. 
Siamo fatti di quello che abbiamo creduto perduto, dei nostri nudi d'infanzia celati e violenti nell'apparizione e sparizione. Continuo a pensare che molti scenari e molte immagini, abbiano cominciato a formarsi dentro di me dalla prospettiva di quella villa, con le sue luci e le sue figure nascoste. Non ho mai visto un viso, ero troppo lontano, e poi c'era la diagonale dell'albero che creava una piccola barra divisoria, anche in autunno e in inverno, tutto veniva filtrato da quel confine, tra il sicuro e l'insicuro, la luce e la penombra. 
Le suore sono andate via da un pezzo da quella villa, che adesso è diventata altro, con altre destinazioni, altre rifrazioni mutate e dissolte nel tempo. Hanno ristrutturato le facciate, altri colori, altre ombre. Non vi sono più confini da trapelare. Ma è rimasto ancora l'albero con le rotte di uccelli villeggianti, e qualche volta, di sera, mi piace immaginare che con le prime luci, si riaccenda quello spavento di visione, con cui prendevo sonno a fatica ed esercitavo la ginnastica dell'impossibile nella ricerca di un segnale di fumo, un sorriso che si arrampicasse sul mio viso e lo sfiorasse con un bacio. Un primo bacio dell'ignoto alla mia vita...

venerdì 20 gennaio 2012

Pensiero e scrittura.

 Mi ritrovo a riflettere spesso sul tipo di attività di pensiero che interessa il processo della scrittura, o per essere più precisi della mia scrittura. Sono convinto che ritorni una questione di intimità, relativa a sfumature, a piccoli dettagli che non consentono una generalizzazione spicciola, per nostra fortuna.
Il pensiero di quando scrivo sarà lo stesso di quando imbuco una lettera e distinguo il giusto scivolo di destinazione? Di quando controllo il resto in cartoleria, di quando cammino o di quando guardo un palazzo rosso? Avrà lo stesso flutter vitale, o la stessa impugnatura di controllo sulla realtà che vivo e che addento? 
L'attività creativa, spesso, mi pensa, e mi fa oggetto di un pensiero esterno o nascosto alla coscienza e consapevolezza di quel momento. Me ne accorgo sempre dopo diverso tempo, ritornando su di una storia, un testo, una bozza, e scorgendo linee d'ombra che non avevo scorto prima, alla distanza breve dal primo getto; ma non legate solo alla forma, o al particolare suono di quel linguaggio, ma alle trame oscure del tema madre o radice ispirata (cospirata) che mi avrebbe spinto a cominciare e a continuare in un certo modo, in un compromesso tra pulsione e freno, ma comunque sottomettendo tutte le mie scelte successive al dominio di un fantasma, che dirigerà l'orchestrazione della storia, senza bacchetta ma con un condizionamento costante e spesso invasivo, quanto però vitale e nutriente all'equilibrio funzionale dell'intero impianto.
Il pensiero rimarrebbe quindi un misto aromatico di coscienza e di controllo, dissolto e risolto nella sfera preconcettuale e più oscura, che è quella dove molte volte si impone il tempo, si assestano o si accelerano certi passi, si accentuano alcune tensioni, si scandiscono incipit, si infiammano climax, finali, si delineano le sorti dei personaggi, la loro maschera, i loro impulsi primigeni. Per questa stessa signoria, oscura ma ancora vitale, che darebbe senso, anche nelle sue dissonanze, alla lampada magica dell'intero processo.

mercoledì 18 gennaio 2012

L'azzurro della notte: Preludio op. 28 e anteprima

Per una serie di motivi, il romanzo "L'azzurro della notte", ha delle affinità particolari con la luce ma anche con alcuni suoni evocati dalla luce. Il Preludio op. 28 di F. Chopin, utilizzato nel suo tempo Largo lacerante (come spesso mi sono divertito a colorire senza pietà l'andamento in oggetto — prezioso e raffinatissimo, quanto decadente, secondo me), in questa prima versione audio di un breve estratto, è la dimensione musicale più vicina a questo testo, ai suoi contrasti alle sue modalità minori e spesso venefiche del colore Notturno, che può essere sintesi di quello che si potrebbe incontrare o non incontrare inoltrandosi o perdendosi in questo lavoro.
Ho lavorato su questo file per un primo approccio con il discorso dell'audio e quindi sperimentando anche la possibilità di utilizzare canali alternativi come questo per i miei scritti prima della distribuzione ufficiale. Al momento sono collaudi che potranno proseguire o rimanere così come sono, in relazione alle circostanze delle mie strade e al loro inscrutabile destino.
Buon ascolto:  (Licenze: Liber Liber/  Creative Commons 2.5 )

Ti piace il Taekwondo? (Due estratti dal romanzo Neblinas)

Neblinas di L. Salerno (romanzo) Due estratti:

1)

"Era una canzone di tanto tempo fa, che sgusciava da un compleanno del primo piano. Nessuno dei due era stato invitato. Da quel compleanno si vedevano le luci rosse di una stanza piena di fumo e di capelli corti e occhi neri e castani, e le ragazze affacciate, e il cane alzava la testa ai colori del fumo notturno, ma la ragazza del bar la cantava tutta e io ricordavo Valentine che portava il cane e metteva la gonna molto corta quando scendeva col cane, che si sentiva sicura con il cane vicino e le sue cosce di razza nelle scarpe da basket senza i calzini, spesso una la portava slacciata, e il mio cuore che sbatteva e si fermava dentro quell' unico laccio sciolto, come la gola di un uccellino presiccio, come adesso il freddo polare nei denti. La rividi da sola con il cane, che alzava il viso verso la mezzanotte, adesso nelle prime insegne natalizie, la mia bocca sporca di nero nel vetro e gli auguri grassi di schiuma bianca che spezzavano di lunghi limpidi corsivi i riflessi delle poche case ancora visibili, che spuntavano dalla zona più interna. Mi guardavo attraverso il vetro, lo sguardo perduto e il baffo sbiadito e grottesco del cacao bollente, che sembrava confondermi i denti con i cornicioni più antichi. E la barista che non sbagliava una nota della canzoncina alla radio:
fuori un pezzo raro di luna,
sbavava una calce metallica".

2)

Tu lo ameresti un bambino malato? Io ancora di più di uno sano, i bambini sono tutti uguali, così diceva la zia Adelina, ma Lucia si fa i complessi, dice che poi non sarebbe giusto per lui, capisci che bel tipo? Un bambino malato non si è mai posto il problema di come sia giusto amare, o che cosa sia giusto fare con noi normali, le dicevo. Non distinguono, perciò sono superiori, faceva Valentine a Lucia. I bambini ammalati, sono molto più sani degli adulti normali, credo che abbiano impiantata la fiamma dell'amore, una fiamma ossidrica che non si può guardare senza una maschera protettiva. Ma Lucia non capiva e aveva paura delle mie parole ortiche. Però le voglio bene, e tutte queste cose gliele dico, Lorenzo, cosa credi? Adesso si è messa anche a dieta, vuole fare la strafica. Dice che ha le cosce troppo grosse. Mi immagino i complessi che le farà venire quel palestrato, adesso anche gli sci, vuole imparare a sciare, la pazza, ma che faccia che hai, Lorenzo! Vieni qua, me lo dai un bel bacio pieno di musica? Tanto Giovanni sa tutto, cosa credi?
“Ti piace il Taekwondo?”.

martedì 17 gennaio 2012

Una poesia di Alfonso Gatto: Vedemmo l'alba

Ho trascorso quest'estate con due testi poetici di sfondo:
I Poemi Conviviali di Giovanni Pascoli, e Tutte le poesie di Alfonso Gatto. A una certa distanza è mia abitudine ritornare su alcune letture e provare che cosa succede con il passaggio del tempo. Alcune diventano più chiare, altre più complesse, ciascuna un suo mutamento intrinseco che si accompagna a quello mio, che si muove in parallelo. Così viene da pensare se la poesia sia il treno che sta partendo, e io invece rimango  fermo nel mio, in attesa;  o se al contrario è il mio treno che parte e la poesia invece è nel treno che sta fermo. O se invece partiamo entrambi, nello stesso istante del fischio.
Adesso un testo di Alfonso Gatto, tratto da Poesie d'amore (1941-1949)


Vedemmo l'alba:

Vedemmo l'alba sorgere dal capo
nero di Palinuro, sabbia rosa
d'argento inumidita dai piovaschi
di quella dolce notte. Il giorno aveva
un alone di polvere raggiante
ai nostri passi.

Il sapore del verde nei tuoi denti,
l'ulivo, il dolce miele, la capretta
della tua lingua vivida di rosa.
Era del lungo esistere, da sempre,
la luce immediata che deflagra
nella zuffa ridente: dirittura
– a correrla d'un grido – l'avvenenza.

Alfonso Gatto

domenica 15 gennaio 2012

Siamo tutti il grande amore di qualcuno:


Questo di Andrew Sean Greer, lo sento uno degli incipit più accattivanti mai incontrati. Mi ha costretto a regalare il testo a mia madre, nell'occasione del suo ultimo compleanno e credo che lo regalerò anche ad altri. È il secondo incipit, a una relativa breve distanza, che mi conduce verso l'acquisto del testo a scatola chiusa. Un altro incipit mi aveva convinto a regalarmi il testo; lo avevo visto una prima volta in una libreria, dove ero in attesa che presentassero il libro di un amico: in quel caso si trattava di "Un cuore così bianco" di Javier Marías; ma era un inizio più articolato ad avermi colpito e di una natura del tutto diversa di quello di cui sto scrivendo. 
Penso che le parti di cui è fatto un libro hanno ciascuna di loro una forza di emersione o pulsione, che potrebbe candidarle a questa sorta di rigoglio e diffusa risonanza nell'impatto. Quando si scrive e anche quando scrivo, darò fiducia a ogni ramo di quello che accade, pur sapendo che le parti poderose, quelle che scorporate faranno la magia o la fortuna di un testo, saranno forse una minoranza, o anche nessuna. Ma non solo l'incipit o il finale dovrà affamare l'attenzione. A volte le parti singole, anche se così brillanti messe da sole in controluce, non daranno quella grande resa nell'insieme, così come (sotto)passaggi brevi, palliducci e anonimi, potranno creare a distanza l'effetto cromatico di un giardino papale in primavera visto dall'alto.
Intanto: questo incipit breve e semplice che sto per segnalarvi, ha avuto la giusta potenza e la chiarezza delle frasi naturali e più riuscite, di quelle che si sanno e che si sentono dentro da sempre come proprie, ma che misteriosamente sanno sempre di nuovo quando scivolano con tanta grazia dalle mani di uno scrittore, quasi a farti pensare: così bello e così facile. Accidenti, a pensarci prima potevo azzeccarglielo anche io! 
Il romanzo dell'incipit  in oggetto è "Le confessioni di Max Tivoli", che inizia così:
"25 aprile 1930
Siamo tutti il grande amore di qualcuno".

sabato 14 gennaio 2012

Premio di poesia e prosa Lorenzo Montano. Bando 2012

Il bando 2012

venerdì 13 gennaio 2012

Che cosa può succedere per una sola virgola

Sono a cena con alcuni amici; quello che mi è seduto accanto risponde ad un messaggio dal suo telefonino. Continuando a masticare legge; da quel momento mastica ma non parla più. Rimane pietrificato e svuotato dopo aver letto il messaggio. Noto il suo imbarazzo, ma cercando di rimanere discreto, in certi casi è importante lasciare vivere i tempi del disagio o del tragico, senza essere troppo invadenti; in quel caso si soddisfa più un proprio capriccio e non si aiuta per niente la persona. 
La cena continua. Il mio compagno di posto rimane in tensione. Cerca di comunicare con qualcuno dal suo telefono, ma a quanto pare non ci riesce e questo fatto lo innervosice ancora di più. Si alza da tavola, cerco di seguire la sua espressione con la testa, senza dare troppo nell'occhio. Ritorna a sedersi, si rialza,  ancora con il telefono illuminato tra le mani, e sommerso nel tentativo di una chiamata. Dopo qualche minuto si allontana, per più tempo. Sarà stato quel messaggio, mi dico. Che cosa diavolo gli avranno scritto per ridurlo così? Qualcosa di grosso, forse, guardando intanto gli altri amici e commensali, ancora ignari di tutto, perché più lontani, che mangiano, bevono e parlano. Io non mangio più, nemmeno bevo e nemmeno parlo. Cerco di guardarmi intorno, ma lui non si vede ancora. Il cameriere fa il giro del tavolo, mi versa solo l'acqua nel bicchiere, il vino è ancora intatto. 
Quando il mio amico ritorna al tavolo, con il viso rischiarato ma ancora pallido e afflitto, come dopo una corsa. A quel punto è lui a sciogliersi verso di me, quasi avesse il fiatone, e mi dice di essersi preso uno spavento enorme. Riguardava il messaggio, naturalmente, non c'erano dubbi in merito. Il messaggio che aveva ricevuto mentre era a tavola diceva questo:
"Abbiamo perso Paolo", il quale Paolo era suo nipote, un ragazzino di circa dieci o undici anni, adesso non rammento, ma intanto dal telefono della sorella quel messaggio lapidario e gelido lo aveva atterrato. Tutti i tentativi successivi di comunicare con sua sorella, andavano tutti a vuoto. Così si era alzato, mi dice, cercando di chiamare altri numeri, per capire che cosa diavolo fosse successo a Paolo, che diavolo significava: abbiamo perso Paolo, se fino a quel pomeriggio lo aveva visto, stava bene, come sempre o ancora meglio di sempre! O forse un brutto incidente, ma dove, poi? Non ricordava che dovevano uscire quel giorno. Un incidente in casa, e intanto pensava e chiamava, chiamava adesso a sua madre, ignara di tutto, e pensava: che avevano tenuto di certo la notizia nascosta a sua madre, non poteva essere informata così a bruciapelo di un fatto del genere successo a un nipote; fino a quando, dopo l'ultimo tentativo, risponde sua sorella, con una voce tranquilla, serena, senza capire tutta l'agitazione del mio amico. 
Quello intanto le dice del messaggio, e la sorella scoppia a ridere, dicendo che aveva perso la loro squadra del cuore,  e che Paolo voleva comunicarglielo, dal momento che dove eravamo a cena non c'erano radio o televisori; così Paolo aveva scritto: "Abbiamo perso Paolo", invece di: "Abbiamo perso, Paolo".
Tutto qui? È il caso di dire che molto spesso le virgole giuste possono diventare una questione di vita o di morte.

giovedì 12 gennaio 2012

Le parole che non possono. Il personaggio di Simona

Primi abbozzi di una rivisitazione. Personaggio come luogo, o scorcio – ho molto amato parlare di Simona come scorcio magro dentro un altro scorcio: mi ha reso in pieno l'impossibilità delle parole. Accettare il loro impossibile per tentare di utilizzarle, nella certezza del fallimento. Quasi sempre, più si medita in eccesso sulla limatura e più si sganciano sulla carta cadaveri, embrioni folti di sangue nero con i gusci dell'uovo ancora attaccati. Simona non è fatta di parole, è questo il mistero, ma di risonanze al non detto, di vibrazioni, accenni di  tremori o di lumi di casa. 
Ho amato il personaggio di Simona perché è la freccia dove le parole non possono. Lo stacco con l'inutilità dell'accadimento al solo solco semantico se non gusti e non addenti la mollica viola dello sfondo. Credo di averla immaginata con i capelli nella bocca, o con una mano sotto il mento o nell'intercapedine di un lungo colpo di sonno, emersa dal pane di una fiaba (Perrault), attraverso tutte altre immagini che non ho scritto e descritto, ma che le ho dedicato nella sua costante assenza e dolcezza-mitezza di un altro tempo. La trama del luogo-persona, è allora originata dal riconoscimento che non ha parole a testimoniarla e quindi l'ho cosparsa di vuoti e di brevi spazi in controluce, tra termini che indicavano e che dicevano altro, forse per non spaventarla. L'ho trattata come un uccello che scorgo da un ramo e che devo cercare di memorizzare o di fotografare per tempo e nel tempo della sua sosta, ma senza farmi scorgere e spaventarlo. Credo che nel non detto di lei e nella ritrosia del suo teatro, si sveli forse un linguaggio parallelo che la include e la racchiude come riflesso rosato del ghetto, lasciandola sciolta e raccolta, e mai in posa. È molto fastidioso dedicare ai personaggi di una storia ore e ore di trucco e di prove luci, per poi accorgersi che non hanno ancora una loro tensione e dimensione. Cercare la migliore forma fisica e grammaticale, per lasciarli apparire e per imporli, come una dorsale appenninica o le creature di un acquario illuminato. La scrittura che amo è fatta di altro... 
Lo scorcio di Simona, quello che si vede e che non si vede, così come qualche accenno al trasognato o alla sua figura di nuca o di spalle, è tutto quello che mi rimane, ma anche tutto quello che mi è mancato e che mi mancherà di lei, dal primo attimo di comparsa nel romanzo. Dove le parole non possono, allora si comincia a cercare e forse, tra uno spazio e l'altro, riconoscerò il suo fischio o il suo passo trasognato, in qualche  tragitto e momento imprevisto della mia vita.

martedì 10 gennaio 2012

Passaggio d'ombra e d' acqua di Luigi Salerno

O dove ti potrà mai dirottare
la sonnolenza della tua canoa,
il suo ronzare che slenta sull'acqua
l'arte minuziosa di un romanzo insulare?

Lo stesso filo che scuce, quel suono
dell'ago sbrillato di un'altra luce
nel sorriso sartino al passaggio veloce,
di un valico smagato o di sereno?

Da chiederti ancora: "Ma dove mi trovo?",
"Se mi dimentichi io non mi riconosco!
Dentro il taglio snodato di un rovo,
o nella bocca spalancata di un bosco"?

Lo smalto feroce in ardore
dal suo lampo ragazzo
e l'attraente filo di mare
slentava la panna chiara di fumo,

al color di Vietri il grifagno
di un lampo di amore svanito.

lunedì 9 gennaio 2012

L'intelligenza della nostalgia. Il cane Lampo e l'azzurro di una notte

Ma quanto sarà più triste degli altri un cane così intelligente? E pensare che questo cagnolino esiste davvero, e ancora me lo vedo con il nero retrò del suo muso. Un cane di amici molto dolci e sereni, che ogni tanto mi balzava davanti sul parcheggio, durante gli incontri di calcio del dopo cena con il mio nipotino che doveva fermare il gioco per far parcheggiare l'auto della padrona in una delle nostre porte da gioco-parcheggio. E la storia che c'era e che non c'era come forse la linea magica dei suoi colori aggiunti e mutati, nelle versioni febbrili e successive che ho spossato.
Potrei averlo rivisto in un disegno scambiato e chissà se lo dirò mai ai suoi padroni della sua vita — e non storia —, di quello che gli sarà successo o del suo orgoglio fantastico e letterario con cui si è distinto e disfatto da burattinaio spleeen della mia voce o assistente pdv. Intanto scopro e imparo, di quanto sia fisico e realistico l'esercizio triste o vitale della mia fantasia in questo strano lavoro o romanzino del buon crepuscolo. Non potrei sacrificarla a quello che vedo e che cerco di intravedere nel visto. Il cane Lampo, non è quello il suo vero nome, mi avrà guardato per una manciata di secondi ogni sera, eppure già si riazzannava della possibilità di un ruolo, in un mio lancio lontano, in un altro luogo ancora. Lo stesso di quando mi persi, ma ero davvero molto molto piccolo, e i miei genitori non mi trovavavano più. Credo di non essermi reso conto della loro angoscia, quando decidevo di seguire su di una spiaggia del Lazio un vecchio venditore di palloncini, che nemmeno mi vedeva per come fossi piccolo e smarrito dietro di lui. E io che sentivo di continuare, non capivo dove mi avrebbero portato quei passi e quanto male stavano facendo a mia madre, che si toglieva gli occhiali da sole e si alzava sulle punte per capire, già stordita e qualcuno che guardava il mare e la sua calma insulare, la ragazza così carina dai capelli corti e con i miei stessi occhi, spaventata a morte, e poi così attenta a non farmi male nella stretta dolce e feroce del ritrovarsi. Avevo circa tre anni, allora...quella sera accompagnavo mio padre all'edicola, dentro la sua mano senza parole, come due innamorati.
A revisione quasi ultimata, l'ho incontrato con la sua padrona, parlo del cane,  meno di un mese fa, in una giornata ghiacciata ma piena di luce, in un parco deserto. I suoi colori veri avevano l'intelligenza delle cose che si amano quando si vedono, perché si avvertono già perse e irrecuperabili quando poi arrivano e si disfano presenti ma già ricolme di assenza. Come in ogni passo del ghetto e dell'oltreghetto sto imparando a scorgere la grande avventura del presente e della sua libertà di perdita — scoperta parallela nella sua nostalgia.
Dopo la chiusura e l'apertura di una certa storia di immaginifico e di presente sfumato, i cani non saranno mai più gli stessi; non sarà più lo stesso nemmeno quel cane e nemmeno i suoi padroni e i loro parcheggi sul nostro campo da gioco delle vacanze e le siepi appena accese di giallo.  Di quel cane ho memorizzato alla perfezione l'andamento, il passo scanzonato, la rincorsa, la striscia di lingua dopo una corsa, il suo spavento e il suo ardore, quanto la sua insolenza e resistenza ai richiami dolci dei padroni, come quelli terrorizzati dei miei, in quella mattina lontana. 
L'intelligenza rara della sua nostalgia.

venerdì 6 gennaio 2012

Il fratello maggiore, di Michelangelo Salerno

Il fratello maggiore

Gli anni di scuola sono segnati
dal volto pallido del fratello maggiore
la divisa del collegio i bottoni dorati
i corti stivaletti le lunghe camerate.
Dietro la porta in fondo
perennemente in agguato
un fantasma con ali ed artigli
antico signore del castello
adunco testardo restio a lasciarsi sfrattare.
E questo fratello maggiore
nonostante l'estrema debolezza
che dall'ombelico gli saliva
al pomo d'Adamo
era comunque segno di coraggio
mano stretta nel buio
e per certe note femminee
degli occhi del profilo
figura materna.

Il pallore segno premonitore
di morte prematura?
Il fratello maggiore morì ragazzo
la spina dorsale spezzata
per una caduta
si consumò di piaghe nel letto
su alla villa.

La sera della sua morte
le stelle brillavano alte.
Nella campagna
le ombre il silenzio.

Michelangelo Salerno

La poesia è tratta dalla raccolta Gabbia di ansie. Edizioni Forum/ Quinta Generazione 1977 Forlì. Collana di poesia diretta da Giampaolo Piccari


mercoledì 4 gennaio 2012

Step 6: L'assedio e finale

Step 6: l'assedio. La voce al telefono si rivela, quindi, attraverso lo stesso vortice pensante che ha accompagnato le altre risonanze, anche nei punti precedenti. Questo tipo di taglio narrativo comporta una diversa varietà di forme del narrato, molto meno certe e rassicuranti di quelle di qualcuno che narra quello che vede e non quello che sente soltanto, o peggio, che presume di sentire. L'atmosfera di assedio che ho cercato fin dall'inizio nella storia, è data ancora una volta dalla maschera di cera posizionata sul fatto e sull'oggetto e motore del fatto narrato. Il fatto narrato, raccontato nel suo cuore e soprattutto nel suo personaggio agente, non ha un viso definito e avvenuto, e nemmeno il narratore, mentre narra, ha cognizione del viso che deve illustrare, di quello che può fare e non può fare su di un avvenimento non ancora conclamato e certo, ma ancora ipotetico; la voce che narra si pone allora sullo stesso piano di chi legge e quindi ancora non sa troppo dell'evento vissuto, e lo legge dall'interno di un negativo alla lampadina, non ancora disposto e schiarito nella sua forma e formazione definitiva: tutto succede ma potrebbe anche essere altro. Il luogo nasconde e concede le possibilità della scorsa precedente, anche quando la voce si profila in una dimensione completamente nuova, portatrice di una richiesta impossibile e affettuosa, che interrompe e infrange tutte le probabilità precedenti e quindi le relative future. Essere stati cercati, anche da lontano, per un movente di dolore o di nostalgia molto forte, è il primo autentico ribaltamento-rapimento, che concede alla storia un respiro verso un luogo meglio definito, legato allo spiazzamento simultaneo di chi narra. Credo che sia stata quella la chiave che cercavo e che ho cercato fin dal primo rigo; l'immagine di quest'inquietudine è stata l'embrione di tutto quello che l'ha preceduta, così come del suo ultimo sviluppo e del passaggio al racconto nel racconto, che sarà poi il fattore rischiarante sull'identità e sul movente. Anche se il lettore riceverà l'informazione a cui anelava, svelandosi con calma l'arcano, non avrà raggiunto nessun punto definitivo di approdo, ma si ritroverà solo su di una nuova piattaforma, con nuove domande e interrogativi su qualcosa di inspiegabile, ma stavolta senza opzioni antagoniste; il dubbio è uno solo, non più tanti; un fatto da palpare, a cui dedicarsi, anche se immerso nello stesso mistero degli altri fatti supposti e adesso scoperti irreali. In questa nuova fase, non solo il fatto narrato, ma anche la voce che narra, comincia a profilarsi sotto una luce nuova quanto surrreale, e attraverso la memoria dell'evento e della voce al telefono, umanizza e abbassa dalla sospensione il suo stato: "...ma non del tutto dimenticato, perché da un pomeriggio d’infanzia, adesso un po’ lo ricordavo: Elvira, mia nonna paterna, mi aveva parlato una sera di lei, e forse ero l’unico al mondo a sapere di una cosa del genere" e ancora: "Perché certe storie troppo dolorose, si negano ai figli, anche grandi, ma in particolari momenti si possono rivelare a un nipote piccolo ma così attento e solitario, come ero io nei suoi occhi innamorati di me, che brillavano come candele davanti a lei...". Ecco, in quest'ultimo tempo ho cercato di lasciar scorrere la spiegazione o il risultato, aprendo una nuova fase più intima e senza sciogliere subito il mistero. Non credo che un lettore desideri sempre soluzioni certe, matematiche, assolute; in diversi casi cerca di sciogliere dei nastri, solo per potervi scorgere altre possibilità di nodi. Un lettore appagato da una certezza, di solito ritorna più insoddisfatto di prima. Ha più fame, invece, di nebbia che di chiari, di nuova nebbia, di solito, che profili l'attesa di nuovi chiari sull'evento che abita nella lettura e dal quale è a sua volta abitato. Il ricordo del narratore che si sposta nel suo passato, rende ancora più palpabile la dimensione temporale così sfalsata sui diversi piani di utilizzo e di relazione:"Mi fu detto solo questo e mai più ripetuto", adesso più perentorio e solenne, per l'effetto muscolo del passato remoto, che in diversi casi sancisce una luce più ferma e mette una pausa al flusso. E l'immagine del balcone con la donna in vestaglia, che cerca di trattenere dentro i due bambini, quel suo sorriso appena sfuggente nel freddo di Natale, non potrebbe ancora una volta sospendere le supposizioni e i misteri appena risolti, per crearne un altro nuovo, su dimensioni spaziali e temporali diverse, ma non per questo meno attraenti e spiazzanti? Credo di aver sviluppato, con questo sesto e ultimo passo, la scorsa che vi dovevo, riguardo gli aspetti che a mio parere potevano meritare e stimolare maggiore attenzione. Riprendendo così qualche punto singolo del racconto, anche qualche rigo, introdotti dalle analisi del passo, si potranno scorgere altre luci e altre ombre; come succede col gioco delle ombre cinesi, dove le dita possono trasformarsi in tanti animali diversi, a seconda del movimento o dell'apertura delle dita di una mano, un'aquila può diventare un cane, un cane una capra, una capra una volpe. Forse la bellezza dell' esercitare e dell' immaginare la finzione, sarà quella di giocare con le proprie ombre, di fronte al lume, confondendo e non riconoscendo più dove comincia la propria mano e dove continua o finisce l'ala di un'aquila reale. Al momento è tutto. Chi di voi ha interesse a commentare in questo stesso spazio qualcuno degli step che lo hanno più colpito, o comunque soffermarsi su qualche nuovo punto, è libero di farlo, per tutta la durata dell'evento, che prenderà circa un'altra settimana. Intanto tutto questo reading sarà disponibile, a chiusura evento, sia sul mio sito originale che sul mio blog. Ancora un caloroso ringraziamento agli aderenti all'evento de "La petite mort", con l'augurio più sentito di uno splendido anno nuovo!

Link racconto "La petite mort".

lunedì 2 gennaio 2012

L'azzurro della notte e il moto ondulatorio della luce. La traslucenza

L'azzurro della notte (appunti di taccuino):
Il grande disagio che mi prende nella fase di ripristino di alcune storie o di lavori ancora sospesi, è dato in primo luogo dalla nostalgia della dimensione emotiva in cui li ho tenuti per diverso tempo in premurosa gestazione; fattore pluridimensionale, in questo caso specifico, che lascia una scia molto forte anche a certe distanze, qualsiasi dimensione rappresenti il movente padre di ritorno e di intervento su quel luogo, in questo caso sarebbe corretto dire su quella luce di luogo o vago topos luminoso dove il lavoro nasce e poi affonda, come sott'acqua. In effetti con "L'azzurro della notte", ho rotto, senza deciderlo e senza saperlo ancora mentre lo facevo, alcuni freni inibitori della mia sensibilità e percezione del reale e del sussurro emotivo di quel preciso momento, gestendo e tradendo nell'azzurro (ossimoro se cielo notturno) del cielo, la modalità febbrile e incestuosa di una massa  marina dai toni mobili e creaturali,  riversata dagli ambienti aperti ai movimenti oscuri e sfumati di tutti i personaggi nel ghetto e nell'oltreghetto. 
Non esiste più un cielo che grava ma un cielo in cui si affonda come in un cuscino (uno specchio viscoso e vertiginoso, come alcuni riflessi dei visi o dei tetti, risucchiati dai bicchieri della cristalliera o dalle folate di musica lirica dalla radio). Questo tipo di rottura e di frizione, non è stata compiuta con un atto preciso di volontà, ma con lo stesso gesto nervoso e tragico del personaggio protagonista maschile, lungo i primi inserti dalla sua cupa e pittorica apparizione — l'inizio del racconto, così come gli inserti successivi, sono forzati in una dimensione sempre meno fisica e sempre più ondulatoria e onirica, come avviene con una rifrazione o una traslucenza notturna (questo è stato l'aspetto più complesso e rischioso di tutta l'elaborazione della storia, che risulta letteralmente bagnata da questo tipo di sguardo sulle cose e che ne costituirà il pregio e il fianco aperto e ferito dove bere). 
In attesa che si profili un certo destino a questo particolare lavoro, comincio a tirare le redini a quelli che sono stati gli aspetti determinanti che scopro e che riconosco a una certa distanza, durante le ultime operazioni di ripristino e di intervento. Due gli elementi più forti: la luce, come parte strutturale e portante, e la dimensione temporale e prospettica del pdv, con tutte le varianti che si sono succedute a ruota nell'impianto, confondendo e avvolgendo il narrato al sognato e al non vissuto. Come primo passo di ripristino, nell'attesa di una direzione sicura o di un luogo certo di destinazione, mi piace ancora ricordare un omaggio fotografico al romanzo, che durante le primissime bozze, un'amica fotografa e sensibilissima, Daniela Fariello, mi aveva suggerito come possibilità investigante sulle regioni di luce che avvertivo e che avevo già creato; e in questo scatto esiste il nucleo di luce notturna, quanto meno è la più vicina alla mia idea, di quella elaborata al buio e non pensata, che mi ha molto incuriosito, come nuovo ultimo topos di confronto.

domenica 1 gennaio 2012

Alla luce di alcuni vini (bozza o mosto lillii):

la luce di alcuni vini appena aperti mi ricorda la nuca di mio padre.
Il suo rosato blu nel bicchiere, a volte la sua voce rauca che canta;
la luce di alcuni vini appena aperti mi ricorda la luna in un cinema.
Le calze della cassiera, la carta di caramella che ti copre gli occhi,
il ginocchio sbucciato,il sangue di un bosco al rasoio del rabbuio.

Step 5(La petite mort):

Step 5: ci avviciniamo al contenuto della telefonata, possibile cuore o svincolo della narrazione. Ma sarà propio così? E anche durante la costruzione dei vari passaggi, mi chiedevo davvero se fosse il contenuto di quella telefonata a farla da padrone, da scambio di binario per far avanzare il racconto. In questo caso rimango felicemente dubbioso, e uso l'avverbio perché quando una storia rimane in qualche modo nel bilico e ancora aperta e non del tutto svelata, mi sembra ancora fresca, quanto meno ancora percorribile con un altro tipo di visione, che è quella che il lettore scoprirà attraverso il suo filtro personale. La telefonata, dunque: ma dov'è questa telefonata? Dove si trova questa voce, che cosa dice di così reale da rappresentare un nucleo o una curva di scambio così essenziale per "La petite mort", e così più forte della sua attesa? In effetti questa ventata di voce misteriosa al telefono, esiste solo come riflesso di un suo passato e di un altro racconto, parallelo e incubato, in quello che sta ancora scorrendo e non ancora successo e passato. Un processo di traslazione. Anche l'utilizzo della fase più indiretta, lascia lo spazio al movente della chiamata, più che al suo mero contenuto. Il lettore che legge è sempre un po' in attesa. In attesa di qualcosa che ancora non sa, ma che preme come condizione imprescindibile perché il suo cammino attraversi le locande accese dello stupore, della sorpresa, dell'emozione, del colpo di scena, ma che siano imprevisti e improvvisi e non troppo annunciati o prevedibili. Ciascuno attende la sua sorpresa o i suoi possibili fattori di spettacolo, che lo portino a determinare interesse per quello che è stato scritto. Diversi scrittori congegnano fin dagli albori dellla storia, i punti focali in cui catturare il lettore meglio degli altri, il posizionamento della trappola, attraverso queste leve, che possono spaziare tra mille e che sono spesso correlate anche al ritmo inferto e prescelto nella condotta dell'azione. Ma non sempre è così. Come nella vita, non sempre lo spettacolo di una vita è dato da elementi spettacolari, e non sempre una vita grigia e spenta non abbia vissuto anche lei il suo filo luccicante di spettacolo. L'attesa del lettore dopo lo squillo, fa parte della stessa scorsa di possibilità che la stessa voce narrante incontra e quindi anticipa nel suo tempo esploso, parlando del possibile malore, della minaccia di morte etc. Ma nessuna di quelle possibili ipotesi, sarà poi quella universale o veritiera;e nemmeno è stata congengata per colpire o per attrarre, perché il suo ruolo è quello di spostarsi sull'altra narrazione, quella che non c'è o che ancora non si vede e non si sente, ma che è quella dove si annida e si snoda il senso della storia. In questo caso si evince la gradazione dei piani di narrazione, non solo nel blocco temporale, ma anche nel blocco strutturale (un'altra storia evocata dalla voce che chiama e che si fa, indirettamente, voce narrante o veicolo per un atto di memoria che narri di un altro tempo e non solo in un altro tempo). Una storia che si nutre di più dimensioni, in una modalità spiralica, l'unica che ho ritenuto efficace per non cadere nella banalità — rischio pur sempre presente, anche quando una storia è congegnata e rodata nei suoi minimi dettagli.
Link racconto "La petite mort".