domenica 31 luglio 2011

Taccuino

Mi accorgo che nel rapporto con un testo scritto che si ama, vige un rapporto profondo ed esclusivo tra due entità ignote e concertanti tra loro, ma anche straordinariamente intime. La figura oscura che mi scrive e che io leggo, fin dal primo contatto, mi traduce l'inespresso e l'intraducibile, qualche volta mi sfugge, in altre si avvicina e mi schizza di un'ondata di schiuma negli occhi, con un colpo della coda, come un delfino. E quando sono nel pieno della sua comprensione, ecco che mi sento anche io compreso. Quando sono nel pieno del rapimento del suo ascolto, mi sento anche io rapitore e ascoltato, come se stessi scrivendo e insieme ricevendo, una lunga lettera di riconciliazione e in alcuni casi di amore, a me stesso e dalla mia vita.

venerdì 29 luglio 2011

Concorso Artistico Internazionale Amico Rom 2011

Concorso Artistico Internazionale Amico Rom 2011
Poesia - Narrativa - Teatro - Fotografia Disegno - Pittura - Scultura - Musica Saggistica - Video - Documentario - Film. OPERE EDITE ED INEDITE - PREMI SPECIALI PER BAMBINI E SCUOLE
PREMIO SPECIALE DEDICATO ALL'ARTISTA ROM CANA KASUM
 Regolamento
1 ) Il Concorso è aperto a tutti senza alcun tipo di discriminazione. Le lingue ammesse al concorso sono: Romanì (zingara), Italiano, Inglese, Francese, Spagnolo.
2) Le opere devono essere inviate in un plico unico, raccomandato, nel modo indicato nelle diverse sezioni entro e non oltre il 31/08/2011 all'organizzatore del concorso: Santino Spinelli Presidente Ass. Thèm Romanò Via S. Maria Maggiore n.12, 66034 LANCIANO (CH) ITALIA.
Oppure tramite mail: spithrom@webzone.it
3) I membri della Giuria, composta da una Commissione Internazionale saranno resi noti il giorno della Cerimonia di Premiazione che avverrà l 29/10/2011. Il giudizio della Giuria è inappellabile.
5) Il verbale della Giuria e i nomi dei vincitori e dei premiati saranno resi noti tramite la pubblicazione sul sito ufficuiale del concorso consultabile all'indirizzo WWW.concorsoamicorom.it).
5) La partecipazione al concorso delle opere inedite implica la cessione gratuita dei diritti all'organizzazione per la pubblicazione su Antologia, la quale sarà tradotta in diverse lingue.
6) Tutte le scuole di qualsiasi ordine e grado, sia pubbliche che private con i loro alunni possono partecipare. Sulle opere dovranno essere chiaramente scritti i nomi degli alunni, la classe e la scuola, la città e il nome dell'insegnante/i che ha/ hanno sostenuto l'iniziativa.
7) Ogni autore può partecipare a più sezioni e a più categorie o alla stessa categoria con più opere pagando le relative quote di partecipazione.
8) Saranno escluse (senza rimborso) tutte le operenon concernenti il tema indicato.
9) I premi devono essere ritirati personalmente o da persone delegate, pena la decadenza dello stesso.
10) Il concorso prevede le seguenti sezioni con le relative categorie:
Sezione Opere Inedite
Sono ammesse opere inedite che dovranno pervenire in n. 6 copie dattiloscritte (cat. a-b-c) o n.1 copia (cat. d-e-f). Delle categorie a-b-c- solo una copia deve recare il nome, cognome, indirizzo, nazionalità, telefono, curriculum vitae, foto e firma del partecipante.
Cat. a) Poesia in lingua romani (zingara) standard o in uno dei dialetti. Tema: libero. Fino a n. 3 poesie (max 50 versi). Ogni poesia deve essere munita di traduzione in italiano o in una delle lingue internazionali (inglese, francese, spagnolo) specificando di quale dialetto si tratta.
Cat. b) Poesia in lingua italiana, inglese, francese, spagnola. Tema: il mondo romanò (un aspetto qualsiasi o un evento storico o un personaggio celebre o meno o un'esperienza etc.). Fino a n. 3 poesie (max 50 versi).
Cat. c) Racconto breve in lingua romani (zingara), inglese, francese, spagnola, o italiana che non superi due cartelle dattiloscritte (ogni cartella equivale a 1800 battute: 30 righe da 60 battute). Tema: il mondo romanò (vedi cat.b). Le opere in lingua zingara devono recare la traduzione in italiano o in una delle lingue internazionali (inglese, francese, spagnolo).
Cat. d) Opera teatrale inedita (una sola copia) concernente il mondo romanò (vedi cat.b) senza limitazioni. L'opera vincitrice potrà essere messa in scena durante la XVI edizione della manifestazione "Prin©karanÞ - Conosciamoci. Incontro con la cultura romanì" che includerà anche la cerimonia di premiazione del Concorso "Amico Rom".
Cat. e) Racconto o romanzo inedito concernente il mondo romanò (vedi cat.b) senza limitazioni.
Cat. f) Tesi di laurea o Monografia riguardante il mondo romanò (storia, lingua, costumi, tradizioni, musica, etc.).
Sezione Arte Figurativa
Sono ammesse al concorso fotografie, pitture, disegni, sculture di qualsiasi genere e in qualsiasi stile o tecnica purchè rechino un titolo e fissino un momento di vita rom (o un personaggio romanò celebre o meno o un'attività tipicamente romanì).
Le opere migliori illustreranno la VI Antologia del concorso e saranno inserite in una grande mostra artistica internazionale. Allegare nome, cognome, indirizzo, nazionalità, curriculum vitae, firma e foto del partecipante. Gli autori dovranno far arrivare le opere in buone condizioni.
Cat. g) Disegno (max 3 opere) inedito con titolo eseguito singolarmente o collettivamente con dimensione massima cm 100x70. Inviare una sola copia per ogni disegno.
Cat. h) Fotografia (max 5 opere) inedita, con titolo, in bianco e nero o a colori. Inviare le foto con le seguenti dimensioni: 1 ) cm 20x30 o 2) cm 30x45.
Cat. i) Le pitture o sculture (con titolo) potranno pervenire anche solo a mezzo fotografico con una breve relazione riguardante: il titolo, la tecnica impiegata, lo stile, il materiale usato, le dimensioni. etc.
Sezione Opera Edita
Opere pubblicate dal 1986 in poi in una delle lingue del concorso riguardante il mondo romanò: espressioni artistiche, studi, ricerche. etc. Deve pervenire una copia contenente il nome, cognome, indirizzo, nazionalità, telefono, foto, data di pubblicazione, firma del partecipante e curriculum vitae.
Cat. l) Raccolta di poesia in lingua zingara (o in un'altra lingua purchè contenga almeno due poesie ispirate al mondo romanò) .
Cat. m) Racconto (in una raccolta anche solo un racconto dedicato al mondo romanò) o romanzo (anche solo un capitolo riguardante il mondo romanò).
Cat. n) Teatro (anche solo un atto o una scena dedicato o ispirato al mondo romanò)
Cat. o) Tesi di laurea o Monografia riguardante il mondo romanò (storia, lingua, costumi, tradizioni, musica, etc.)
Cat. p) Musica romanì o musica ispirata al mondo romanò (Compact Disc, musicassette, dischi, partiture musicali). Ai vincitori di questa categoria sarà anche offerta lapossibilità di un concerto da tenersi alla fine della Cerimonia di Premiazione del Concorso "Amico Rom", nell'ambito di un Festival internazionale di musica romanì.
Cat. q) Video, film, documentari riguardanti il mondo romanò.
Le migliori opere saranno proiettate durante la Edizione 2011 della Manifestazione "Prin©karang Conosciamoci. Incontro con la cultura Rom"
Premi
Ai primi classificati di ogni categoria trofei e Diplomi d'Onore personalizzati, viaggi e soggiorni (max tre giorni) a Lanciano (Chieti) completamente rimborsati se stranieri. Fra i primi classificati di ciascuna categoria verrà scelto un vincitore assoluto che vincerà il premio del Presidente della Repubblica Italiana.
Ai secondi classificati di ogni categoria trofei e diplomi d'Onore personalizzati. Ai terzi classificati di ogni categoria premi e diplomi d'Onore personalizzati.
Numerosi premi speciali fra cui: Premio Speciale Scuola, (saranno premiati scuole, alunni ed insegnanti), Premi alla Carriera, Premio Phralipè 2011.
PREMIO SPECIALE DEDICATO ALL'ARTISTA ROM: CANA KASUM
Quota di Partecipazione
La Quota di partecipazione è GRATIS per tutte le categorie.
I vincitori saranno segnalati alla televisione, alla stampa e alle riviste specializzate nazionali ed internazionali.

Partecipa e fai partecipare al Concorso per far conoscere, apprezzare e valorizzare un mondo sconosciuto.
Per agevolare il lavoro della Commissione Giudicatrice internazionale non aspettate l'ultimo momento per inviare le vostre opere.
per contattarci

mercoledì 27 luglio 2011

Taccuino

Una civetta distrusse gli uccelli di un gabbione, lasciato all'aperto, in una notte d'estate, per riempire di carne viva e piumata il suo nido già folto di lamenti e becchi squarciati.
Non scrivo uccise o massacrò, ma distrusse. Ancora più feroce il verbo distrusse, perché non specificato sull'elemento creaturale e pulsante, ma lasciato sfumare su qualsiasi forma strutturale o materiale visibile infranto e polverizzato da un attacco superiore ed estremo. 
Il più grande incubo è che, anche se la civetta predatrice e insonorizzata avrà ascoltato a distanza i battiti vivi di ogni piccolo uccello, immerso nel sonno con la testa sotto l'ala, appena prima dell'assalto, l'effetto visivo e raccapricciante del mattino dopo, racconterà di una distruzione classica, naturale e violenta, come quella di un'inondazione o di un tornado sulle ultime palme, tra piume bianche e sangue neroviolaceo, battaglia, pugna, massacro tellurico, infarto. Città, fortezze, castelli, roccaforti e palazzotti imperiali, frantumati contro il senso e dissenso oscuro della natura.
Tutto vero e successo, qualche estate fa.

lunedì 25 luglio 2011

Da "Il cattivo tempo".

I giorni seguenti si parlò davvero pochino, quasi niente. Furono giorni crepuscolari, ammantati da una pioggia costante e notturna. Dal cattivo tempo, dei cieli e degli animi.
Ciascuno, preso possesso dei suoi contatti dallo stesso giornale, era piombato nel proprio sepolcro, senza comunicare nessun particolare o sensazione all'altro. Elisabetta si prodigò molto per la situazione della farmarpista, che da quando aveva impegnato lo strumento, non dormiva più e lacrimava dal nuovo occhio ascellare di sonnambula, che durante la notte sprigionava una sostanza, strana, condensata tra il latte e la farina di cocco.
Rompemmo il silenzio il quinto giorno da quella notte. Quando Oriella, tutta eccitata, ci annunciava l'arrivo di un nuovo strumento, in giornata, tramite corriere. Il regalo di un amico, credo sconosciuto a me e ad Elisabetta, ma credo anche a lei. Possibile il risultato di uno dei nuovi contatti personali? Non ci disse altro. Saltava per casa, poi di colpo si fermava e si metteva a pensare, incantata e pallidissma come un cigno.
Avrebbe subito preso contatti con gli amici dell'orchestra, dicendo a tutti i suoi colleghi che adesso poteva continuare a studiare sul serio, e che le spedissero pure le parti, le avrebbe divorate, con uno strumento migliore sarebbe cambiata la musica. Ne era così sicura. Rimase per tutto il pomeriggio attaccata al telefono del soggiorno, in posa pubblica e solare. Quando ritornai a casa, la trovai allo stesso posto. Sulla punta del divano nero, parlando sottovoce al telefono rosso, con una mano che le copriva l'altro orecchio, i pantaloni corti del pigiama e una sola scarpa da basket ai piedi. Si era messa in ghingheri, nell'attesa di quella misteriosa e inattesa consegna. Aveva preparato una grossa mancia per il corriere, anche se già pagato, sperando che quel gesto le portasse fortuna.
Attendemmo tutti e tre insieme, fino a tardi, l'arrivo della nuova arpa. Ci chiedeva di continuo fino a che ora i corrieri consegnassero. Che età avessero di media i corrieri che consegnavano la sera tardi o la notte. Se avrebbero accettato un invito a cena, o il preludio per arpa di una sonata, anche un sorsino di orzata o di tropical. Una toccata di Bach, o anche di cosce e di culo, ci diceva.
Quel corriere non arrivò mai. Nè quella notte, né i giorni e le notti seguenti. Non riuscimmo a capire chi diavolo le avesse tirato un brutto gancio del genere, mentre Oriella insisteva sulla tracciatura, che avrei dovuto seguire meglio la spedizione, chiedendo a qualche amico con Internet. Ma io non avevo amici con internet, e nemmeno senza.
I miei unici amici erano loro due. Non mi rivolse la parola per giorni, fino a quando il nostro alano non uscì in cinta.

domenica 24 luglio 2011

Sarebbe il caso di fare un po'di ordine (Post poco ispirato)

Sarebbe il caso di fare un po' di ordine. Questo è uno dei propositi più comuni, che periodicamente tendono ad insidiarmi e a corteggiare e insieme osteggiare i miei percorsi. Come se affiorasse sempre un senso di colpa. Una tendenza a mettere a posto quello che ho spostato e ho danneggiato, cominciando a fare e a scrivere qualcosa.
Una macchia, sulla purezza e sulla pulizia e sull'ordine immacolato, di tutto quello che è rimasto intatto e lontano dalla mia zampata selvatica. Se guardo alla parte bianca della tela, mi sento un ragazzaccio, con le mani unte di olio per auto e i pantaloni strappati, che infanga di viola e di nero qualsiasi cosa tocchi. Sarà forse così. Possibile. Se così non fosse sarebbe tutto troppo semplice. Ritrovarsi, e adesso insisto, in un luogo che non abbia niente a che fare con le proprie parole. Ritrovarle dal lato opposto. Lasciarsi divorare, sparire e poi cominciare sul serio. Lontano dalle certezze, dalla tecnica, dalla comodità, dal vizio, dalle abitudini, dai vezzi e stravizi di scrittura. Dentro il proprio dialetto o nelle proprie feci. Cercare un bossolo ancora lucente in una discarica. L'ultimo.
Ho il desiderio di rinnovarmi e per rinnovarsi non si può partire dal mero esercizio del linguaggio. Non si scrive mai in poltrona e con i caloriferi accesi. Nemmeno adesso, che ho una finestra davanti dove soffia il vento, e avverto i rari passi sulla scala a chiocciola che mi riportano qui. Dove ogni nuova parola è un'esperienza di sconfitta trionfale.
La rottura tragica dell'osso del collo e del polso.

sabato 23 luglio 2011

Il cattivo tempo (dis-continua) Bozza

Il giornale disegnato rimase sul tavolo. Oriella ritornò molto tardi quella notte. Dalla mia stanza vedevo la luce arancio scuro della cucina e la gobba delle sue ombre che si curvavano sulla carta. Spaventose, pensavo. Adesso immaginando:
lo sforzo dello sguardo e la reazione alla profanazione del suo planetario perverso cartaceo.
Potrebbe essere pericoloso, dicevo ad Elisabetta, che mi allungava una mano fredda sotto la maglietta, e affannava. Glielo hai preso dal cassetto, non lo aveva dimenticato, dimmi la verità! 
La sua gamba di legno come icona di un annuncio personale straordinario e straziato. Forse sarebbe stato il suo punto forte, oggetto contundente con cui difendersi. Sarebbe bello mettere il cucchiaio dentro un girone così oscuro e caramellato. E Oriella, che cosa avrebbe mai pensato nel sentirsi scoperta, dico da entrambi, faceva ElisAchab. Me la presta poi una minigonna, secondo te? L'altro pomeriggio mi ha prestato le scarpe da pallacanestro, da portare senza i lacci. Sul polpaccio nudo i riflessi in ebano del legno dolce.

Ti prego,
tu lo sai che
non è il caso.


Dopo un concerto
ha scopato con le scarpe 
da basket nascoste 
sotto l'abito da sera...

Ma tu sei sicura
di questo nick name?

Non è un nick name!
Coi fermo posta
la canzone
è un'altra.

Dimmi qualcosa,
le chiedevo ancora,
nello (s)tramonto della notte.

Ho le ossa
tutte rotte.
Prendimi un po'
le sigarette.

Tutto qui?,
le facevo,
e così
dalla cucina
i battiti della
farmarpista
scomparsa
che si avvicina:
(dopo l'acquisto di quel giornale era un'altra. 
Eravamo altri anche noi. 
Come la gobba 
delle sue ombre
dalla cucina, 
il battito sciatto 
dei suoi passi).

Elisabetta aveva cominciato a fumare. Era onnipotente nella nobiltà del gesto, tirando con la sua boccata di menta senza un tempo. 
Una brace, un occhio rossoardente nella notte. Quando Oriella apre la porta e le chiede del giornale. Dei cerchi colorati sugli annunci personali. Se li avesse fatti lei oppure io...guardandomi con lo sguardo pieno di vodka.
Mi presi la colpa. Le dissi che cercavo qualcosa da fare, che fosse al di là.

Al di là di cosa, poi?

Io le risposi al-di-là, separando con cura le tre parole, per non tombarmi nel guado spiritico.
Mi guardò fisso, poi scassò la bocca in una grande risata. Si buttò con le ginocchia sul letto, sfiorando la coscia quercia di ElisAchab, che assonna come un gatto, ma le sorride in sogno e le ustiona un gomito con una Capri..
Allora cominceremo insieme, diceva Oriella, a cercare qualcuno per ciascuno.
Ciascuno 
per uno di noi
un altro qualcuno.

Diverso.

Nei personali?

Tu che ne dici?

Non è roba per maiali?

Ma dài...

Mi fa un effetto strano.
Il cane alano che dormiva sul divano. 
In una gabbia sonnecchiava 
una coppia di Gibber Italicus.
Nelle sbarrette era infilzato
un tocchettino rosa di torta.
Elisabetta poi ci prese per una mano.
Nel primo sonno pareva come morta.

venerdì 22 luglio 2011

Il cattivo tempo: continua. (Cerchiatura di annunci personali)

L'arpa fu trasferita in deposito a notte fonda. I due trasportatori ringraziarono per la cena. Scesero abbracciando lo strumento ubriachi fradici e con un cosciotto dorato di pollo e  ancora grondante di olio da un taschino della tuta rossa. Elisabetta sembrava rapita e commossa dal rapimento e dalla commozione di Oriella, ancora di più della stessa Oriella verso il funerale della sua arpa. Un funerale provvisorio, le dicevo, ma era pur sempre un funerale impegnato.
Attenzione al gradino terzo, gridava Oriella. Attenti anche all'angolo retto, intimava sporgendosi con tutto il corpo, ai due facchini brilli, nei passi baluginanti e nelle risate lontane, che sembravano fremere con i pizzicati dalle coperte.
Ritornammo a letto stremati. Oriella rimase in piedi per tutta la notte. A guardare la strada nella pioggia, che si era fatta lucida e come nuova, e a bere i fondi dei bicchieri sporchi lasciati a tavola. Il mattino seguente non disse quasi una parola. Si rifece solo lo smalto verde, dello stesso colore mistico dell'occhio nascente, e scese a comprare una rivista per cuori solitari. Elisabetta verso sera mise gli occhiali e cominciò a frugare negli appunti personali della farm ex arpista, che aveva cerchiato di rosso alcuni annunci, prima di uscire di nuovo; altri di nero e altri ancora di verde monastero. Dicevo ad Elisabetta che non era giusto frugare nelle sfere intime delle persone e nel loro dolore erotico, ma Elisabetta diceva che non trovava dissonanze nella sua curiosità al segreto, e così prese a cerchiare altri annunci con altre tinte di pennarelli e pastelli. Prese anche i pastelli a cera, e cercò un colore personale e doloroso, che trafiggesse il suo stile di cerchiato rendendolo ben distinguibile dall'altro. Oriella quella sera sarebbe rientrata molto più tardi. Era a un concerto barocco. Aveva lasciato un messaggio sulla lavagna, del tutto sgrammaticato, in cui invitava entrambi a raggiungerla in teatro. Ma eravamo davvero a pezzi. E poi gli annunci per cuori solitari avevano il loro fascino sonoro di arpeggio infinito. Elisabetta mi chiedeva che cosa doveva scrivere o dire a uno sconosciuto a proposito della sua gamba di legno, e se era di cattivo gusto siglare la sua casella di (in)fermo posta con ElisAchab.
Non le risposi. Guardavo dalla finestra un lampione infrangersi, per il colpo di una sassata. Misteriosa. Ordinammo due ripieni e del pesce lirico di Mar Baltico per cena.

mercoledì 20 luglio 2011

Il cattivo tempo (stralci quotidiani):

Da quella sera, da quella sera della comparsa dell'occhio di vetro al centro dell'ascella della farmarpista, sono avvenuti diversi cambiamenti o mutazioni. Elisabetta continua a passare la cera, come se tutte le sere vi fossero ospiti. Avrebbe ordinato una gamba nuova, di osso di megattera, per cercare alternative al rovere, che si usa per i vini rossi e da meditazione. La farmarpista è stata due ore al telefono, con un cugino biologo e anche mistico. Avrebbe una profonda nostalgia di radersi, nell'incavo nudo dove adesso potrebbe schioccare un nuovo sguardo verde. Si sarebbe prescritta qualcosa per il bruciore notturno. Elisabetta ha cercato di calmarla, con le canzoni notturne della tele francese. Tra l'altro la farmarpista si è scoperta sonnambula. La convivenza diventa difficile. Si dovrebbe intervenire, dicevo con Elisabetta, in un momento di pace. Durante le inconsapevoli alzate notturne, vaga per il nuovo appartamento come un fantasma, avvolta nelle lenzuola ancora annodate alle sue coscine tese, e poi comincia a suonare il suo strumento con un tocco languido e appena celtico. L'ultima volta che ci svegliò con l'arpeggio infinito, nel cuore della notte, mi precipitai, credendo che Elisabetta avesse lasciato la radio o la tele accesa. Invece era un Debussy, invecchiato e trafitto dalla nebbia. Oriella suonava come un'ossessa. Gli occhi aperti, anche quello che le era spuntato dall'ascella emetteva una luce lattiginosa e modificava le fioriture impressioniste degli accordi pizzicati. Era immersa in un lago di orina, che avrebbe devastato il parquet, più del cane alano. Non potevamo avvicinarci, nemmeno Elisabetta, che adesso aveva preso a fare l'analista privata per Oriella, e mi diceva che quei segnali avrebbero avuto uno sfondo sessuale represso o qualcosa del genere, altrimenti la colpa era dello stinco di porco alla birra rossa, che aveva inghiottito la sera prima. In ogni caso, diceva Elisabetta, dobbiamo parlare con qualcuno della sua famiglia. E io le ripetevo che Elisabetta era ancora più sola di noi. Ma come più sola, faceva Elisabetta. I colleghi della farmacia, e il cugino biologo e gli amici del conservatorio e dell'orchestra sinfonica o del convitto di anziani? Che cosa mi dici? Se ti dicessi che non esiste nessuno di tutti questi? Se te lo dicessi, tu mi crederesti?
Vuoi dire, mi fa Elisabetta, tremando con la gamba di legno, che svetta dal pantoloncino rosso del pigiama, vuoi dire che al mondo ha soltanto noi due? Credo di sì, le rispondo, senza guardarla.
Ritornando a letto, mi accorgo che dal cuscino di Elisabetta spunta una pagina giallastra di un giornaletto sporco, comprato già usato. Lo estraggo, senza farmi vedere. Al suo retro c'è una poesia di Octavio Paz, scritta di fretta e in corsivo con una penna verde. 
Elisabetta ritornerà a dormire dopo qualche arpeggio. Oriella la farmarpista rimase a suonare per altri minuti. Il mattino dopo facemmo colazione insieme, come al solito. Come se non fosse accaduto nulla. Dopo un'ora vennero a ritirare l'arpa. L'aveva impegnata. Mi chiese di farle da garante per un prestito, perché non aveva più un soldo bucato. Elisabetta mi guardò  e mi calciò lo stinco con la punta legnosa dell'arto. Solo una firma, disse Oriella, mentre da fuori scoppiava un temporale, e i facchini furono costretti a rinviare l'imballaggio e il trasporto. Oriella suonò per tutti un ultimo brano, quando eravamo tutti a pezzi e commossi. Cercai da qualche parte il mio libretto di assegni, ma Elisabetta mi seguiva e mi diceva di lasciarla morire. Che dovevo pensare prima di tutto alla sua gamba. La pioggia aumentava. Uno dei due facchini ebbe un attacco di tosse nervosa. Una volta calmatosi, ci disse che era per un suo nipotino, di pochi anni, massacrato a calci da suo fratello per essere caduto dalla bici.
E adesso?, gli chiedeva Elisabetta. Ma il tipo non rispose, continuò a tossire, e il suo collega, grasso e sudato, ci intimava di tacere, con un dito lungo e sudato sul naso.
Elisabetta preparò un tropical. Per tutti. Un uccello silvestre scatarrava nella pioggia, come se sfiumasse dalle viscere di un bosco.

martedì 19 luglio 2011

Diario mistico. Da Il cattivo tempo.

Una costellazione di stelle marine. Una rotta isterica e oceanica. Cercando la flotta smarrita sott' acqua. I polpastrelli plagati dal gelo dell'immersione. Come quando gli occhi sprofondano in una distanza celeste, immaginando cosa si ascolti a quelle frequenze. Bisognerebbe fissare i polpastrelli. Se fossero viola e se a certe altezze o profondità potrebbe irrompere un sibilo spettrale, la voce al telefono di un trapassato o di un maniaco, che cerca pace nelle ombre di una notte di Natale. La solitudine di un uomo e a volte di certe esistenze è così tragicamente oceanica. Quanto lo strapiombo di una costellazione aperta. Septem Triones.
L'agguato romantico delle rotte celesti, e l'odore delle mutandine sporche di una soubrette, che crolla di sonno mentre la riporti a casa, a leggere Tex Willer e Mister No, di nascosto.
Elisabetta ha rimesso l'anima, quando le ho preso l'acquario, tutto illuminato di Discus. E di altri pesciolini elettrici, dai colori sgargianti e indimenticabili. Insondabili, come il suo sguardo maturo e cavo, davanti ai gusci delle noci e alla schiuma del mare notturno, mentre fissavo la canna da surfcasting e affondavo nella sabbia umida il supporto metallico. La notte galoppava marmo nelle nari. Oriella suonava l'arpa all'aperto, in un convitto di anziani mezzi sordi, ma ispirati dalla visione dell'arpeggio infinito. Quando sgrana l'arpeggio, Oriella ha le braccia che si fanno di giada. Prima di attaccare ha preso la scossa. Da quella sera ha un'ascella tutta di tinta indaco e ha perso la grazia del pelo. Da quel solo umido incavo le è spuntato un occhio di vetro.  Guarda la malinconia delle giacche usate da uomo, con i gomiti lisi. Il suo pubblico. Una caramella sputata in un piatto. Dopo la sua performance attaccavano i mondiali. C'era una semifinale importante. Portammo via l'arpa, a spalle, mentre i televisori caricavano bagliori ed Elisabetta inciampava, ridendo a dirotto. La sua gamba tragica nella minigonna, la faceva atterrare sulla porzione di fettuccine appena sputata da un cocker spaniel.
Eravamo così tragici e felici. Parcheggiammo l'arpa in un garage, e tifammo da incompetenti, esultando per il goal della squadra avversaria. Durante il cross si aprivano bitter, a tempo con le alzate svogliate di terra. Con occhi torvi e minacciosi, ce la demmo a gambe. 
A notte fonda tornammo a piedi, affamati e con l'odore del fumo addosso. Elisabetta e Oriella camminavano a braccetto. Una vecchia suora ci invitava a cena, aveva appena preparato. Mangiammo come lupi. Ritornammo a casa felici. Sconosciuti e sconsacrati in una nuova clausura.

lunedì 18 luglio 2011

Parola e sensazione

La parola mi appartiene quanto la sensazione. La parola saetta come saetta è la sensazione. Credo che il mio rapporto con la parola scritta sia il rapporto con la sensazione o saetta, da cui la natura, la fluidità, o l'arsura di un certo segno, non necessariamente previsto e già pensato. Meglio imprevisto. L'errore è certo, ma anche l'ardore dell'istante passato. Se sincero. 

Come 
dopo
il lampo
il boato:

Non credo al potere numerico 
e matematico 
di un segno del genere, 
che non si distanzia 
da uno spasmo allo stomaco 
dopo un ricevimento 
o da una boccata d'aria 
nella notte fonda.
Non credo di essere il padrone di una bella parola o di una frase articolata, non così tanto quanto una bella donna di un ginocchio o di un sorriso importante, senza una luce (in)giusta e uno sguardo affamato che li ravvivi e li racconti. 
Non credo che un'arte si possegga in pieno, così come una bellezza o una mano addosso. In questo magma e labirinto sensitivo, mi accorgo della complessità del codice e della certezza di una ricerca senza reti.
Una frustata di fumo, senza il congegno lesto del fuoco.

domenica 17 luglio 2011

L'inenarrabile e il narrabile

L'inenarrabile. Mi ha sempre colpito il suono e l'impossibilità della parola, riletta nella spuma confortante di un contesto narrativo, in contrapposizione al suo contrario, dove sembrano prendere vita i primi incipit e gli embrioni dei racconti o dei romanzi ancora sporchi di feci e di sangue. 
Che incanto, parlare di scrittura e di narrazioni, senza scrivere nulla. Il solo sognare di farlo, anche se non lo si farà mai come lo si vorrebbe. Nessuno scrittore scrive le cose che avrebbe voluto, ma deve sottostare al graffio di una variante violenta e silente, che spesso si nasconde e diventa carne viva del suo stesso pensiero in vibrazione, insinuandosi con lentezza nell'apparenza di quello che gli appartiene. Per me è così. La scrittura è pregna di delusione e di dolore, perché è e sarà sempre più lontana dalla sensazione o dall'intento primo di stesura che mi (so)spingeva e mi soffiava negli occhi e nelle orecchie. Mi racconta della certezza di un fallimento esistenziale e antropologico, della mia vita di fronte a quello che sento e che credo di sentire, e di quello che vedo o che immagino, e che invece credo di vedere e di immaginare. Un grande numero di magia da baraccone, organizzato alle mie spalle, e quando mi volto rimane l'ombra di un filo di fumo che appanna il mio minareto. 
Ma nulla più potrà ricondurmi all'effetto profondo o illusorio del primo movente. Soltanto l'ampiezza e la profondità del percorso in itinere, potrà avvicinare di qualche passo e avvinghiare lo scritto reale al non e al mai scritto, ma ancora vivo ed esistente. Spero che mi seguiate ancora. Sono convinto di sì, almeno quelli che avranno provato lo stesso effetto di vedovanza dal cospetto primo di un certo impianto di  narrazione o di poetica, più o meno preparato e  formatosi dentro, come l'ombra rosata di un terzo polmone.
Credo che l'inenarrabile, il non scritto, immaginato vivo in quello che si scrive in inconsapevole alternativa, sia l'unica frontiera ancora sana dove spulciare un qualsiasi intento narrativo e creativo, da qualsiasi prospettiva di realtà lo si imposti e che sia sgombro dal mero esercizio ginnico e fiacco dell'imitazione. Non mi piace etichettare subito il piano di azione o di relazione con il reale, quando comincio a prendere contatti con una storia, con il suo livello, i suoi contorni ancora sfumati, il suo vago profumo. L'esplorazione e il fattore prossimale o distale con un certo livello di realtà, con il suo cuore e le sue pulsazioni vere, a volte è oscuro come un finale, una svolta improvvisa e inattesa, la comparsa di un personaggio chiave o di un evento più o meno determinante all'economia confusa del tutto o di quel certo assonnato insieme in eterna trasformazione e formazione. Il confine sarà sempre piuttosto labile. Rimane il gusto del fare e dello sfare, che darà luce e magnetismo a quello che potrebbe avvenire alla mia vita dopo essermi liberato da una torva sequenza di eventi-immagini, che scalpita nel buio ma che non dirà mai di una sua forma precisa e prevista, e che decide di volerne fino all'ultimo ancora un' altra, diversa, durante il capriccio della stesura prima e ultima, a dispetto della mia fatica. 
Forse è proprio nell'elemento inenarrabile, quello dove risiederanno le linee guida e d'ombra del costrutto migliore, dove si dovrebbe cercare la propria voce, quanto meno l'eco e l'arabesco di risonanza, e mai un assetto definitivo e compiuto che si trovi con un certo unico risultato. Appena un filo di fumo, che sporchi verso sera quel mio invisibile minareto, che già non esisterà più.

sabato 16 luglio 2011

Da "Il disabitato": breve estratto.

"Loro non se ne accorgevano, nessuno dei due. In fondo nessuno può accorgersi del vuoto assoluto di inesistenza che ti impone un altro che si ama. Si cercherà sempre di incrociare una variante, la prima possibile e disponibile. Una diversa possibilità, una responsabilità, un pretesto giustificato per prendersi un po' la colpa ed esorcizzare quella tremenda rivelazione di non esistere più per un altro, e nello scoprire di non essere mai esistiti: il che, a volte, vorrebbe dire non esistere più.".

sabato 9 luglio 2011

Mattinata calda con revisione accennata.

Mattinata calda. Il ritorno a casa mi incunea in una friggitrice, dove il fiato dalle narici schizza come l' olio.
Preparare la revisione di un testo, con la finestra aperta, quanto meno pianificarla. Stamattina, sul presto, ho abbozzato qualche linea di bic, ancora a letto, sui fogli stampati ieri sera. La revisione risente dei climi, delle ore di luce e di buio, delle ultime voci che hai sentito prima di spengere, delle prime che ti sono arrivate prima di accendere. Di quello che si sta leggendo al momento o che si è appena concluso. Dei visi che si sono incrociati. Del cibo appena masticato. Della luna. Del sole. Delle maree e della quantità di potassio ingerito.
Sono felice di potere rimandare anche di poche ore un primo esordio di bisturi sopra un certo o incerto testo. La visione autoptica dello scrittore revisore, mi costringerà alla mascherina verde. Vorrei operare, invece, a viso nudo e scoperto, con la tele accesa e un sugo di lepre che sobbalza sulla fiamma. In una casa deserta, dove suona appena un disco di Bach e dal cortile saltano sulla corda sul gioco del mondo e fischiano una cantilena gitana. O meglio: intervenire in un ambiente inesplorato e poco familiare. Con un brusio di radio straniera e senza anestesia; in un piatto fondo e fumante uno stinco di porco. Ogni intervento correttivo è una porta che si apre, a volte sulle scale di un palazzo a dieci piani ancora schiumanti di sapone, o sull'orlo eroso di un abisso senza fondo:
ma adesso mi arrendo:
proseguo, nel silenzio, il mio inutile fermento lupesco. Dovrei ululare a queste illustri sciocchezze, come a un quarto sfilzante di luna, l'inutilità di ogni movente troppo pensato e congegnato.

venerdì 8 luglio 2011

Con osservanza:

Il culto della forma. Lo spasmo del romanzare, riempie la bocca di un addetto ai lavori di scrivania. Se arrivasse una telefonata, nel momento dell'incipit o di un attacco importante, la parte in causa non avrebbe remore a dire: "per favore, sto romanzando. Non è il momento", che è come dire ho la pasta sul fuoco o un mastino napoletano che sta ingoiando un calzino.
L'impegno conclamato, la propria occupazione, che allontana dagli altri, cercando in tutti i modi di raggiungere quella sublime consistenza in grado di avvicinare ai propri passi il proprio mondo, senza muovere un dito  e una natica dalla propria sedia.
Scrivere all'aperto, da spettinati e con il viso sporco. Una scrittura senza orologi, telefoni, conteggi di battute e caricatori per cellulari. L'essere contattati e contattare, qualsiasi forma umana disponibile, che giustifichi la piena esistenza di quel momento scabroso della creazione.
Provo immensa vergogna della  mia parte che sbava e che scrive. Ho vergogna della carogna che spunta da una ginestra. Cerco la campagna sprofondata e notturna, quella non ancora descritta, circoscritta e pensata. Ancora in fibrillazione per il solo suo indefinibile esistere. E da lì che vorrei partire. Un palco con poche lampadine, e senza sedie per il pubblico. La tendina rossa dove si intravede l'asciugamano di una toilette e la torcia così malinconica della maschera che la chiude. L'applauso del cassiere, che si alza il bavero lercio e commosso, dopo il mio ultimo numero,  proiettato giusto la sera di una vigilia di Natale, quando sono tutti scintillanti e raccolti nelle loro case accese. Credo di aver scelto un giorno o una sera sbagliata per esibire la mia voce e la mia vita. 
Voglio che si parli di altro. Della mia maschera subacquea Mares, con cui ho improvvisato una sorta di gara marittima di salti nel cerchio azzurro di un salvagente, tipo leoni da circo. Un cerchio di fuoco azzurro. Una minestra colma di formiche vive e un cinema all'aperto, con il riverbero vecchio tipo del sonoro e l'odore del mare. Non provo vergogna per quello che condivido, ma ho pudore della possibilità di sentirmi felice quando qualcuno arranca e non riesce a rilassarsi. Vedo  e incontro persone molto arrese e  tese, da spezzarsi in quattro, da un momento all'altro. Come fionde grasse di ciottoli. Non penso di aver comunicato abbastanza da vivo, per riuscire a farlo  come uno stronzaccio delirante nella perfezione condizionata della sua stanza di lavoro, dove si sente imponente e flessibile. Dove finirebbe la  mia vita se la limitassi al mio linguaggio confuso, fraintendibile e contuso che adoro e non odoro? Quanto ho ascoltato della vita e dei pensieri degli altri, per permettermi il lusso di chiedere una certa attenzione, di alzare il dito e chiedere il silenzio per la mia fobica voce che stona da una tromba tenebrosa delle scale, aprendo sempre le forbici sulla ciocca di una persona sbagliata.
Le mie parole non avranno mai la forza di un calice tremante di vino,  di una telefonata improvvisa che annuncia la bellezza di una visita inattesa. Di una parlata nel buio, fino all'alba. Per fortuna esistono nemici alla mia strana chimerica attrazione romanzesca: rocambolante e maldestra. Quelli che resisteranno al tempo, ai ricordi, alle distrazioni. Le cose non pensate e non annunciate, destinate a una preferenziale incantevole corsia di sorpasso sul resto. Alle gare di sapienza. Alla considerazione che il sapere sia una forma sontuosa di avere, di possesso, con cui competere. Sono sempre più convinto di essere a mio completo disagio in questa tavolata di maestri e di maestranze. Il fantasma della noia prende corpo e sostanza, per ogni piccolo passo di danza. Non so se frappormi tra il sontuoso e il tortuoso obitorio linguistico della ribalta. Ma credo che troppo spesso mi stia esercitando sui rottami, addobbando tende rosa di seta su torrioni e calcinacci nevosi. Ma stasera provo una grande nausea per tutto. La scarpa della ballerina ha appena preso una merda, ma è ancora in piedi e ci gira intorno, come un satellite ubriaco e fuori tempo che danza senza profumi e pudori in un avanzo di lucore da cantina.
Mi sbuccio una pesca:, altrimenti son dolori.
Con osservanza,
...

sabato 2 luglio 2011

Post Scriptum: all'ultimo post

Rettificando, nel finale:
Passo e (s)chiudo.

Note e appunti di (tetra)scrittura:

Prediligo una certa ansia sentimentale, in qualsiasi possibile disfacimento di costrutti e ortodossie: scrivendo.
Una ragione emotiva alla dimensione esperienziale della parola maga. Toccare il foglio con gli occhi affondati nella variazione della luce, e cercare di essere assorbiti da una terza atmosfera, che sia superiore a quella che stacca dal balcone e che rintuona nel mio stomaco vuoto digiunato.
Impossibilità di una comunicazione emotiva, in relazione alla complessità del fattore sentimento come parola: di questo non mi preoccupo. Vernicio la mia navicella, tutti i pomeriggi, con il polso bagnato dai goccioloni, e guardo la suorina che passa con l'ombrello e il fiordifragola appena scartato e mi dice: sera, con una voce molto ordinata e pulita, da campicello nell'alba dal trenino fischiettante.
Ascoltando la vita profumata che sbava e che passa e che non potrò fermare, se non sformandola, invento il mio disastroso torrente comunicativo. Non pretendo ascolto e non dispenso che grandi mobili incertezze, inganni, forni spenti e lanterne mezze accese. Un Carnevale rauco, per comunicare quello che vedi. Chi potrà riconoscersi in quella maschera, che hai appena fatto affacciare al balconcino della stanza rossa, sull'aranceto in fiamme: quella che sputa una banana intera, mentre distillo la mia grappa dolorosa dalla stanza accanto.
Comincia il linguaggio dalla sua fine. Dal suo tragico e radioso bisogno di confondersi con altro. Il romanzato o romanzesco, pullula di luci basse. Ho paura di scottarmi con la lampadina del presepe, che ho lasciato sull'armadio, a prendere polvere e ad accogliere piccoli ragni pagani, in un concerto di zampette. E il rintocco della matita che corregge.
Potremmo comunicare attraverso una rivoluzione del codice. Criptare ma svelare, a quelli che sentono quanto possa fibrillare la parola nuova. Si dovrebbe lavorare nel sonno, o nel mezzo sogno. Almeno per attaccare la prima zampata di testo. Dimenticarsela, da sveglio, e senza suggerirsi quando si scrive. 
Prevedo un continuo azzeramento. Un ritorno al sonno vigile o alla frammentazione di un reale relativo, dal quale cerco di risucchiare un vaccino per fagiani.
Passo e chiudo.

Bozza (Il cattivo tempo)

La farmarpista aveva gli occhi sepolti nel collirio, e allattava un cagnolino con un biberon, a casa di sua madre, residuo di una cucciolata trovata sotto un palco, a Taormina, dal soprano Aldina Medusa. Il baritono era figlio di un allevatore di setter. Nell'intervallo tra gli atti, i cantanti discutevano di cimurro, di rogna demodettica e di mostre canine, e la farmarpista mi chiamava, nel tardo orario del quasi ultimo atto, chiedendomi di poter portare a casa mia uno dei cani d'opera della fioccata cucciolata – erano tutti bianchissimi. Avrei dovuto chiederlo a Elisabetta gamba di legno, ma non accennai, almeno al telefono, a grosse problematiche o permessi speciali. Durante il viaggio di ritorno, l'arpista mi chiamava commossa, dicendomi che il cane bianco aveva pisciato nell'accordatore elettronico, che adesso trasferiva tutta l'acida accordatura del suo strumento verso una quarta giusta sopra, rischiando di farle saltare una retina con una strappata bassa e maldestra di cadenzati. Quando parlava, mi diceva che aveva infilato una mano nella bocca del cucciolo e la sentiva bollente. Le chiesi la razza, mi diceva un incrocio, ma forse più un lupo. Un lupo vero. Aveva una coda doppia da frac e i denti affilati di Ezechiele. Non avrebbe danneggiato la gamba di Elisabetta. Forse un gatto soriano, probabile di sì. La sentivo diversa nel viaggio. Ma ritornò senza il cane. Lo aveva lasciato a sua madre, che era cieca dalla nascita. Peccato: Elisabetta aveva già foderato la sua gamba di legno, e preparato la cesta delle mie camicie, quella di paglia, come cuccia di prima accoglienza. Io avevo comprato il latte in offerta e cinque video lezioni di addestramento per lupi bianchi. Rimanemmo in silenzio. Durante quel fine settimana ci trasferiamo dalla madre cieca e dal suo bianco cane o forse lupo operistico. Elisabetta aiuta la farmarpista con il collirio.  Mi addormento sazio, in un soggiorno blu amalfitano, ascoltando Nicanor Zabaleta con le imposte socchiuse. Elisabetta, nel silenzio, apre una Pepsi ghiacciata in vetro. La guarda fumare dal collo, appena stappata.