venerdì 31 dicembre 2010

L'errore telefonico del 31 Dicembre

"Pronto, chi parla?".
"Volevo farti gli auguri".
"Ma chi sei?".
Silenzio
"Pronto?".
"Volevo farti solo gli auguri".
"Capisco, e ti ringrazio, ma non credo di conoscerti. Credo che tu abbia sbagliato numero".
"Io credo di conoscerti, anche se tu non lo sai".
"Mi sembra strano, e poi non capisco come hai avuto il mio numero".
"Potrei non averlo avuto, potrei avere sbagliato".
"E se hai sbagliato, come fai a dire di conoscermi?".
"La tua voce, è quella di qualcuno che conosco. Ma non perché io l'abbia già sentita. Tu credi che si conoscano solo le voci già sentite?".
"Forse, comunque non è detto che...".
"Io credo di conoscere quello che c'è oltre la tua voce".
"Ma se non ci siamo mai sentiti!".
"Non c'entra. La mia per esempio, la mia non ti dice niente?".
"Al momento, non so. Se non è uno scherzo, mi dice che sei strano".
"Solo questo?".
"È una bella voce, non cattiva. Ma, a chi dovevi chiamare?".
"Gli auguri a un collega, a uno che vive solo. Sono certo di avere sbagliato, tranne se...".
"Se?".
"Insomma, se tu fossi una sua amica, che risponde al suo telefono. Qualcosa che non so".
"Ma anche adesso rimango qualcosa che non sai. Che cosa cambierebbe?".
"Il fatto che vi sarebbero due piani differenti di ignoto. Un ignoto assoluto e un ignoto relativo".
"Questa poi...l'hai inventata adesso? Così, su due piedi?".
"Credo l'ho detta senza pensarci".
"Comunque credo che tu abbia sbagliato. Non ho niente a che vedere col tuo collega. Questo è il mio numero e ti parlo dalla mia casa".
"Allora sei un ignoto assoluto".
"È una cosa pericolosa?".
"Insomma, dipende, dipende dai punti di vista".
"Eppure che strano. Sai una cosa? Noi  due stiamo parlando sul nulla, eppure riusciamo ancora a resistere. Parlare nel vuoto, nell'ignoto...",
"...e per di più l'ultimo giorno dell'anno. Non ti fa strano?".
"A me un po' sì? E a te?".
"Credo anche a me. Sai che mi pesa abbassare?",
"Perché?".
"Perché non conosco il tuo numero. Conosco quello del mio collega. Sbagliare due volte lo stesso numero non sarebbe nemmeno così facile".
"Perché dovresti sbagliare ancora numero?".
"Non lo so, forse per risentirti. Per parlare dentro un vuoto. Non mi era mai capitato".
"Nemmeno a me".
"Nemmeno di parlare con un ignoto assoluto".
"Credo che debba chiudere, sta arrivando qualcuno".
"Allora, allora auguri",
Silenzio
"Era mia madre. Ha aperto ed è ridiscesa subito. Che strano".
"Vuol dire che possiamo ancora parlare, prima di abbassare?".
"E di cosa, ancora?".
"Non lo so, decidi tu. L'ultimo giorno dell'anno, che cosa ti va di sapere o di dire?".
"Non mi viene. Mi fa strano che tu abbia chiamato così".
"Stasera che cosa farai?".
"Non lo so, non è che abbia così tanta voglia di fare qualcosa. Tu?".
"Quello che farai tu".
"Scusa, puoi ripetere, non credo di aver capito?".
"Mi piacerebbe incontrarti, ecco. Anche se io non ti conosco".
"Che pazzia. ".
"Credi che possa ammazzarti, strangolarti, ingoiarti, farti a pezzi? Credi che...".
"Non credo niente, dico solo che è tutto così assurdo".
"Ma anche poetico".
"Poetico? Perché poetico?".
"Il fatto di essere lontani e sentirci il respiro, a me fa di poesia, e il fatto di non poterti sentire mai più".
"Tu sei una persona sola?".
"Non lo so. Che cosa significa essere una persona sola?".
"Credo il non avere nessuno, e fare i numeri a caso, per parlare o per dire parolacce o cose sconce".
"Ma io non ti sto dicendo parolacce. Hai solo una voce che mi riscalda il cuore...".
"Davvero? Dici davvero o stai giocando?".
"Dico davvero. Perché dovrei giocare. È una cosa vera, che sento".
"Sai che non me l'ha mai detta nessuno una cosa del genere?".
"Nessuno? In tutto l'anno?".
"Non solo in tutto l'anno, ma in tutta la mia vita!".
"E quanto è lunga la tua vita?".
"Abbastanza".
"Abbastanza quanto?".
"Trentasei anni".
"Bella come età. È lunga nel modo giusto. Per avere profondità e ancora freschezza".
"Senti, credo che sia arrivato il momento di salutarci. Sento un avviso di chiamata".
"Non prenderlo, ti prego. Ancora un poco".
"Perché, che cosa cambia se rimango ancora un poco?".
"Non lo so, ho paura di non risentirti più".
"Che sciocchezze dici. Come fai ad avere paura di una cosa del genere, avanti?".
"Ancora qualche minuto, poi abbasso e non sbaglio più".
"E chi ti dice che non sbagli più".
"Starò più attento".
"Starai più attento a sbagliare o a non sbagliare?".
"Io, credo che...".
"Eppure mi farebbe piacere che tu mi richiamassi. Anche a me fa un po' paura l'idea di non sentirti mai più. Di non sapere mai se tra un anno tu sia ancora vivo, se sia ancora sano, se sia ancora felice, ricco, o povero. Anche se non ti conosco e non so quanto sia lunga la tua vita".
"E allora, come si fa in questi casi?".
"A me non è mai successo, dovresti dirmelo tu".
"E se ti dessi il mio numero? Così ci pensi, e se ti manco semmai tu mi chiami?".
"Non lo so, non sono sicura. Ho ancora dei dubbi, su tutto. Credo che tu sia qualcuno, o possa essere qualcuno che sta fingendo o forse un pazzo furioso".
"Fingendo? E fingendo di cosa?".
"Un altro avviso di chiamata. Qui finisce male. Quando non li prendo sono sempre partaccioni,  specie se è mio padre che chiama da fuori".
"Allora lo prendi il mio numero, prendi un foglio di carta, così ti lascio rispondere".
"No, sto perdendo troppo tempo, non mi sembra una cosa giusta".
"Ti voglio bene...".
"Scusa?".
Silenzio,
"Ci sei, ancora, tu? Oh, almeno il tuo nome, che cosa hai fatto, sei sparito? Lo sapevo, era un dannato scherzo della malora. Anche l'ultimo giorno dell'anno".
"Sono qui. Sento di volerti bene".
"Dimmelo ancora".
"Sicura? Sei sicura che...
....................................................................................................................................................................................................................La linea cadeva all'improvviso. L'anno finì. Senza altri errori. Rimasero entrambi due incognite assolute, con qualcosa in più o in meno, nello stesso misterioso spazio sospeso tra il bene e il possibile male che potrebbe celarsi in un altro. Per sempre, e in attesa di un altro possibile errore. Che non arrivo più.
La vita a volte è così...

Niente di che

Ultimo giorno dell'anno. Che cosa potrei scrivere in un post così importante e conclusivo, ultimo barcollante convoglio? Qualcosa di banale, qualcosa a cui pensavo giusto questa mattina,  riascoltando dentro di me  alcune inflessioni e abitudini cristallizzate nel linguaggio comune, che più di una volta mi hanno colpito e mi hanno fatto riflettere. In diversi casi, quando ricevo un certo regalo da una certa qualsiasi persona, - di solito mi capita di più con gli amici- il regalo è accompagnato da una serie di frasi dette al momento della consegna, come automatismo innescato e indotto nel gesto; ma soprattutto di piccoli aggettivi ripetuti, che tentano, ancora prima che io lo apra, di sminuirne in tutti i modi il valore, qualunque esso sia, con espressioni del tipo: Luigi, credimi, è davvero una sciocchezza. È solo un pensiero, piccolissimo. È una fesseria. Tu mi perdoni, vero? Non è proprio niente, adesso vedrai. Scusami, è che non ho avuto tempo, è giusto una cosa così. Niente di che.
Così, ancora prima che io mi renda conto di quello che ho ricevuto, già si pongono le mani avanti, per trasmettermi in qualche modo un'informazione del tipo: Non ho avuto la possibilità di farti un regalo importante. Non vali un regalo importante. Non ho i soldi per farti un regalo importante. Non ho trovato il tempo per farti un regalo importante. Non ho avuto la voglia di farti un regalo importante. Non ho idea di quello che sia per te un regalo importante. Non credo che questo non sia un regalo importante,  ma  voglio che sia tu a svelarmelo, anche se io continuerò a negarlo. Non potrei dirtelo mai da me. Non è nel mio stile. E allora ti mento e tu mi sorridi lo stesso.
Quando il regalo sarà scartato, in quell'attimo qualsiasi oggetto per me sarà invece diventato già importante, e comunque non misurabile né quantificabile, per il solo fatto che qualcuno avrà pensato a me e avrà sentito di modificare una piccola parte della sua giornata per comprarmelo. Il regalo frutto di un pensiero di dedizione, rimane qualcosa di unico, e un qualcosa di unico non è più una sciocchezza; anche per il solo tempo dell'acquisto o della piccola programmazione, della strada da fare per raggiungere il negozio, delle scale mobili salite o discese, o di tutti i visi visti, incontrati, sfiorati, evitati, baciati, in quella precisa circostanza e forse soltanto per causa mia. Non capisco allora perché tendere sempre a sottrarre, e per quale strana forma di umiltà quest'ostinazione che scocca sempre così puntuale a ridimensionarne la portata.
Io penso invece che il valore di un regalo stia tutto nella profondità e nella purezza istintiva del gesto e nell'eleganza del silenzio, e del tempo sospeso e incantato che avrà diviso e  legato, per un certo frangente, chi lo ha comprato e chi lo riceve. Che sia una sciocchezza o meno, sarebbe bene chiamare le cose con il proprio nome, o altrimenti non nominarle affatto, anziché farlo con nomi strategici e artefatti, per piccole maliziose abitudini, che innescano solo piccoli rituali e congegni cerimoniosi e spesso inutili. Quando invece il valore e il controllo sensibile e adeguato, nell'utilizzo delle proprie parole, potrebbe rappresentare una forma ancora più raffinata e preziosa di regalo. Niente di che...
Buon anno a tutti.

giovedì 30 dicembre 2010

Lo scrivere male (sarà così...)

Ho letto centinaia e centinaia di libri. Libri che ho amato e che mi hanno risposto, o che ho tradito e che mi hanno amato. Che mi hanno domandato e ai quali non ho risposto. Che ho odiato e che mi hanno amato, come cani, giorni o persone vere. Non so quanto di umano ci sia in un mondo occulto di parole, eppure a volte avverto una presenza. Qualcosa tra me e la pagina, che ascolta e segue la voce della mia lettura. Ascolta l'ascolto della mia lettura e la trasmissione di quello che leggo. Traduce, amplifica, riduce, trasluce. Qualcuno che risucchia il midollo caldo dello scrittore e del lettore in uno strano impasto di colori caramellati e smerigliati, che ombrano la pagina della mia stanza e della mia esistenza argentata di quell'attimo. Ho letto libri di tutti i generi, e ho avvertito, se ben concentrato, il filtro radio di una forma viva  che si insinua, stagiona, inventa e matura, tra noi due. La solitudine di chi scrive e di chi legge. La sublimazione dell'incontro, a volte incestuoso, spirituale, misterioso. Quando il lettore diventa parte del testo, della creta, dell'inchiostro, e lo scrittore si mette in ascolto, pur sapendo che c'è qualcuno che ascolta e che insieme gli parla dalla sua lettura. E da questo strano innesto avviene qualcosa, qualcosa che rimane, e che cambia profondamente l'esperienza viva di quell'attimo. Qualsiasi scrittore al mondo, nel momento in cui è letto e scoperto in un certo modo, avvertirà qualcosa. In qualsiasi posto del mondo. Anche se morto. Succederà una frizione, un piccolo spostamento d'aria, un sensore, un radar, che legherà le due persone da qualcosa di sottile ma di dolcemente resistente. Tutto questo mi è successo, da lettore. L'ho avvertita, da lettore, la sensazione di riattivare una forma primitiva e scarna di comunicazione, di contatto. Immaginando il viso, la vita, le abitudini, i sentimenti, i capelli, il naso, gli occhi di chi scrive. Come se fossero parti vive e insostituibili dello stesso paesaggio irreale che ha dipinto e che si sta appena sciogliendo e ricomponendo nei miei occhi. Tutto questo mi è successo con una buona parte di testi che mi hanno maturato, formato e forse cambiato. In alcuni casi addirittura reinventato. Dove la bellezza della scrittura, non era che una piccola parte di un grande viaggio, molto più ampio, ricco di percorsi profondi e molto nutrienti.
Ma cosa avviene quando un testo è scritto male? Che cosa succede quando ci si trova davanti a una creatura formata, che ha la bocca e la voce, ma che non parla? Che ha gli occhi aperti e ben truccati, ma che non mi guarda? Che ha delle bellissime gambe rosate e molto atletiche e tornite, ma che non muove un solo passo verso di me, e verso nessun luogo della mia vita, paralizzando anche me insieme a loro? Che ha una bellissima mano da pianista, ma che non mi sfiora? Che cosa accade al mio tempo, ai miei occhi, al mio cuore, alle mie emozioni, quando mi trovo davanti a un testo corretto, secondo le ferree regole e le ortodossie di certa moderna esigente editoria, e mi accorgo che non c'è nulla? Chiudere un libro e interromperlo a metà o al suo inizio è un affare alquanto delittuoso. Quanto meno per la fatica o per l'amore che gli sarebbe stato riservato durante il tempo della sua gestazione.
Eppure ci sono dei momenti, in cui mi viene da riflettere a che cosa sia lo scrivere male. Vuol dire non saper scrivere? Chi non sa scrivere può davvero pubblicare qualcosa? Qualcosa deve pur fare, altrimenti nessun editore al mondo si accollerebbe il rischio e la responsabilità di concedergli uno spazio. (È davvero così?) Il non saper scrivere e lo scrivere male, saranno allora due cose diverse. Forse il non saper scrivere non può essere camuffato o contraffatto, mentre lo scrivere male può essere una certa prospettiva, angolazione personale, attitudine a certo sperimentalismo di classe, un po' come lo scrivere bene, in fondo. Si tratta di sottigliezze. E un editore potrebbe giustificare il misfatto, dicendo che il lettore in fondo non era ancora pronto per certe raffinatezze. Il capolavoro incompreso, i tempi stilistici che non collimano con il momento storico o con le mode che volteggiano e dissacrano. E che in fondo non è poi così malaccio, quando proprio non ci sono più possibilità di difenderlo. Ma come si riconosce uno scritto che merita, da un altro che è scritto male e che invece non merita? Che cosa deve succedere o non succedere di così particolare? Una questione tecnica? Una persona che non sappia scrivere e che non abbia tecnica, avrebbe lo stesso il desiderio di essere introdotta in una gabbia di leoni? Avrebbe davvero un desiderio così grande di comunicare attraverso le sue parole, pur non essendone capace? Di introdursi in questa galleria fonda di pipistrelli e di grandi sacche di umido e di buio pesto?
Ho provato a immaginare, a desiderare e ad amare qualcosa di cui non fossi capace. Vediamo un poco...che cosa proprio non so fare? Ecco, lavorare il legno, per esempio; o guidare una motocicletta di grossa cilindrata, o andare a  cavallo, verniciare per bene una barca, allevare api o scalare le montagne. Suonare il flicorno, il vibrafono, giocare a calcio, installare antenne o impianti dentari, o chissà quante altre cose. Il fatto importante è che tutto quello che ho sognato di fare nella  mia vita, è stato sempre legato a un certo seme, che era presente e quasi prossimo a schiudersi nella mia vita. E quel desiderio non era che un fiotto di terra fresca che lo avrebbe favorito. Ho desiderato qualcosa che nella sua remota ed eventuale realizzazione, avrebbe chiuso comunque un cerchio già tracciato;  aperto una porta di servizio, verso qualcosa di molto intimo che mi sbatteva dentro, come un uccello presiccio e che mi avrebbe appagato, offrendomi la possibilità di dimostrare, anche in piccolo, una mia piccola e delicata potenzialità. Quanto meno un divertimento, qualcosa che mi dà gioia, perché la amo e cerco di renderla amabile un po' anche agli altri. Ma  non ho mai lontanamente sognato di solcare una pista di gare motociclistiche, sapendo benissimo, che oltre a non piacermi, rischierei di spaccarmi la testa e le vertebre, così con l'affare delle scalate sulle montagne, delle api, che potrebbero sciamarmi dietro, e di tutto il resto. 
A questo punto sorgerebbe un altra questione. Può succedere che io creda di saper fare qualcosa che non so fare, ma senza rendermene conto? Che mi creda erroneamente capace di una mia effettiva incapacità? Che ami davvero qualcosa di cui mi  senta capace senza realmente esserlo? Potrebbe accadere qualcosa del genere a qualcuno? Potrebbe essermi successa e io non saperlo ancora, forse? D'altra parte, se nessuno sarà davvero sincero con me, quante cose che credo di saper fare bene, potrebbero essere tremendamente  imperfette, e nessuno fino adesso avrebbe trovato ancora il coraggio di dirmelo. E anche se io sapessi davvero fare quello che amo o che sogno di fare, non è detto che gli altri non possono amare qualcosa di cui non siano capaci, consapevoli o meno! Dove c'è gusto, si dice, non c'è perdenza! E allora? Allora le cose si complicano. Arriva il solito discorso sul relativismo, a condonare e a perdonare ciascun misfatto, a ridimensionare ciasun merito. Tutti fanno e possono fare tutto, l'importante e lasciare quel  segno debole, sfocato, che non faccia troppo male agli occhi, che non vada troppo a fondo e nemmeno rimanga troppo a galla. Qualcosa di tiepido e di ignoto, che rimanga al suo posto, come un rispettoso cane da salotto, anche se con il fiuto scarso e il muso asciutto. Qualcosa che non sia troppo minaccioso, ma nemmeno troppo codardo. Qualcosa di tiepido, di naturale, di neutrale. Senza essere troppo moderno e nemmeno troppo antiquato. Qualcosa che distragga e che diverta, ma che non converta e contragga verso forme troppo complesse e sofisticate. Lasciare quindi un'idea sfumata, che non impegni e non impregni troppo chi ti legge o ti regge, che non sporchi le mani. In fondo che cosa sono le belle parole e che cosa sono le brutte parole? Che cosa è una frase perfetta, un periodo impeccabile, un gran finale? Un dessert? Un dessert, quello sì che è un gran finale, ma il resto, insomma con un po' di scaltrezza chiunque può catturare lo sguardo di un lettore e farlo arrivare sveglio fino alla fine. Che cosa è un finale e un buon climax, e  allora chiediamoci anche che cosa sia una bella donna, e che cosa sia una brutta donna? Che cosa il saper fare e che cos'è l'incapacità? Sono parole, e niente di più... Devi fare soltanto una cosa che funzioni, che distragga e che  faccia vento quando fa caldo, e che faccia calore quando fa freddo, e anche se non eccelli, vedrai che l'effetto ci sarà. Il resto sono chiacchiere. Non saprai mai quello che avverrà quando le parole scritte male arriveranno da qualche parte, nessuno potrà mai condannarti a morte e per sempre. Non saprai mai quello che avverrà quando le parole scritte bene arriveranno da qualche parte, nessuno potrà osannarti a vita e per sempre. Sarai ugualmente dimenticato, è così che vanno le cose.
Ho pensato a lungo a che cosa ci sia di vero, tra una mia sensazione, un mio pregiudizio, un luogo comune. Ho chiuso gli occhi e ho trovato il coraggio di chiudere alcuni libri. Forse troppi non ho avuto nemmeno il coraggio di comprarli. Senza pentirmene, e senza farmi nemmeno troppe domande.
Forse sarò io che ancora non ci arrivo. Sarà proprio così...


mercoledì 29 dicembre 2010

Fino all'ultimo istante...

Credo che il mio atto di scrivere non abbia quasi a che fare con un'attività intellettuale. A volte non credo che abbia neanche a fare con un'attività. Non so con che cosa abbia davvero a che fare, ma so che non si limiti solo a una ginnastica di belle idee, di pose acrobatiche e burlesche, di fiammate rosse dalla bocca di un nano,  di una nevicata artificiale dal vetro di un ospedale per bambini.
Le mie parole, i miei pensieri, le mie idee, non credo che siano la mia scrittura. C'è dell'altro, che non si vede e che forse sembra eternamente invisibile, e che ha a che fare con qualcosa di molto più fisico e insieme di più oscuro e di impenetrabile. Il modo di sedermi, il senso di grande sconfitta e di impotenza davanti a quello che provo di me e davanti a me, un attimo prima di partire e di perdermi. La mia ombra, che si muta e si accorcia sul foglio, la sera tardi. L'espressione dei miei occhi, quando scendo le scale di sera da un palazzo e guardo la luce bassa da una casa sconosciuta, una stanza rossa con qualcuno che apparecchia la tavola e che forse non incontrerò mai. Il movimento del braccio che prende il quaderno raccoglitore verde, e dopo un attimo lo posa. La ricerca di una penna bic quasi scarica, lasciata tra i cuscini del mio divano, senza la quale non riesco a continuare, perché il filo di una storia dimenticata è stato interrotto dal suo stesso inchiostro. L'ansia di fare male, di sbagliare. Di fare troppo o di non fare abbastanza. Di navigare in acque troppo sicure o troppo profonde. Di affondare e di sprofondare. Il senso di vuoto e di pieno quando smetto, come ritrovarmi in un grande salone vuoto dopo una festa da ballo, con Why should i care,  che suona ancora a vuoto per accompagnare un lento di soli spettri, che scivolano tra le tende bianche sollevate dal vento. (About the song) Il desiderio. La paura del desiderio e del silenzio. Il senso soffocante di morte di alcuni pensieri. Il senso soffocante di vita di altri pensieri. La consapevolezza di essere in perenne bilico, e in preda a una maledizione, che non mi lascerà più scampo e spazio per muovermi come vorrebbero che mi muovessi, o per sperare ancora in qualcosa di buono per me, ma che è in fondo tutta la mia speranza e la mia vita. La sensazione di muovere appena le labbra e inventare canzoni, in un isituto di sordomuti, o di proiettare all'infinito ombre cinesi in un piccolo istituto di montagna per ciechi. Di girare a vuoto o nel centro esatto di un cerchio sibilante di fuoco.
Tutto questo non ha a che fare con un'attività intellettuale. Non credo che abbia neanche a che fare con un'attività. Ma è qualcosa di assolutamente inutile e paradossale, quanto fragile, che difenderò comunque in ogni caso. Fino all'ultimo istante.

martedì 28 dicembre 2010

Sulle regole del comunicare

La comunicazione a volte è una scelta, a volte capita. Non credo che capiti come uno strappo al muscolo o come una storta alla caviglia, ma è un battello a più motori, che solca e dirompe o si blocca nel bel mezzo di un canale. Un mostro azzurrastro a più braccia, tutte motrici, a volte distruttrici, in altre inceppate. Una ruota paronamica in una notte torva di stelle e di liceali muti. È molto facile sognare di comunicare il proprio sogno. Un'idea del comunicabile, del fattore più emozionabile e non solo fruibile di un'idea, di un certo impulso. Un afflato lirico, un rutto di Pepsi a tavola,  un istante prima di schioccare un ultimo o un primo bacio. Il suono, il proprio suono, immaginato come un veliero, nelle braccia aperte di un lettore amico o sconosciuto, o severo mietitore di grandi e minacciose sentenze- molto diffuso questo meccanismo dispensatorio di verità stilistiche assolute o divinatorie (vedi alcuni piccoli e rampanti giovani editori).
Quando a volte si comunica tutto quello che non si voleva dire, o che si è detto per sbaglio, in una piccola incisiva, in uno sbadiglio, nel gesto distratto di chi è altrove. Come se quello che si è detto, fosse stata la voce di un altro, venuta a intrecciarsi per caso a quello che intendevo o che sognavo di dire. Quante parole diverse, che esistono e sussistono nella stessa parola. Così quante frasi, quanti paragrafi. Quanti significati per quell'accento, o quella virgola in più o in meno. Quella sospensione. Eppure il mio codice non sembrava così oscuro. Sono partito di mattino presto, con il volto riposato, ancora fresco di un sonno profondo. Con la finestra aperta al giardino, e ho cominciato così: "Una casa bianca, poco lontana dalla riva di un lago. Non c'è ancora nessuno. Soltanto un albero di pero e un ombrello aperto. Poco vento.". Niente di più semplice, chiaro, condivisibile, attuabile. Eppure in questo luogo esiste un non luogo parallelo e l'intercapedine di un non ascolto. Quello che può accadere a questa piccola distanza, tra l'abitazione, il lago, l'albero e l'ombrello, ha possibilità di una o più dimensioni impenetrabili, trasversali  e insospettabili, per quanti siano gli alberi, gli ombrelli, le case e i laghi che qualcuno nella sua vita avrà già visto e avrà associato a qualcosa o a qualcun altro. Lo scritto inganna se associa qualcosa di troppo reale e commestibile, e ne sottrae tutto il possibile associabile, o se decide di lasciare spazio a ciascuno di leggere il proprio copione? Se mi fermassi a questa prima fotografia, qualcuno potrebbe scorgere i capelli neri di un annegato, che sbattono lungo il bordo della sponda. Qualcun altro un filo dolce di anatre che si allontana verso un cono di luce bianca. Una barchetta di carta. Un piccolo acquazzone che gonfia il cielo o una folata improvvisa di vento, che sposta l'ombrello, facendolo rotolare, chi lo vedrà puntare verso il lago, chi verso la casa. E dalla casa l'ombra di un cane levriero, di un bambino biondo, di una donna cieca, di una rondine. Non credo possibile rinunciare a tutte le possibilità. Non credo nemmeno possibile includerle tutte. Nel primo momento dell'apparizione, chi legge deve poter scorrere dentro tutte le possibilità, quelle che saranno tradite e quelle che saranno perseguite. Comincia quindi la sua funzione di scrittura nella fruizione e nella ricezione del primo gesto di vita animale ed embrionale nella pagina. Chi pretende troppa chiarezza, impianta uno steccato di recinzione tra la prima possibilità di immaginare un maglio più ampio di sequenze immaginifiche e reali. Un colore in più, a volte quello che segna di viola il cielo e il prato, di arancione la mucca e la montagna, di rosso il mare e il piccolo lago addormentato.
Quello che io cerco, durante l'attacco di un testo, è la possibilità di identificarmi, anche per una manciata di piccolissimi istanti, in un luogo che mi risuoni in qualsiasi modo: in una mia esperienza, passata o soltanto sognata in quel momento. Questo tipo di spazio e di sospensione, di solito consente un certo respiro, e non necessariamente un cedimento del ritmo di narrazione. Molti perfettini e sapientini in fatto di scrittura e di editoria, sono convinti che le pagine di un racconto, debbano seguire le regole immediate di una fiction televisiva, in cui gli accadimenti devono susseguirsi con regolari colpi di coda e sgargianti sorprese, in tal modo da non allentare la tensione, non stancare l'esigente lettore, e non lasciare lasca la vela della storia. L'immagine, a mio modesto parere, è una questione di sfocamento e di rinnovamento simultaneo, all'atto percettivo individuale. Non si può pretendere che il lettore abbia già la tavola apparecchiata, le candele accese davanti, le pietanze fumanti nei vassoi coperti, e la testa del morto di turno già inserita col cronometro, per apparire dopo il raggelante sollevamento del coperchio da parte del maggiordomo, a distanza di un  tempo regolare di azione, programmato dal secondo dialogo romantico preparatorio, organizzato ad arte per amplificare al massimo lo scoppio improvviso del raudo. Eppure una programmazione geometrica del luogo, del tempo e delle dinamiche di una certa azione, è indispensabile, ma non per fare sì che sia il lettore a dettare le regole, e trascini la scrittura sotto il regime del suo ozio, o delle sue abitudini allo zapping televisivo. È solo chi scrive che deve suggerire certe atmosfere, ma non seguendo una strategia economica di risultato e di accapparamento dell'attenzione a tutti i costi. È come la scelta di un nudo o di una trasparenza, per far sì che quel dato prodotto abbia la sua buona e adeguata risposta. Che qualcosa rimanga rappreso, attraverso la punta rosa di un capezzolo da un tessuto di raso. La comunicazione è fatta di probabilità, di soffi, di spifferi e di spettri, di cose che si sfiorano, che si scorgono, ma che ancora non si vedono. Di voci e di visi al di là di un valico, quando cala la sera e si avvicina il buio. Tra mille, qualcuna potrebbe fermarsi e dirmi di avermi sentito e capito, almeno per una sola parola, quella che sento sia stata la mia vita in quell'attimo fuggevole di scrittura. Altre no.
Lo scrittore che mi lascia intravedere nell'ombra una donna che cucina, o che si scioglie i capelli, che canta qualcosa mentre ha un piccolo fermaglio tra i denti, mi comunica una sua dimensione possibile, che potrei individuare tra quelle che mi attraggono e che mi prendono di più, o tra quelle che non mi parlano, e in questo caso non mi cantano e non mi risuonano dentro in nessun modo. È questo il rischio, ma è comunque inevitabile quando si cerca una propria voce per una propria esperienza. Una propria esperienza, se autenticamente vissuta o immaginata, non potrà mai avere vita se non attraverso la propria  voce, e non la voce suggerita da qualcun altro.
Credo che non si possa insistere nell' addestrare la scrittura alla soglia della nitidezza assoluta, eliminando ogni tessuto stilistico appena più involuto in nome della chiarezza, della matematica, senza lasciare questi tempi sospesi e appena irreali e poco riconoscibili dalle convenzioni cognitive e razionali. Senza aver paura di annunciare qualcosa con un profumo e non con un fatto.
Credo che oggi si cercano troppi fatti e pochi profumi. Troppe immagini già viste e rodate di sicura efficacia; o comunque già rievocate e masticate. Il lettore moderno non dovrà sforzarsi così di immaginare, nemmeno di leggere, di sognare, di faticare. Deve essere imbavagliato, preparato dal nodo del tovagliolo fino all'ultimo nastro di mela tagliata a regola d'arte, a uno spettacolo sicuro, logico, certo, coerente. Già visto e già gradito. 

lunedì 27 dicembre 2010

Il negro del Narciso. La terminologia tecnica del Primo Capitolo.

Ho cominciato Il Negro del Narciso, di Joseph Conrad. Oggi pomeriggio, in attesa che il libro prendesse il largo. Nel silenzio. Ho segnato i termini più tecnici di navigazione, a mo' di promemoria, quelli che hanno calcato le prime scene, in contrappunto ai  volti vinosi e marcati dei personaggi di bordo, che mano a mano comparivano.

Cassero.
Casseretto.
Boccaporto.
Paranco.
Bompresso.
Argano.
Docks.
Impavesata.
Chintz.
Trinchettina.
Cubia.
Questo è l'elenco che ricordo, quello forse appena meno comune a chi non naviga o quanto meno non abbia dimestichezza con certi affari di bordo alla Melville. Non trovo fondamentale un'esatta classificazione di tutti i termini, ma non mi dispiace darne un'infarinatura del loro significato essenziale, nelle linee più generali, tra quelli incrociati nel primo capitolo del romanzo.

Il cassero è un ponte scoperto, situato solitamente nella zona più centrale di una nave,  o centro-poppiera. Il casseretto (dim. di cassero) è anch'esso un ponte, longitudinale, ma situato più in alto, rispetto alla coperta, in modo da creare una serie di vani di accesso, adibiti solitamente ad alloggio.
Il boccaporto, è quel foro o apertura, che dal ponte di una nave, permette il passaggio verso le stive e i locali sottostanti. Un varco.
Il paranco (ant. palanco), non è altro che un aggeggio che solleva pesi, demoltiplicandone lo sforzo con l'ausilio di due bozzelli, uno fisso e l'altro mobile, muniti di alcune pulegge, in cui scorrono catene e funi di trazione.
Il bompresso è un albero che sporge da prua.
L'argano è una sorta di macchinario, deputato al sollevamento o al trascinamento di grossi pesi, costituito da un tamburo, intorno al quale è avvolta una fune che fungerà da traino diretto.
Il dock, è una zona portuale, il chintz è un particolare tessuto di cotone.
La trinchettina è una vela prodiera (di prua), bassa e interna, presente nei velieri con più fiocchi.
Infine la cubia (etim. incerta) è il foro, situato nella murata di una nave, attraverso il quale scorre la catena dell'ancora.
Dopo aver provato la forza e il sapore antico di questi termini, e poi, dopo una veloce analisi, averli rivisti intarsiati nelle prime pagine dell'opera, ho provato la sensazione di trovarmi altrove. In un luogo incantevole e sospeso di una nave nella notte, in partenza. 
Questo post lo manterrò per consultazione. Potrebbe capitarmi di fare lo stesso lavoro con qualche altro capitolo particolarmente ricco di dettagli tecnici del genere, ma non è sicuro. All'occorrenza si vedrà.


domenica 26 dicembre 2010

Equilibrio della mancanza

Mi accorgo che diverse volte compaiano o si incontrino mancanze che il tempo non riesce a medicare, o quanto meno ad attutire nella loro inevitabile frizione. Il tempo con alcuni vuoti non c'entra. I vuoti e il tempo non sempre si incontreranno. Le mancanze lacerano e non passano. Ciascuno di noi avrà la sua mancanza che lo completa, che lo disegna o lo designa. Non penso nemmeno che la lacerazione di una certa mancanza, comporti una mutilazione, una difficoltà motoria o inabilità. È uno stato dell'essere, a volte senza ragioni molto chiare e definite,  e nemmeno necessariamente inguaribile o statico solo perché il tempo non riesce a medicarlo o attutirlo. Al di là del tempo, esistono stati di reali mancanze, che diventano forme e parti di vita e di nutrimento, la cui assenza costituirebbe una mancanza maestosa, ancora più grande e minacciosa di quella provata e rievocata. Certe cose sono molto diverse dai nomi che le si danno. Come il giorno e la notte. Esistono notti piene di luce e giorni oscuri. Mancanze piene, ricche e poetiche, contro presenze vuote, nebbiose, inconsistenti.
Mi sono accorto che tra le più oscure motivazioni che mi portano a dedicare del tempo della mia vita alla scrittura e di farlo in quel certo modo in cui lo faccio, prevalga la celebrazione di una certa e vaga  soffusa mancanza, di qualcosa che non so, e che forse non saprò mai. Questo qualcosa, ancora così imperscrutabile e sospeso, mi permette di delineare dei piani alternativi a quelli prestabiliti da un criterio logico e metodico di ricerca del linguaggio e delle emozioni sottese alla forma già cosciente del discorso scritto. Così le mie parole avranno diversi piani di interazioni, quanto saranno gli impulsi interni e i piani di mancanze e di risonanza, che mi orienteranno, dissolvendomi.
A volte è mancanza dello stormo. Scrivo in cerca della rotta smarrita, deviata per errore, non sapendo se debba orientarmi puntando il senso di una costellazione, o lo stracotto al Barolo che fuma da una casa di campagna. In altri casi la scrittura lacera la mancanza di un controllo certo, la redine dal cavallo bianco, il flusso del fiume che  cattura e trascina, e dove lo scrivere e il perdersi, diventano una cosa sola. 
In altri casi è la ricerca di un luogo aperto, estivo, tra lo sfavillio del bivacco, ricco di profumi e di colori rossicci nel buio dei boschi, e lo strapiombo di una costa marittima, affollata di bambini e suorine di una grande colonia. In altri la ricerca di un luogo chiuso e isolato, senza troppi spiragli e paesaggi, ma con la giusta asciuttezza di un buon gelo che inargenti le pareti e incoraggi la fame. In tutte queste forme, più o meno sottili di mancanza, prevarrebbe alla fine, quel certo equilibrio del fattore di assenza, che spesso le trasforma e le rende come parti vive tra tutto quello che di più vivo si possiede e che ancora non manca. Orientandole verso la flebile idea, che qualcosa che non mi manchi davvero, non l'abbia nemmeno mai amata o vissuta davvero. In quel caso potrebbe non appartenermi e non mancarmi. Quindi non esserci mai stata.

sabato 25 dicembre 2010

Schizzo

La parte più interna delle festività, quella dove si placano le gesta più dirette e fiammanti della prima ondata, hanno sempre un inconfondibile sapore surreale, soprattutto verso sera, nel silenzio. Un sapore minaccioso ma al tempo stesso ristoratore, persistente.  

Neve del Natale

Neve del Natale
che scendi e non ci sei.
Mi varca lo sguardo
il tuo picco artico nel bianco.

L'ultima finestra di una casa.

Una luce svanita che ruota,
quando ne fasci esplosa
dalla slitta impazzita,
la nostalgia della mia vita.

venerdì 24 dicembre 2010

Was bin ich?

"Was" di Erich Fried, il poeta austriaco detto 'poeta dell'ubiquità'. L'ho scovata giusto ieri notte. Ero molto stanco, e frugavo tra i miei vecchi e nuovi testi, alla ricerca di  qualche stralcio letterario, più o meno illustre, con cui integrare un mio lavoro appena abbozzato, dove mi serviva un piccolo impulso che sintetizzasse e facesse chiarezza- ponendolo eventualmente come nota o citazione introduttiva- a tutta l'atmosfera e al percorso che stavo modulando nello sviluppo.
Questa poesia è capitata e captata nell'istante perfetto. La bozza già riposava, molto embrionale, ma comunque completa nella sua struttura. Due personaggi principali, rievocati da una sorta di singolare monologo, a cavallo tra la forma epistolare e la confessione interrogativa di un solitario. La tensione anaforica dell'originale: "Was bist du mir/ Was sind mir deine Finger/, -così come nell'italiano, anche se con un suono differente-, che rimane nei primi cinque versi, (ma nel terzo anticipato dalla congiunzione und: Was bist[...]/Was sind[...]/und was deine[...]), e anche negli ultimi tre: Was bist du mir?/ Was bin ich dir?/ Was bin ich?, mantiene ben salda e interessante la confidenza della seconda persona in alternanza con la prima, e con il suo luogo  illuminante di sospensione e di vuoto, ma anche di calma sobria e lunare, appena nebbiosa e vacillante. Nel testo dell'originale, si sgrana il suono e il sibilo dell'insistenza, molto più stretto e marcato, fortunato per lo stesso gioco di esse alla traduzione più flebile del Che cosa sei? dell'italiano, o del Che cosa sono?
Mi ha rapito la semplicità ma anche la stabile profondità del tocco di questo testo. Così mi ha lanciato una serie di informazioni preziose su certe dinamiche e dettagli del linguaggio comune, che adesso credo di poter effettuare sul mio testo con maggiore coerenza e consapevolezza, soprattutto in fase di rielaborazione e asciugatura. Ma  incarna soprattutto quella domanda drammaturgica particolare più che principale, del personaggio che cerca la sua identità attraverso la perdita in un altro, in fuga o alla ricerca di un'assenza. Un affare molto stimolante e misterioso, che da sempre mi ha rapito e incuriosito.
Riporto l'intera poesia Was? Che cosa?, di Erich Fried:

Che cosa sei per me?
Che cosa sono per me le tue dita
e che cosa le tue labbra?
Che cos'è per me il suono della tua voce?
Che cos'è per me il tuo odore
prima del nostro abbraccio
e il tuo profumo
nel nostro abbraccio
e dopo?

Che cosa sei per me?
Che cosa sono per te?
Che cosa sono?

giovedì 23 dicembre 2010

È molto tardi

È molto tardi. Suona una sirena. Potrei spegnere, ma qualcosa mi intrattiene. In questo qualcosa si cela l'istinto, l'impulso di definirmi, perdermi o destrutturarmi attraverso le mie parole. Vorrei dei momenti come questo, di silenzio colmo, anche se è stato interrotto, in cui riuscire a scorgere il segnale, l'invito ad accendere una parola, una frase, un periodo, un paragrafo, come  un'ultima candela in un black out. Che cosa mi fa continuare? Che cosa mi fa interrompere? Un contatto con la parte di me che esegue, e con la stessa parte di me che impartisce l'ordine o l'invito alla scoperta del viaggio. Sarebbe bello continuare un percorso tra questi ruoli non ancora ben definiti, di ascolto e di esecuzione, da un lato, e di invito e molestia, dall'altro. E al di là di entrambi, individuare un terzo suono, e la sua estensione nell'aria o sull'acqua. Adesso sento degli spari. Potrei semplicemente limitarmi a tradurre tutto quello che avviene e che la mia mente registra, di assolutamente reale e presente, e andare avanti così all'infinito. Quando non accade nulla, scrivere di quel nulla. Di quello che suona, che cela o che non suona. Quando accade qualcosa, descriverlo, con la massima nitidezza del suo nudo. Senza interferire. Quasi come se il tutto non mi riguardasse, o non avvenisse a me e attraverso di me. Sentire, a volte, non vuol dire necessariamente esserci, e parlare o gridare di quello che si è sentito. A volte il suono, nella sua naturale estensione, è più importante di chi lo sente e lo traduce. Vale e si completa da sé, senza intrepretarlo, sublimarlo, rettificarlo. Far risuonare troppo oltre il semplice suono accaduto, comporta la stenosi di una seconda barriera sonora, che si frappone alla prima, e crea un cluster troppo movimentato e increspato. Come l'acqua di un lago dopo un sasso. Ha una cattiva vibrazione, non risente del registro armonico della sua prima risonanza. È una tonalità avara, opaca. Se invece vado a dormire e lo lascio tuonare, forse quello stesso suono parlerà di me.
l.s.

mercoledì 22 dicembre 2010

Varianti e costanti di percorso

Cerco continue varianti al percorso. Sono parte della mia strada, se non la mia strada. Non credo nemmeno di cercarle. Penso solo che esse accadano, forse perché evocate da qualcos'altro. Mi limito ad accettarle, o quanto meno a scrutarle da diversi punti. In questo caso, mi sono accorto di prediligere le strutture compatte e relativamente organizzate, rispetto al farraginoso accumulo di appunti. Forse perché ho la vaga sensazione, che l' appunto sia qualcosa di troppo sospeso e indefinito, per lasciare intravedere la dorsale di un certo progetto, per rassicurare l'eventuale lettore o fantomatico e fantasmico editore. E invece in una recente scorsa ai miei appunti, ho riconosciuto una certa imperscutabile libertà, una chiarezza e una coerenza, molto più vicine a una successiva possibile forma composta, anziché quelle già rigidamente individuate in una loro destinazione. Credo di dover nutrire i passi in queste due strade, senza trascurarne nessuna a vantaggio di un'altra. Le costanti e le varianti.
Ho diversi testi, finiti e rettificati- "L'azzurro della notte", dopo una solida seduta di revisione, lo vorrei inserire in una collana di audio books, giusto per dargli una certa visibilità e testarne la grana nel sonoro. Ho ultimato due racconti di genere noir. Uno già spedito, e l'altro, dichiaratamente horror, per la rassegna primaverile dedicata alla narrativa horror "Il cerchio capovolto". Sto rispolverando un testo teatrale, con limite tassativo di battute,  e dovrò decidere in questi giorni se proporlo o meno. Avrei tempo fino al 15 gennaio, per una prima selezione. Credo che tra queste prossime piccole tappe, ci sia lo spazio per disarticolare, per muoversi senza un movente diretto, definito, per scalpitare a vuoto e lanciare un po' di buona terra negli occhi, anziché potare i roseti del vicino. Lo trovo molto utile soprattutto se destabilizza e mi allontana da troppe certezze. A volte cerco davvero la possibillità di brancolare e di non saperne, o ancora meno degli altri, per partire da un nuovo contesto. La trovo una delle condizioni più interessanti di scrittura e di crescita. Anche se si cercano e si sfornano metodi per creare scrittori spediti, funzionali, brillanti e fluenti, io cerco la strada opposta. A volte ho il bisogno di mischiare le carte, di far crollare il castello per avere un po' di luce. A volte sogno di non scrivere più un solo rigo per mesi. Di abbandonare qualsiasi volontà verso qualsiasi tensione progettuale. O di dedicarmi a pochissimi momenti al giorno, al massimo due, tre parole, da coltivare al massimo della loro intensità e possibile estensione.
Vorrei non sapere quello che scriverò domani, nemmeno se continuerò più a farlo. Sarebbe una fase molto più importante. Un punto di arrivo e di non ritorno.
l.s.

martedì 21 dicembre 2010

Il compleanno

Stasera la mia città straripa di pedoni, luminarie, visi affascinanti ben truccati, e affaticati dall'ansia prefestiva. In questi giorni si ha una strana fretta addosso, anche se il tempo disponibile è sufficiente per fare tutto e spesso ti avanza ancora. È una fretta fisiologica, senza un movente preciso, come alcuni dei più inspiegabili delitti, o solo frutto di un contagio da suggestione. Sono capitato anche io  nel frastuono, perché mio nipote di cinque anni ha dimenticato un suo guantino sinistro e una pallina magica a casa mia, da Domenica. Così mi è toccato restituire i reperti, prendere un tè e scoprire che rischiava di rinunciare a un compleanno di un suo coetaneo per ragioni tecniche e organizzative. Dopo una serie di rapide valutazioni, mi sono trovato l'ultima speranza possibile per garantirgli parte di un tardo pomeriggio insieme ai suoi compagni di classe. Avevo dei problemi e la neve in tasca, perché stasera avrei dovuto ultimare delle faccende che forse non avrei avuto modo di rimandare. Ma la sua implorazione ha scardinato il tempo e mi ha convinto. Non era vestito così elegante, di certo non per un compleanno, ma quando si è accorto che potevo accompagnarlo, si è trasformato in un aereo a reazione e ha cominciato a darsi da fare come un adulto, senza badare a premunirsi per il suo aspetto- aveva le scarpette da ginnastica e una sorta di tuta blu e rossa- ma soltanto nella ricerca spasmodica del suo giubbino azzurro.  Solo quando eravamo sulle scale e lo vedevo precipitarsi di gioia verso la sua prossima meta, mi accorgevo di quanto male gli avrei fatto se avessi dato importanza ai miei piccoli affari, facendogli rinunciare alla festa con i suoi amici.
Un bambino non sa ancora bene che cosa sia il tempo, cosa sia una scadenza o cosa siano una serie di incombenze, che potrebbero accumularsi e schiacciarti se non gestite. Ma in questo caso, se ben gestite, avrebbero schiacciato lui. Un bambino, come lui in quel momento, non sapeva, ma scendeva le scale nella mia mano, e aveva già i visi dei compagni nei suoi occhi e nel cuore, e poi niente altro. Dopo qualche istante lo catapulto al primo piano di un bel palazzo. Dalla strada si vedevano i festoni  rossi e argentati, e le pareti verdi e le voci sempre più vicine, per ogni gradino in salita. Ho sentito che mi rallentava accanto, forse provava paura. Ma una volta dentro, mi ha lasciato nelle mani il suo minuscolo giubbino ed è svanito, come un' anguilla. Non l'ho più visto. Ho visto gli occhi dei suoi compagni della prima elementare, accendersi di sopresa, perché ormai non lo aspettavano più. Era l'ultimo arrivato, ma adesso era diventato un po' anche il primo. 
l.s.

Ipotesi di un azzeramento

Mi tenta la sola idea di un azzeramento, di una nuova partenza. Anche il pensarla una cosa del genere richiede del coraggio, ma esistono, e spesso le avverto molto vive e fervide, delle fasi in cui si vorrebbe riprendere il capo del filo, con una modalità diversa, partendo da nuovi presupposti e approcci, e senza necessariamente tradire quello che è stato già fatto o già detto. Nell'alveo della scrittura, avverto quest'ansia tentacolare, la piovra di un vizio molto raffinato, a volte borghese, forse per certi misfatti stilistici troppo ostentati, certe insistenze o vezzi, che sono molto più dentro quello che vorrei diventare e vorrei fare, anziché limitarsi a quel poco che sono e che respiro dal vero della mia vita. Credo che in qualsiasi impulso creativo, dai più elementari ai più sofisticati, si intrecci questo strano maglio di rete, dove compare un'architettura immaginaria e invisibile, ma già predisposta per essere abitata, e lucidata ancora prima di accumulare polvere. Così può avvenire che molti dei percorsi o dei tentativi di scrittura si attorciglino attorno a un mondo in apparenza incantato, ma dall'altra parte ferocemente razionale e studiato; molto povero di sensazioni e di istanti captati, ma costellato soltanto da un'idea smorzata e artefatta di quello che si vorrebbe essere attraverso di lui, e non di altro. Un fine, un semplice mezzo, e non un luogo autonomo, temperato dalla particolarità del mio clima di quell'istante. Scrivere bene è soprattutto la scelta di un rischio, e non solo la conoscenza di una tecnica, di un meccanismo impeccabile, o di un accumulo mirato di informazioni da condividere o da potenziare. Scrivere bene è forse scrivere di tutto quello che non so. (A questo punto mi aggrappo alle bellissime parole del convegno di Cistelecan, che cercherò di riprendere più avanti).
La ricerca di uno stile, o forse di certi climi di perfezione e di purezza che appartengono a una certa forma o direzione e propensione del testo, nasce spesso da presupposti sbagliati, oppure artefatti, artificiosi, o per aver avvertito a orecchio certe strutture che camminano e si reggono in piedi da sole, ignorando del tutto quella che è la loro storia, le loro pregresse peculiarità di chi le vive, e che di certo non mi appartengono, perché quello che le scrive  non sono io. Anche l'attitudine alla proiezione o al sogno, che potrebbe essere una grande opportunità di scoperta e di rinascita, è molto spesso racchiusa e accartocciata in questa stessa tensione, dallo scrigno di un'idea troppo stabile e ferma, molte volte esterna a chi scrive, e impiantata dentro il proprio percorso, come un pilota automatico, che illustra le tappe del viaggio e lascia lavorare all'infinito la scatola nera della sua musica d'aria. Ma io allora dove sono? In tutto questo c'è ancora spazio, e che senso avrebbe la mia parola in questo spazio? A volte mi sento diverso e vacillante, da un'attimo a un altro, sento già cose diverse da quelle sentite un istante prima, e così le stesse cose che ho scritto e che ho vissuto e che ho amato, brillano di colpo sotto una luna nuova, in una stagione informe, e in certi momenti di particolare consapevolezza, mi accorgo di essere lontano anni luce dal luogo dove credevo di stare, scoprendo così di non aver tradotto di quello che davvero sentivo, ma di aver intessuto un arazzo di un'idea astratta ma già praticata e usata di sentito, e non di una sensazione di puro vissuto o captato. 
Ho pensato a lungo alle parole di Alexandru Cistelecan, sulla sofferenza doppia e originaria delle parole adatte che mancano, sulla gioia e sul dolore simultanei della parola trovata, sulla tensione di chi ancora non possiede la sua parola. L'estro e il dolore della ricerca, è parte della sua vita, delle sue radici. La sofferenza della parola cercata è la sofferenza dell'essere. Lo scrivere e il parlare di tutto ciò che non si sa. Il mistero dell'espressione. Alcuni suoi spunti mi portano a rimettere tutto in gioco e in discussione, e forse solo allora mi sento vivo, specie in questo limbo di disagio, di contraddizioni, di piccole frizioni e vuoti  d'aria. L'idea di un azzeramento e di una ripartenza, potrebbe viversi e poi adempiersi, in tante diverse modalità, e non soltanto legate alla diversa dinamica di un gesto, di una consuetudine, di un'azione da purificare o da rettificare, ma nell'allentare e abbandonarsi, anche per poco, al meccanismo puro percettivo, cercando di dimenticare quello che si vuole o  che si immagina sia più bello o più giusto da dire, a favore di tutto quello che non si riesce ancora a dire, ma che forse si sente e brucia più fuoco di altre presunte verità più immediate, comode e alla portata. Il gesto di scrivere sulle punte, nel pieno di uno spasmo, di uno sforzo per raggiungere un ramo, è proprio l'immagine della consonanza e della risonanza corporea che avverto più vicina alla mia concezione dell'insieme, sia in poesia che in tutta la letteratura. Credo ancora nella semplicità, nell'immediatezza del flusso, del pensiero. Sono il primo a condannare l'eccessivo esercizio di raziocinio e la strategia eccessiva utilizzata in un testo in formazione, ma avverto anche il rischio di cadere facilmente vittima di un automatismo indotto, dove si segue sempre lo stesso flusso e non si entra mai nel vivo della parola prima, del tipo di suono e di segno, come diceva con grande forza Cistelecan: il segno di chi sta in prima elementare, che si articola in disegno, in significato, in gesto motorio e dinamico. Vorrei che dietro una parola o qualsiasi tipo di percorso esperienziale vissuto attraverso gli strumenti del mio linguaggio, si celi una certa voce, che cambi, si stagioni, sbagli, si annienti, si ricompatti e si maturi con la mia vita, e non con l'idea di un effetto generale  di una parte forse già morta e passata, o addirittura mai vissuta della mia vita. Credo che l'emozione e tutti i sedimenti di vita conscia e inconscia, siano la mia vita e anche le mie parole sono parte e insieme anche non parte di lei. Sarebbe bello, un giorno qualsiasi, ricominciare da zero con una parola nuova e antica, che mi anticipa e mi sorprende, che è avanti e indietro al mio gesto espressivo improvviso, anche se formalmente errato, goffo o manierista. Ma che soprattutto nasca da una mia esperienza sensitiva diretta e poco ragionata o addestrata, che rimanga di una bellezza selvatica e pura, anziché troppo istruita, metodica e artificiosa. Sarà una speranza, o qualcosa di più o di meno. Ma sarà comunque una strada.
l.s.

lunedì 20 dicembre 2010

Sul significato delle parole

Sul significato delle parole. Non credo che sia possibile avere sempre il controllo assoluto sul territorio del linguaggio, in particolar modo sul significato di alcune parole, molto rare, a volte mai sentite, che in diversi momenti hanno costellato diverse pagine di diversi testi. La cosa più insolita è che, pur non conoscendo o non ricordando il loro significato, il senso e il contesto generale del passaggio, fluisce quasi sempre senza sforzo, come se lo stesso termine trovasse una sua consonanza o fosse misteriosamente svelato a livello induttivo da un altro più chiaro e familiare. Non è sempre così, ma l'uso del vocabolario, cerco di relegarlo sempre a situazioni estreme, e cerco sempre di seguire un certo fiuto  nell'organizzazione di tutto il periodo e del suo senso, quanto meno cercando di individuare le intenzioni e i punti di luce fondamentali innescati dall'autore. Non credo, infatti, che attraverso il vocabolario, certi significati vadano a intrappolarsi in una casella specifica della memoria, pronta e ben oleata per aprire il suo sportellino e per scattare e illuminarsi al momento opportuno. La volta successiva, anche dopo  un'ampia consultazione, ritornerebbero gli stessi dubbi e le stesse indecisioni sulla stessa parola.
Credo così che vi siano diversi passaggi di testi molto scorrevoli, dove però, se qualcuno mi fermasse e mi chiedesse un'analisi dettagliata e letterale, anche delle parole più semplici, non nascondo che incontrerei diversi vacillamenti, o quanto meno rallentamenti riflessivi. A volte il linguaggio si articola per riflessi, per risonanze, in un ramo molto più vasto di comprensione rispetto alla disanima delle sue singole parti. In qualsiasi approccio di filologia, rimarrà sempre presente il senso armonico di quella scelta mirata della parola in un certo insieme, e non soltanto la funzione gelida della cellula isolata. In effetti è proprio questa sorta di immaginaria armonia che mi viene incontro, mi risolleva e mi conduce nell'atto della mia migrazione in un testo, nell'eventualità di incontri ravvicinati e particolari. A volte mi chiedo: quante saranno davvero le parole, i termini che ancora non conosco, o che non ho mai sentito? Saranno di più o di meno di quelli che conosco, che ho assimilato, che ho già sentito, e di cui posso parlare, spiegare, e interpretarli a qualcuno che me lo richieda, con un certo filo esauriente di chiarezza e di determinazione? Sono anche convinto che se dovessi contare e soffermarmi sull'effetto più frustrante dei momenti di stallo in testi di un certo rilievo letterario in cui mi imbatto, perderei occasioni molto più edificanti di crescita e di maturazione, sfuggendo il profumo aspro e selvatico dell'insieme. Esistono momenti di analisi e momenti di sintesi ispirata rispetto a uno scritto. Anche quando scrivo, pur cercando di comunicare e di semplificare quanto più è possibile la natura e la forma dei miei concetti, mi capita di imbattermi in termini che in quel momento rimangono insostituibili, e che hanno quella particolare grana e quel tale suono, da non trovare possibilità alternative e immediate di sostituzione, pur nella loro diabolica complessità o tortuosa possibile bellezza. Per cui in quel caso li includo e continuo. In un secondo momento, a mente più fresca, farò le mie scelte in merito.
È pur vero che anche nel linguaggio comune di tutti i giorni, ci si può trovare di fronte a un interlocutore sagace o particolarmente smaliziato, o a volte anche idiota- anche questa terza possibilità è contemplabile-,  che organizza un suo discorso fatto di trappole e di continue involuzioni, usando a sbafo termini ostici,  poco comuni o incomprensibili, da chiedersi a volte che cosa accadrebbe se lo si interrompesse per chiedergli: "Per favore, puoi spiegarmi che cosa volevi dire?", o direttamente: "Che cosa significa?". È molto probabile che l'interlocutore in questione, possa trovarsi piuttosto spiazzato, o anche inorgoglito di aver steso e stordito il suo ignaro avversario. O forse potrebbe anche non  aspettarsi  di essere così superiore all'altro,  e in quel caso il suo tipo di linguaggio, sarebbe mirato unicamente a dimostrare una certa presunta superiorità, essendo ben certo che chiunque avesse finto di conoscere a perfezione i significati di ogni sua singola parola,  non si sarebbe mai azzardato a chiederne il significato. Il gioco, in quel caso andrebbe avanti senza grossi rischi all'infinito, ma ottenendo l'assenza più assoluta di ogni forma elementare di comunicazione.
Ma il divertente è quando egli stesso, avendo utilizzato termini artificiosi e quasi in sequenza automatica, tradisca di non conoscerne minimamente l'ombra del significato. A quel punto la situazione si ribalterebbe, e quel piccolo ma umile approccio imbarazzante, da parte dell'ascoltatore all'apparenza sprovveduto, diventerebbe così un gran colpo da maestro e di grazia, al quale il malcapitato oratore non riuscirebbe a sottrarsi. È probabile che in un prossimo incontro, darebbe un'energica potatura al suo stile e alla sontuosità del suo vocabolario, quanto meno per navigare in acque sicure e poco profonde.
Buona settimana.
l.s. 

domenica 19 dicembre 2010

Punti di vista (Buona fortuna, dottor Max)

Che cosa pensa di conoscere più di me, per venirmi a parlare in questo tono?

Mi perdoni, ma a quale tono allude. Non credo di parlare a toni.

Insomma, adesso non finga di non capire. La sua arroganza, per le sue vampate surrealiste, che crede così uniche e raffinate da dover convincere a tutti i costi tutti i malcapitati.

Forse i...capitati. Lasci le dinamiche successive agli eventi che seguiranno.

Mi scusi?

Dico, se lei dice malcapitati, anticipa una situazione e un contesto che non è in grado di prevedere, son chiaro?

Insomma, lei viene qui, bussa, entra e comincia a farmi anche la morale. Vuole forse insegnarmi che cosa sia la letteratura? Mi dica se sto sbagliando!

Potrebbe sbagliarsi o potrebbe avere ragione. Non sta a me giudicarlo. Da questo punto di vista sono coerente, non tiro ancora le somme.

E rispetto a che cosa si definirebbe coerente rispetto a me, sentiamo? Pensa che io abbia tempo da perdere con tipi così logorroici, e per giunta così estrosi, o meglio disastrosi e grafomani? Ma lo sa che l'incipit che lei mi ha inviato, dura più di un romanzo breve?

Mi dispiace, ma putroppo io certi confini e certi parametri non li conosco e neppure mi interessa conoscerli. Non ho idea di quanto duri un romanzo breve, forse posso dirle quanto duri un romanzo greve, lo avverto molto più probabile. Ma questo sarà di sicuro un mio limite, lo ammetto. Resta il fatto che per me è un incipit. L'incipit non è un'unità di misura. È un attacco pulito, inconfondibile, con una sua grana, che porta la firma di un certo stile, di quel certo occhiale che si muove attraverso la narrazione. È l'impianto tonale, il cuore della storia. Almeno della mia storia.

E mi dica, se questo sarebbe il suo cuore, o come lo chiama lei, l'impianto tonale, quanto diavolo dovrebbe durare tutto quest'affare?

Basta, finisce qui. Il mio incipit è tutto il mio lavoro. Non una parola in più, non una di meno. Io so scrivere soltanto incipit. Tutte le mie storie sono incipit, dalla prima all'ultima parola.

Lei vuole scherzare, vero? Vuole farmi credere che...

Invece sono molto serio, ma, adesso mi scusi, posso farle una domanda io?

Se lo crede, prego. Faccia pure.

Insomma, di questo lungo incipit, come dice lei, quanti caratteri è riuscito a mandare giù?

Mi scusi, non la seguo.

Caratteri, quanti caratteri ha letto in tutto?

Insomma, i suoi personaggi, intende, benissimo; non saprei con precisione, ma ad essere sincero i loro caratteri non sono così in contrasto tra di loro, se è proprio questo che le interessa. Nel senso che gravitano tutti in questo limbo sospeso, dove non accade nulla di speciale e niente di pericoloso e di appassionante ti costringe a continuare e a correre con gli occhi lungo le pagine. Io non penso che i suoi personaggi abbiano dei caratteri veri e propri, mi perdoni tanta sincerità. Lo scrittore deve essere un grande ciclista, credo che sia la prima regola per riconoscere certa stoffa, e in questo caso, purtroppo...non mi sembra di riconoscerla.

Intendevo il numero dei caratteri, forse non ci siamo capiti.

Ho capito benissimo, caro signore, per chi mi ha preso! Se le ho detto che i suoi personaggi non hanno lo smalto di un carattere, questo significa che il numero dei caratteri sarà pari allo zero. E così non si possono e non si potranno mai contare. Va meglio?

Intendevo...quante battute?

Battute, adesso vuole sapere anche quante battute? Ma nessuna, naturalmente. Adesso sì che mi fa ridere, ci sta riuscendo egregiamente. I suoi dialoghi sono scialbi, svogliati, murati nelle solite convenzioni, nei luoghi comuni, nelle banalità, nell'artificio! Adesso spera addirittura che io abbia contato le battute dei suoi personaggi senza volto e senza anima? Ancora una volta dovrò deluderla,  mio caro amico, ma se almeno avesse avuto un minimo di spirito, forse le cose sarebbero andate diversamente. Ne deve fare ancora di strada, mi creda.

Non ne dubito, anche se credo che stiamo parlando di cose e di questioni diverse. Forse è questo il mio problema, non sono molto chiaro. Ha ragione lei...

Ohhh, noto che ci è arrivato anche lei. Lo vede che quando vuole, e con un minimo di lucidità, le cose prendono forma, finalmente? Mi creda, lei è una persona con delle idee, ma per la scrittura, non basta avere questo tipo di facilità al semplice pensiero che scorre e che detta,  che scorre e che detta, sembra un gioco da ragazzi, e così voi la chiamate arte. Ma deve rendersi conto che tutto questo non ha niente a che vedere con una questione artistica, altrimenti lo farebbero tutti, mi spiego? Sarebbero tutti degli artisti, quando invece...come ben saprà, o forse come ancora non saprà, questo estro selvatico necessita di tanto altro e non solo di questa strana goffa ginnastica di cui tutti vi vantate: 1000, 2000, 3000, ma che dico: 5000 parole in una sola mattina, di getto, senza fermarvi, e così credete di avere il mondo in pugno o ai vostri piedi. Ma le pare possibile una cosa del genere, avanti! La faccenda è invece molto più seria e delicata. Per creare tanti caratteri e tante battute, come lei credeva di essere riuscito a fare, addirittura da farmele contare, ci vogliono due cose fondamentali: molta, ma molta umiltà, che purtroppo in lei non mi sembra di notare- lo sa che sono sincero-, e poi, ma non di secondaria importanza, una base culturale, ma non la solita cultura scolastica, quella che scintilla di erudizione, di nozionismi, e di tanta teoria. Ma una cultura viva, dinamica, creativa, ariosa, pragmatica, quella che non si evince né dal suo dattiloscritto, né dalle ridicole pretese che mi ha esposto in questa sede, mio caro amico.

Ho capito, ho capito benissimo. D'altra parte dovevo aspettarmelo, sarebbe stato troppo facile. Credo che sia venuto il momento di salutarla. Per le bozze, se vuole?

Che cosa dice, prego?

Dico, le bozze, può anche sfoltirle o inciderle a suo gusto, per me non è un problema.

Credo di non aver capito, che cosa c'entrano le mie bozze craniche, adesso? Mi avevano garantito che dopo l'incisione si fossero riassorbite alla perfezione, ne è davvero così sicuro, signore? Venga più vicino, avanti, si vedono ancora quei brutti segni?

Credo di no. Adesso non sono più sicuro di niente, sarà stata una mia suggestione, un effetto ottico, le chiedo perdono, sono un po' stanco stasera.

Mi ha fatto prendere uno spavento. Dicevo...non era possibile, me le hanno tolte con tanta premura e attenzione, sarebbe stata una tragedia. Lo vede che lei non ha un occhio attento come dovrebbe, ma cosa fa, adesso non mi ascolta nemmeno più? Lei dice che si tratta di stanchezza?

Di stanchezza, esatto, dottor Max. Di una semplice stanchezza, per cui credo che sia venuto il momento di salutarci. Sono a pezzi.

Come vuole, allora...tanti auguri e buona fortuna.

Buona fortuna anche a lei, dottor Max.

l.s.

sabato 18 dicembre 2010

Interludio

Il processo di certa scrittura, è una consegna a un certo mistero. Immagino la toccata barocca di un interludio. Un suono antico in una stanza moderna. In un mio recente racconto ho immaginato la stanza dove si svolge una festa, con il soffitto soffocato di rosso, e la musica barocca nel sottofondo. Forse un segnale della ricerca di un rifugio. A volte mi riconsegno nelle strettoie di luoghi evitati. Come quando una notte di pochi anni fa, mi persi con la macchina e imbucai una strada nera di campagna, perché l'altra era interrotta, o forse la credevo così. Nel buio, è l'unico luogo al mondo dove risiede la mia voce, la chiave che svela un ricordo, la schiusa. Un luogo neutro. Quello di certa scrittura è un luogo interludio, rianimato da contrasti, soffusioni, scherzi ottici di lampade a olio su tavoli di piccoli ristoranti a specchiarsi come barche d'epoca sull'acqua notturna. Ma dove non c'è ancora silenzio e non c'è ancora suono.
Non esistono i confini estremi, non cerco e mai trovo la traccia determinata e ben netta di una sola strada, di una sola emozione necessariamente già provata o immaginata percorsa. Il processo è molto più oscuro e alchemico, e la mia disciplina, l'unica che riesco e che mi accorgo di perseguire, è quella di non oppormi al supplizio, alla direzione mutante del fuoco e di favorirvi un certo indisciplinato abbandono, quanto più sobrio e ispirato possibile.
Non credo che quello che pensavo di sapere e di conoscere, è esattamente quello che ho trascritto. Le parole scritte a volte hanno una loro conoscenza e una loro testimonianza motoria di vita, a volte ignota a me stesso. Le informazioni le ricevo dall'atto. Ancora prima che l'atto di scrittura si dispieghi e mi dipinga e mi lasci o tradisca il suo codice, io rinuncio alla mia assimilazione di dati, agli appunti del mio dossier, per cedergli completamente il timone, rischiando l'annegamento da naufragio. Con questa consapevolezza, mi accorgo di divorarmi da solo in un margine oscuro ma fluente, e a volte terribilmente spaventoso per i picchi e i dislivelli improvvisi di profondità. Una dinamica di tendini, radici, di intrecci boschivi, di piccoli frammenti ed elementi primari vomitati dalla piena di un fiume montano mai tracciato su nessuna carta, che dalla memoria si polverizzano e si liquefano e dopo la loro evaporazione, fin dalla prima parola incominciano l'evocazione di un profumo. La sensazione di qualcosa che è nata lontana, e che va interpretata nella sua stessa distanza e nel trascorso temporale, da quella stessa lontananza alla mia vita. A volte solo immaginata. Il rosso del mio soffitto, quello del mio racconto, forse era un blu indiano, e potrebbe diventare o rievocare un blu. La testimonianza di un colore, non è legata al processo definito di un solo pensiero, ma a tutto quello che è contenuto e che gravita al di sotto e al di là dei suoi possibili confini reali. Da tutto il non rosso e il non specificabile, scelgo l'ultima possibilità, la più lontana e remota per arrivare più vicino. Le immagini che nascono dalle parole, sono figlie di immagini madri da cui quelle stesse parole sono scaturite, e che avranno ancora mille variazioni, oscillazioni e destini, per quanti saranno i destini sensibili che le incrocieranno o che le eviteranno, passando oltre.
Anche in questo non vi sarà silenzio né suono.  È un terzo o altro luogo, una sorta di interludio sospeso, che scopro e che celebro nello stesso tempo tragico nel quale lo subisco,  lo commuovo e lo vivo.
l.s.

venerdì 17 dicembre 2010

Prospettive e contesti sinergici.

Non credo che tutti i messaggi che mi arrivano, siano imprescindibili da un dato contesto. Continuo a convincermi che tutto sia misteriosamente interconnesso, e che gli affari della mia vita cambino, mutino e si trasformino, per una serie di piccoli e sensibili accidenti, che possono comportare enormi e imprevedibili differenze, numerosi cambiamenti di condizioni. Saranno forse delle forme di suggestione? Mi sento molto suggestionabile, è possibile. È anche molto probabile che una certa suggestione possa ridefinire un approccio alla mia realtà sotto altre leggi e altre ortodossie. Ma ancora una volta sento e avverto che esiste una concertazione accurata e mirabile che si nasconde e sottende ai meccanismi percettivi, ai miei deliri più ispirati o più disperati, che a volte si sfiorano, addirittura si toccano. Ogni cosa che vedo avrà una sua coda. Partiamo dal clima, per esempio. Un certo viso mi darà certe sensazioni se lo vedrò impiantato nel gelo secco di un inverno, con le luminarie del Natale prossimo che gli luccicano addosso; altre se è nel pieno di una calura estiva, anche se attraversando lo stesso incrocio, con la  stessa grana espressiva, lo stesso colore degli occhi, lo stesso passo, lo stesso sorriso- anche se non saranno mai gli stessi, anche a distanza di un secondo, di una frazione di fotogramma l'uno dall'altro. Anche le circostanze muteranno quell'espressione e tutti i codici che cercherò di ricevere da quell'istantanea, muteranno a seconda di quello che vi accade intorno. Se vi è un uomo anziano o un bambino o un'altra donna, a passare e ad attraversare in quel momento la stessa figura centrale, dove si posa la mia attenzione, quel tipo di casuale interazione, provocherà un'oscillazione sensibile e una diversa dinamica di concentrazione sulla stessa figura rispetto al mio percorso di registrazione o modulazione di quei segnali. Un'altra figura parallela, potrebbe sostituirsi a lei se molto più bella o particolare, quindi mortificarla o sbiadirne la luminescenza del primo impatto. In un altro caso invece, la prima immagine potrebbe brillare di luce riflessa, su qualcosa che le somiglia ma che non raggiungerà lo stesso effetto; o ancora spiccare sul soggetto opposto, su di una presenza molto più opaca o meno espressiva o cantabile, che in quel determinato passaggio specifico amplifica per dissonanza la tenuta madre di quel colore, come la rifrazione di una medusa in un'immersione subacquea notturna. 
La figura è ancora la stessa, ma il suo scenario muta e condiziona le risonanze e le situazioni che si sovrapporranno  a una mia eventuale rievocazione di quella piccola esperienza. Ciascun tassello è legato all'altro, in una logica teatrale e meccanica, dalle molteplici poetiche possibilità di espansione e di suggestione. I personaggi potranno mutare attraverso l'impermanenza e la mutevolezza parallela degli scenari. Per ogni immagine una serie infinita e viscosa di imprevedibili possibilità o impossibilità, di colorarsi, riempirsi, svilirsi, arricchirsi, approfondirsi, sciogliersi, contrarsi o ritrarsi, in base a tutto quello che vi si muove o che gli muore intorno. E così potrebbe accadere che uno scenario possa prendere un sopravvento inatteso, una schiacciante supremazia e diversa destinazione sull'altro, solo perché in quell'istante, una combinazione di eventi  e di scorci sensoriali, faranno sì che la sua voce abbia il suo naturale scintillio di risonanza o di simpatia. E le figure in apparenza dominanti, più vive e interattive, potranno di colpo sciogliersi, dal loro primo smalto, in una sostanza fumogena e imprecisa, solo perché sul loro sfondo palpiterà qualcosa di più umano o forse di così disumano da cambiare improvvisamente la sequenza prospettica e i relativi tasselli del paesaggio. È nella rievocazione di un'esperienza visiva, che predomina l'incisione a mano del tempo e del cinema vivo del caso. Ogni situazione che cercherò di descrivere o in qualche modo di rievocare, risentirebbe sempre di questo sisma oscuro e occulto, che continua però a serpeggiare nei visi, nelle tensioni, nelle situazioni psicologiche, cercando di svestirle di una loro rigida collocazione strategica o precostituita, e consegnarle al gioco estremo delle possibilità, della loro intercambiabilità con l'incanto della vita che si muove e che muore quando la vedo, e che comincia a rinascermi dentro e a divorarmi vivo come una tenia, quando ne sono già più lontano, e quando forse ne scrivo, da smemorato ma soprattutto da  impressionato.
l.s.

giovedì 16 dicembre 2010

Un piccolo lume acceso alla mia vita (Riflettendo sul racconto "La compagna di classe")

Immaginare tutto racchiuso in una grande lettera, da indirizzare a qualcuno della mia  vita, che ancora non so, ma che lo sfociare del mio gesto di scrivere, rianimerà gradualmente dal suo primo possibile buio, da una cortina confusa di fumo bianco, ai primi tratti di una o di più fisionomie parallele, già viste, dimenticate o già incontrate e perdute. In fondo uno spasmo espistolare, non è poi così lontano dall'intento primario di un'espressione artistica; l'affetto intimo riposto in una lettera può ricordare un'ispirazione letteraria che senza la vita e l'istante lampeggio di qualcun altro, non avrebbe mai avuto vita o preso luce. Un'unica grande lettera cominciata nell'assenza più totale di suoni e di pensieri, in un'arnia preconcettuale, imbevuta di lune nuove  e di campagne spente; in piena notte, nel silenzio, o nelle primissime luci dell'alba, quando riesci a sentire il cristallo ghiacciato dell'aria fuso nel tuo respiro e il piccolo fruscio della penna sul foglio che a volte ti addormenta e ti risveglia, nello stesso gesto insonorizzato di una civetta delle nevi. Credo ancora in questo strano movente, dove qualcuno, qualcun altro,  di cui forse davvero non ricordo, è rimasto a digiuno di una mia parola, di una mia descrizione, di una frase. Perché dedicare del tempo alla mia idea sragionata del linguaggio, senza che ricordi o che rianimi a memoria la sola ipotesi di un suo viso, di una sua sessualità, di un suo passo nella mia esistenza? Un suo pensiero, la linea di una sua mano, l'abbozzo di un suo profilo. Qualcuno che forse non mi avrà mai scritto, e al quale concedo le porte dell'inferno o del mio animo, in una sola stoccata di chiave. Tutto potrebbe essere racchiuso in un arabesco epistolare, screziato di piccoli fiocchi poetici, quanto di grandi fiammate anarchiche e cubiste. La scrittura diventerebbe una lunga confessione per qualcun altro. A volte la confessione di qualcun altro, la lampada di Aladino, la cassapanca dei segreti, degli scheletri nelle ragnatele, dove non rimarrei che un semplice testimone, stordito dalla perdita eccessiva di sonno. Non ricordo momento più ispirato, che il desiderio di cominciare una lettera, per un destinatario sconosciuto, appena sveglio e travolto da una sferzata di energia. Con il freddo che taglia il viso e le pareti della casa. Un piccolo lume acceso alla mia vita.
l.s.

mercoledì 15 dicembre 2010

Considerazioni di un illetterato.

Continua la mia insofferenza ai dirigismi, al proliferare di verità assolute che cercano di frugare nel meccanismo creativo e tirare le proprie somme. Non avviene sempre, ma di solito è abbastanza forte la predisposizione di imporre come punto di vista un proprio punto di vista, che rimane in ogni caso un aspetto relativo, e che invece, ed a torto, molto spesso viene articolato e inteso come assoluto. Questo sia da parte di chi lo esprime, che da parte di chi lo riceve, innescando in molti casi un corto circuito di interazioni e reazioni che compromettono la limpidezza e la pace necessaria per continuare un certo discorso di confronto e di relazione su materie letterarie e affini.
Dunque sono insofferente alle ricette, ai metodi e a quello che si dice e si profetizza sull'adesione indispensabile a certi sistemi di condotta nell'arco di un momento o di una fase creativa. Sono convinto che la vita si impara vivendola. A volte mi sembra che si suggeriscono delle visioni alternative, soprattutto nel ramo così inflazionato e ambito della scrittura, dove dall'esperienza di massima solitudine con il proprio testo, si cercano stratagemmi, sistemi, assiomi, corollari. Si ricerca una certa matematica nel testo perfetto, per aderire a una linea di scrittori fruibili e ben riusciti. Riusciti nell'uso della punteggiatura, nella gestione del fraseggio, del ritmo. Come se alcuni passaggi obbligati o procedure, consentano o lascino accedere di diritto, a certe possibilità di comunicazione, che prescindano da quella che sia la tua voce, la tua tenerezza, la tua follia o il tuo dolore dello scrivere.
Ciascuno dice la sua verità relativa, la promuove arbitrariamente assoluta e tira le sue somme esatte, diverse dalle somme tirate dall'altro, che anche se diverse saranno considerate e credute esatte, solo perché seguiranno un certo sistema, forse una certa moda o teorema di scrittura. È terribile, ma credo che a volte si scrive così come si sceglie di indossare un abito del pomeriggio o della sera,  un capello antico dalle grandi tese, una scarpina da ballo, un paio di orecchini, un trucco pesante, uno stivale bianco e azzurro mozzafiato, una profonda scollatura alla schiena, uno spezzato dal grigio sfumato, una cravatta rossa. Si scrive in quel certo modo da ottenere un ingresso impeccabile con una certa impeccabile e indispensabile uniforme, collaudata dalla tradizione, dalle buone maniere e consuetudini, e così ogni frase è un piccolo rintocco ai gemelli della camicia diplomatica, alla pettinatura, alla stringa slacciata, al filo di cotone rosso caduto misteriosamente sulla spalla intatta di uno smoking. L'ingresso in un certo tipo di linguaggio, richiama l'ingresso nella sala da ballo di un grand hotel, dove oltre all'invito devi avere una certa cravatta, un certo portamento, un certo lusso, una certa sobria espressione di fastidio o di fascinoso disgusto per le figure del sesso opposto che incroci o che fingi di evitare e poi guardare meglio dal lato posteriore- è sempre consigliato il disgusto e il disprezzo verso l'altro per cercare di attrarlo prima che lo attragga qualche probabile rivale. Devi esserci, ma in una certa classica originalità stabilita, nell'ortodossia di quella certa cadenza frigia, piccarda o d'inganno, ma che risolva sempre sul grado grasso e stabile di uno stesso accordo. Altrimenti sarà davvero difficile prendere parte al ballo. Senza l'invito lo stesso. Attenzione alle camicie, alle spezie dei profumi, al tipo di pettinatura. Al travestimento ragionato del proprio dialetto di origine, ai difetti di pronuncia, agli eccessivi sentimentalismi, al tono di voce, alla perfetta scansione e inflessione delle parole straniere, al rigore del passo, al tipo di inclinazione del polso da suggerire al bicchiere nell'attimo caldo di un brindisi di compleanno verso un amore già lontano; e alla fermezza orientale dello sguardo, che non sia troppo invasivo e nemmeno troppo distratto. Tutto dovrà scorrere e zampillare in questo tacito accordo sincronizzato tra le parti. Invitati o festeggiati, che si ingnorano e non si conoscono, si scambieranno baci, complimenti, piccole carezze di addio o di congedo, per dedicarsi al prossimo ospite di turno, col suo impeccabile bagaglio di stile, di destrezza, di limpidezza nel passo, nella dizione, nell'accostare le labbra al lungo guanto che raggiunge il gomito dolce di un braccio ben carnoso, ancora innevato di talco e della neve, sfiorata quando la donna si è affacciata a puntare la luna che bacia le case, o per provare a sentirsi diversa, almeno per un secondo prima che gli altri entreranno e la confonderanno di false e di pregiate attenzioni. Ma poi ritornare subito in sé, cercando di nascondere il suo passo primitivo e malinconicamente ballerino, senza rischiare, e ricominciare daccapo: le danze, le moine, i saluti, l'assaggio svogliato di un aperitivo, lo scarto di un regalo doppione, il saluto alle amiche, alle compagne di classe, ai parenti più anziani venuti da lontano, un colpo di sonno mozzato insieme al suo sbadiglio, un desiderio di essere altrove e di cambiare musica o forse anche vita.
Ecco, adesso è tutto. A questo insieme di cose, preferisco di gran lunga il mio silenzio.
Grazie...
l.s.

martedì 14 dicembre 2010

La magia di Eugène Ionesco

Sto letteralmente divorando il teatro di Eugène Ionesco. È stata una vera e propria folgorazione. Nella sua scrittura e nel suo interessantissimo apparato creativo, (così ragionato, chiarissimo, nonostante la connotazione sull'assurdo che lo ha rivelato un maestro- e forse soprattutto per quello ci vuole grandissima chiarezza e limpidezza nella struttura) una serie di preziose e gustose informazioni, che vanno dal linguaggio nell'azione profonda del dramma e delle sperimentazioni, a considerazioni molto taglienti e originali sulla vita, sulla concezione dell'arte, del teatro, della letteratura. Fin dalla prima commedia, ne sono uscito sazio e ritemprato, come dopo una lunga passeggiata solitaria e invernale possibilmente domenicale, a tu per tu con le mie concezioni personali sull'arte delle parole, vissute o assimilate nel tempo da esperienze, episodi incidentali, insicurezze, luoghi comuni, ripensamenti o cattive compagnie. Ma Ionesco è una delle migliori compagnie augurabili. È un compagno ottimo, non buono. Per me lo è stato e continuerà a esserlo.
Ho avvicinato Ionesco da una prospettiva puramente letteraria, senza considerarne esclusivamente le dinamiche di trasposizione dei suoi lavori. L' ho letto di un fiato, come potrei leggere un Mann, un Miller, un Cendrars, un Kosinski. Non penso al teatro, ma alla letteratura. Pura. I suoi testi ribollono, balzano, affascinano, incantano, toccano e stradivertono, fin dalla prima pagina, lasciando immaginare e rievocare altre situazioni, altre reali e possibili assurdità dell'esistenza, che alla fine, come disse in una sua intervista, è assolutamente  assurda. Credo di non aver mai riso tanto di  fronte a un testo, come ho riso leggendo e rileggendo, mai sazio, l'Anti- commedia "La Cantatrice calva", meraviglioso affresco dalle risorse ritimiche indovinatissime e pregevoli, la freschezza sferzante dei dialoghi, delle situazioni, dei personaggi, del loro delirio di comunicazione e di parallela incomunicabilità, o intercambiabilità e dell'imprevedibile, che si sussegguono ad arte, senza lasciare il tempo per riflettere su come sia spiegabile una certa situazione, che subito arriva la successiva, con le sue nuove scintillanti trovate. Ionesco ne "La Cantatrice calva", ti siede a tavola, tra il Signore e la Signora Smith, e il Signore e la Signora Martin, lasciando che la tua testa si muova con naturale dolcezza tra i dialoghi, gustandone l'assurdità e anche la poesia necessaria e chiarificatrice del tutto, senza mai annoiarti. Non credo di essermi mai distratto affrontando uno dei suoi testi. Nemmeno per un attimo. Mi è riuscito impossibile. Come sentii dire da Spielberg, riguardo i film di Kubrick "I suoi film hanno la sicura", mi sento di riportarlo su Ionesco. Una volta dentro sei chiuso, non ne esci più. In qualche modo ti prende e non ti lascia. 
Un altro testo grandioso, che mi ha davvero catturato e al quale penso di continuo, in particolare per il discorso finale di Ionesco è "L'improvviso dell'Alma, ovvero Il camaleonte del pastore", con riferimenti a L'impromptu de Versailles, dove Molière sviscerava la sua idea e le sue concezioni fondamentali sul teatro. Qui Ionesco imbastisce una situazione molto originale e ben riuscita, in cui è proprio il personaggio con il suo cognome, a dover sopportate consigli, stratagemmi, filosofeggiamenti, inquisizioni e dirigismi, da tre infestanti Bartolomei (Bartholomeus I, II, e III), che cercano di criticare e indirizzare i suoi sforzi creativi verso una serie farraginosa di verità superiori, che frastornano il povero Ionesco, vittima di quell'improvvisa e devastante invasione, che lo coglie in corso d'opera, proprio mentre era intento a lavorare a una sua commedia.:

Bartholomeus I (a Ionesco) Lei è imbevuto di false conoscenze.
Bartholomeus II  Non gli piacciono che le cose stravaganti.
Bartholomeus I (a Bartholomeus II e a Bartholomeus III, mostrando Ionesco) Il suo spirito non è stato convenientemente indirizzato.
Bartholomeus II  È stato deformato.
Bartholomeus III  Bisogna raddrizzarlo.

e così via, avanti in una caleidoscopica fiammata di obblighi, doveri, consigli, che cominciano a scardinare anche le loro stesse buone-cattive intenzioni di risanamento dell'artista-autore, intrecciandosi all'infinito, in una serie di piccoli urticanti tasselli, precisazioni, divagazioni. Il caos.
Ma una volta giunto il momento in cui Ionesco prende la parola, e sgrana il suo canto di ribellione, così liberatorio e sanguigno, contro le convenzioni, le rigidità, i dirigismi, le contorsioni intellettualistiche e tutte le relative chiusure, rispetto alle dinamiche naturali quanto oscure di un percorso creativo, (La critica deve essere descrittiva, e non già normativa), e allora davvero ci si rapprende di uno stato di beatitudine, si afferra con mano quello che a volte sfugge,  e rimane adombrato solo sulla punta flebile di pensieri che a volte rimangono tali e mai detti. Ionesco invece afferra la questione  per il polso, senza tentennare, e schiarisce la voce, dopo una bevuta d'acqua, dissetandomi con lui di una delle pagine più sferzanti e significative che mi siano mai capitate di incontrare, di vivere e di amare.
Credo che almeno il monologo finale di Ionesco ne "Il camaleonte del pastore", andrebbe trascritto con cura e affisso sulla parete dello studio di molti scrittori, editori, critici ed operatori del settore. Essendo ben certo, che possa sintetizzare e rappresentare una sorta di indispensabile manifesto letterario, senza tempo.
l.s.

lunedì 13 dicembre 2010

Ritorno di Fiamma in video-audio blog

Il link "Benvenuto".

Molto originale.
l.s.

giovedì 9 dicembre 2010

Quasi mai il cielo è azzurro.

Non ho tecnica di disegno. Non ci ho mai capito molto, perché non ho mai disegnato. Non ci badavo. O forse badavo ad altre cose. Eppure tutti i pomeriggi passati con mio nipote a disegnare, vengono fuori dei disegni a colori che hanno un loro senso, o forse un senso che noi due sentiamo e abitiamo. Una loro logica espressiva. Inventati sul momento, a quattro mani. Di solito decido io il telaio e lui i colori, o suggerisce lui il telaio e insieme le zone da colorare, con quali tonalità, quanto calore o quanto ghiaccio nel bianco. Molto celeste e arancione e rosso e blu notte indiano. Abbinati e assortiti sul paesino minuscolo inventato su tre montagne disuguali. Una montagna liscia e tutta rosa, una tutta arancione e l'altra tutta azzurra. E un albero di Natale tutto verde, ma spaccato al centro da una massa di arancione portoghese. Quasi mai il cielo è azzurro. Azzurri sono i tronchi degli alberi, i tetti delle case, le montagne. Poche volte disegno il mare. I prati o sono blu o sono violetti. Credo di aver passato del tempo utile. Il bambino osserva le combinazioni e poi lascia il suo giudizio. Sempre molto attento, scrupoloso. Prima che io me ne andassi, mi ha fatto vedere che lo ha firmato con i nostri due nomi vicini, l'ultimo disegno. Anche se non ho tecnica di disegno e non credo di saper disegnare, è accaduto qualcosa. Qualcosa che ha meritato le nostre firme. Stasera, tornando a casa e lavorando a un testo teatrale, ho cercato di adottare lo stesso sistema che ho utilizzato per le montagne, per  i  prati,  per gli alberi e per le casupole del piccolo paese senza cielo.
l.s.

Premio di Poesia Lorenzo Montano XV edizione

Il bando ufficiale.