martedì 30 novembre 2010

Henry Miller

lunedì 29 novembre 2010

La mia ricchezza

Quando sento l'esigenza di scrivere, avviene qualcosa. A livello fisico e quindi mentale. In sinergia. Di solito una sorta di molestia, che cerca sempre i momenti peggiori per affiorare. Quando sono fuori casa, e non ho nulla a portata di mano per fissare qualcosa. Dovrei tenerlo a memoria, ma poi non ho il tempo. Devo fare altro, non posso perdermi così. Eppure le parole di quell'attimo, che per ogni secondo passato si fanno sempre più lontane, sfumate e nebbiose, anche se rapprese alla loro radice nella testa, non ritorneranno mai più nel loro flusso naturale, primigenio. Il fiume va fermato nell'attimo, ma devo essere sempre io a gestire il travolgimento e a lasciarmi trascinare. In ogni modo sono tanti gli istanti perduti, quelli che non ho fermato per tempo, perché arrivati in questi momenti sbagliati, fuori luogo. Forse messi tutti insieme sono molto più numerosi di quelli che ho fermato. Ne sono almeno il doppio, se non di più.
Sono questi la mia vera ricchezza.
l.s.

domenica 28 novembre 2010

Fiori da una classe

Non riesco a immaginare la mia espressione, che cosa faccio con gli occhi o con il naso, quando mi arrivano dei fiori così. Dovrei specchiarmi, ma è una gioia che non immagino e nemmeno consumo. Provo vergogna, con le dita bagnate, rispondo al telefono e chiudo la porta, come se dovessi nascondere a qualcuno di casa l'affronto o l'azzardo di un corteggiatore impazzito, o la sorpesa di un'amica o di un folle che non mi ha nemmeno mai visto in pieno viso. Un vaso, dove lo trovo adesso un vaso, con il viso così?
Ma questi invece sono diversi. Sono diversi perché sono i vostri, gli ultimi e i primi insieme, prima di lasciarci, e poi che strano, a dirlo così mi disorienta: lasciarsi come, se siamo così vicini, ancora, ma le cose finiscono, a volte quelle più forti e radiose, come quest'arancio dei petali, come il primo e come l'ultimo giorno con voi, come questa razza di strano addio che non so più fare, come un primo bacio, un primo cinema, la prima vacanza o il primo amore. I fiori mi hanno strattonato, come rami di quercia, eppure sono così teneri,  fanno forza e attentano ai miei occhi e poi mi hanno fatto pensare, molto di più di tanto e a ciascuno di voi, che vedo riflesso nel gesto comune come nello specchio di un grande lago montano, quando cala la sera, stasera, per esempio. E sentire quello che a volte non pensavo di scorgere e di sentire più, non mi capita spesso, sono così testarda. O sarò così troppo presa da altro, dal troppo buio, dal troppo me, per esempio, che in questi ultimi  mesi non voleva fiorire.  Non riesco più a parlare, ho la gola imbalsamata di un uccello che ha paura, perché il suo canto svegli la sua nidiata o il vicinato che ancora riposa, eppure vorrei prendere ciascuno di questi fiori e dedicarli alla vostra vita, a quello che mi è successo incontrandovi e capitando qui, forse per un disegno, per un caso, o per una sassata fuori mira, che mi ha reso comunque diversa, nello scoppio celeste del vetro e le vostre teste diverse e minacciose, del primo giorno. Quando adesso sono finita io all'ultimo banco, senza la nostra aula. Anche quando sembro la più forte sono la più triste; questi due aspetti in me non si separano mai. Hanno la tenacia e il velluto del tragico, la classicità vigorosa e fiorente della mia formazione. Ed è anche questa la natura e il regalo che vi ho dato di me; un sussurro in filigrana di zendado, senza rumori se non quello del vento che bacia la classe in piena notte; e per tutto quello che non sapevo e che non potevo immaginare di dare a me e a ciascuno di voi, in così poco tempo.
La mia vita anche quest'anno giunge a un capolinea. Quello stesso dell'anno scorso, e ancora una volta dovrò prepararmi un addio con i fiocchi; uno rigato a matita o con un filo di trucco stanco e accennato che si scioglie. Adesso i miei occhi, quelli di adesso che vi guardano e soffiano e vi spengono, come candele. Per ogni petalo la fiamma di un'altra distanza, nonostante sia stato solo un anno. Ma a volte il tempo ammanta e si distende come una tinta indimenticabile e velata, sul resto del pastello della mia vita che passa e che continuerà a cambiare scompartimenti di treni;  ascoltare il fischio del capostazione nell'estate, che mi dice di chiudere e lasciare qualcuno di turno sulla banchina, che non mi scorge o se succede che alzi il braccio al mio profilo perduto, il treno sarà già in corsa, o chissà dove. Anche senza di voi, lo stesso profumo selvatico di quel nostro unico inverno che non si confonderà con nessun altro, o le tracce di una certa somiglianza con un mio modo di fare o di sbagliare, in uno stesso rimprovero, in questo fascio che mi spacca e che nascondo a mio padre come se lo avessi rubato, e che mi fa diventare una ragazzina della vostra età, una con cui concordare un'uscita insieme, telefonare per ore o sognare insieme un amore grandissimo e infinito, quanto a volte impossibie, come uno di quelli vostri e laceranti, che non immagino lontani da quelli che ho incontrato davvero, e un futuro che mi metta meno paura. Non riesco a guardarli, adesso sono troppi, ma quanti diamanti nascosti per un anno così, che mi è volato davanti nel suo unico lungo corsivo,  oltre ogni possibile sipario che ci distanzi e adesso, che rabbia, proprio adesso io non so più che cosa dire, e forse non l'ho mai saputo. Allora potrei cucinarvi qualcosa e farvi ridere sbagliando cottura o rimanere a sentirvi parlare dei voti, muta, senza controbattere, nella mia cucina, e commuovermi pensando a chi prenderà il mio posto, quando sarà tutto finito e sarete già lontani e separati. Come gli ultimi alberi lungo la strada dell' ultimo giorno, nella stessa curva del viale, anche quando sarete più lontani, proprio come ora.
Adesso allontaniamo le mani, avanti, senza confusione, possibile: fino all'ultimo c'è sempre qualcuno che deve farmi disperare, che hai da ridere tu, adesso? Quell'altro, sempre la stessa chiacchiera! Sei sempre lo stesso, non crederai mica che mi mancherai di più?
Che silenzio, sapete che non lo credevo? Shhh, fuori sembra che ci sia il deserto. Potrei sentire il respiro di ognuno, il battito del  cuore dell'ultimo passero che torna  a ripararsi quando fa buio. Adesso fa buio, sta calando la notte su questo nostro viaggio. Che bello così, e pensare che lo credevo impossibile, di non arrivarci mai; adesso sì, adesso è arrivato il momento di salutarci davvero. Come si fa, qualcuno potrebbe insegnarmelo? Perché non dite più niente, mi diventa difficile così. Cerchiamo di fare in fretta, però. Chiudiamo gli occhi, al mio tre, soffiamo sulla stessa lampada e non guardiamoci più...Adesso!
l.s.

sabato 27 novembre 2010

Sipario!

Rimango sempre molto scettico quando sento discutere di scrittura. A volte mi sembra così assurdo che esista un argomento che riguardi l'atto dello scrivere. Forse perché lo ritengo un atto profondo, istintivo, molto personale. Ed è per questo che dovrei evitare di parlarne, e invece in diverse occasioni ci ricasco. Ma solo quando sono al buio, come adesso, per esempio, con  la sala vuota. Scrivendo da soli, anche un semplice articolo in rete, non hai l'occhio e il viso che ti guarda e che ti pensa quando parli. Non hai l'espressione,  il sesso, la fiducia, l'antipatia, il profumo, di chi sta di fronte e sceglie di ascoltarti perché è successo, è capitato, o perché mi esprimo benino, avrò da raccontare un film, un luogo dove si mangia bene, la qualità di un vino Aglianico. Quando si scrive da soli, succede che non ho occhi, non ho sguardi che ti dirigono il filo del discorso; ho solo la gabbia della libertà assoluta di poter avere a che fare con qualsiasi persona, semmai la più lontana a recepire quello che sto scrivendo e a sopportare le tiepide raffiche su cosa sia letterario o meno, su cosa funzioni di più; o quanto sia difficile scrivere narrativa di genere, e quanto conta la punteggiatura e l'incipit e la lunghezza di un paragrafo e quanta luce ci sia nella mia stanza, e quanta musica suoni o quante noci della California ho buttato giù nel gozzo. Quando scrivo e non parlo, sono in mare aperto e senza freni, solo pinne nere di squali. Sono in gabbia e sono da solo.  
Conoscere il proprio interlocutore è un passaggio obbligato per circuire il raggio di azione di quello che dovrò dire, per ammortizzare il balzo del mio agguato. Essere controllato dalle sue reazioni immediate a quello che dico, che ho  appena detto, quando a volte sembra percepire il mio pensiero appena prima che sgorghi dalla voce, come se ne avesse avvertito l'odore di bruciato o di bosco, o aver visto il fantasma della sua figura sfumata di parole. Le parole dette hanno la cagna guida della vita reale, i colori di chi vi sta resistendo e deve tradurre lo start al cieco che attraversa la strada. A volte uno scrittore è un po' come il comico. È sera, il teatro è pieno, le battute sono tutte pronte, ma gli viene la strizza, non sa se saranno così efficaci da farli sbellicare tutti a sufficienza. Prima di cominciare sbircia, cerca di mettere a fuoco, ma non si vede niente, o sarà la paura. Non ci saranno di certo gli amici della prima sera,  e così nemmeno i parenti. Non vedo i visi, forse sarebbe meglio immaginarne uno, quello di mio nipote, di mia sorella, di mia moglie, del mio agente, di qualsiasi essere al mondo abbia appurato la mia grandezza, anche se lo avrà fatto per motivi che prescindono da quanto sia davvero grande come comico. E se invece io non fossi un comico? Se fosse tutto un grande equivoco, e tutti lo sanno, all'infuori di me? Come se qualcuno dovesse accontentarmi, e il ridere a una mia battuta o in altri casi il leggermi, diventa un piccolo atto di amore segreto o di compassione, e se questo non lo saprò mai?
Scrivere al buio, è un po' la stessa cosa. Non saprò mai se la battuta funzionerà, se dipenderà dal ritmo, dalla mia espressione o dalla mia voce rauca o dalla mia poca bravura se farò fiasco. Potrebbe dipendere da altro. Potrei essere uno davvero bravo che non fa ridere, perché forse è giusto così e non necessariamente per colpa della mia bravura. O potrebbe accadere tutto e il contrario di tutto, la certezza la darà soltanto l'esperienza pura e presente, dove tutto sarà così poco prevedibile. Se si avesse la certezza di ogni passaggio, il lavoro finirebbe dopo due sere. Sarebbe il comico il primo a piangere. 
Credo  che i comici e gli scrittori abbiano molti punti in comune. Uno scrittore ha bisogno di volti vivi, di maschere, di risposte, di espressioni affamate, attente, invasate, innamorate e non di commissioni e di giurie infallibili, per carità! Ha bisogno di pugni, di calci e e di baci davanti allo specchio di un lago notturno, tutti quelli che gli mancano, e che forse avrà immaginato in corso d'opera, ciascuno con la sua particolare stoccata di lusso o più sgraziata. E quante delle sue parole arriveranno davvero dove lui crede, o ritorneranno indietro, verso l'oscurità? Parlando di scrittura, invece, avviene una sorta di esorcismo, si fruga nei meccanismi di una tecnica, di una strategia, di un sistema; si cercano rassicurazioni, ricette, inganni, stratagemmi, intrugli magici, abili rimedi, balsami e sciroppi zuccherini per convincere gli editori, talismani contro le paure e i demoni delle pagine bianche, i trucchi diabolici degli altri più bravi e più pubblicati, così  a volte ci si spaventa di meno e si diventa addirittura sprezzanti, e più coraggiosi, ma la certezza del viso che ti legge e della sua risposta-risata, non avverrà mai. Nemmeno di quanto saranno veri quei visi e autentiche e di cuore quelle risate.
Il metodo per raggiungere certezze ed essere sicuri del proprio valore, del tipo di strada, se giusta o sbagliata, si trova solo in una direzione: mollando tutto. È l'unico metodo per avere una risposta razionale sullo scrivere, sul mistero dello scrivere. Se la si cerca non la si troverà mai. Credo fermamente che l'unica certezza che uno scrittore possa avere, riguardo al suo linguaggio e a tutto quello che gli ronza intorno di possibile o di potenziale, sia quello di lasciarlo morire. È meglio non farlo vivere, anziché sbeccuzzare qua e là quello che sia giusto e ortodosso, come fanno i passeri, al pomeriggio, davanti al balcone della mia cucina. Ma almeno quelli sbeccuzzano con il taglio del puma, se hanno una buona intenzione, sono anche capaci di imbucarsi nel secchio della pattumiera e sommozzare, quando hanno avvistato il movente del bersaglio, con tutta la lordura che incontreranno la limpidezza del loro volo rimarrà tersa e forse ancora più luminosa, perché la loro unica possibilità di vita.  È meglio che uno scrittore lasci perdere, più che elemosinare piccoli rintocchi o spinte strategiche e umilianti per dire di esserci, o cercare di ritrovare la propria strada o il proprio angolino dignitoso che giustifichi agli occhi di qualcuno che i suoi sforzi ormai sono stati finalizzati a qualcosa di buono o almeno di corretto e di tendenza per la moda del momento, che sia intellegibile, commestibile, ma mai dirigibile o sommergibile. Questo mai? Le altezze o gli abissi non interessano. Fanno paura, poca aria, pochi negozi. A volte attraverso il rinculo a suo favore di guizzi umorali e non sempre sinceri di pseudo amici, semplici appassionati o addetti maldestri o maledetti ai lavori, conviene optare per qualcos'altro: il jogging, l'allevamento dei canarini inglesi, una buona palestra di arti marziali. Scrivere solo per arrivare in un punto prefissato da un'ossessione, per sfornare libri e scomodare traduttori, o cercare quel particolare punto di arrivo, perché commisurato alla strada che avrà fatto qualcun altro, vuol dire rinunciare alla propria unicità, alla propria voce, al proprio respiro di scrittura. Questo significa chiedere e non dare. Soprattutto se non trovi il tempo per un biglietto di auguri a un amico o per rispondere a qualcuno che ti ha chiesto un parere sul suo breve testo, che hai dimenticato.
Un respiro e un movente di scrittura, se è autentico, non se ne frega di dove dovrà andare, ma gli interessa di rimanere assolutamente puro, nella lacca lunare delle sue origini. Il suo senso è quello. È raggiunto al primo sbocco, potrà vivere mille modifiche, ma non conoscerà altro se non il mio mood di quell'attimo iniziale, l' unico e disperato, che forse non ritornerà mai più. 
Esiste un personaggio di una mia storia a cui sono molto legato, che improvvisamente, decide di non scrivere più. Il titolo è "L'azzurro della notte", che è diventato quasi un romanzo breve, e comincia con questa grande rinuncia, plateale, con la distruzione di tutto quello che era stato scritto negli anni, tirato fuori con forza da un vecchio baule. Non mi sono mai sentito così bene quando ho dovuto scrivere di quella distruzione, mi sembrava di accendere un rogo di tutte le mie parole, buone o cattive, scritte o cancellate, un grande rogo liberatorio e purificatore, senza limiti, coordinate o definizioni. Solo fiamme sulla carta. Anche quella è una scelta, una strada; dipende dalla sensibilità e dalla coerenza di chi la fa; a volte pù rischiosa ma anche più logica di chi decide di scrivere qualcosa chiedendo ogni secondo che cosa piaccia, che cosa convenga inventare, che stile va più di moda, quanto sia stato chiaro o troppo involuto, come funziona la punteggiatura, e se le pieghe dei pantaloni sono a posto o se il giubbino ha sul davanti un alone di olio e come tirare dietro i capelli.
E sperando di indovinare un giorno i visi che rideranno alle sue battute, uno per uno, con incluse targhette sulla giacca con dati anagrafici, religione, nazionalità, professione e credo politico. 
Le luci si spengono, adesso non c'è quasi più nessuno. Sono da solo, sul piccolo palco dove hanno tenuto l'ultimo spettacolo. L'odore del legno e del sipario, il vociare della folla. poi arriva il silenzio. Non ricordo un viso, avrò sbagliato tutto, ma forse ho tirato su un solo sorriso, di un ragazzo con gli occhiali e la camicia a grossi quadri, molto magro e nervoso; quella camicia somiglia un mondo a quella di mio nonno, ma c'è rimasto così attento, come nemmeno un astrofilo al telescopio farebbe in una notte così stellata e tersa, come è quella di una rinuncia o di una possibile sconfitta. A volte momenti di grandissima tenerezza e libertà... sono quelli più dolorosi e i più incerti, non solo per chi scrive.
Per le risate quel ragazzo si era tolto anche gli occhiali, questo almeno me lo ricordo, anche se avevo le luci bianche e gialle negli occhi. Aveva le lenti doppie e appannate, ma non smetteva di guardarmi. E allora, ne sarà valsa la pena...comunque, anche se era l'unico ad aver comprato un biglietto quella sera e  non riuscivamo nemmeno a scorgerci bene, nessuno dei due, che forse non ci incontreremo mai. A volte è un peccato, davvero...
Sipario!
l.s.

Ebook reader from Amsterdam

venerdì 26 novembre 2010

Il borgo

Sul non sapere all'inizio che cosa scrivere e che cosa dire. Partendo da soli, con il mistero. 
È difficile prevedere cosa potrebbe avvenire quando si attacca un testo con un vuoto assoluto e così misterioso; un vuoto totale sulla situazione, sul contesto, su tutti gli elementi che dovrebbero consentire l'aggancio di altri vagoncini in sequenza, fino a cominciare il percorso più o meno lineare di una certa storia, eventuale, forse possibile e impossibile da finire, ma almeno cominciata. 
È dalla prima parola che incomincia il mio viaggio, mai da quello  che immaginavo ci fosse fino a qualche secondo prima. Quella prima parola di solito non ha niente a che vedere, nemmeno con l'ultima frazione di pensiero affiorata poco prima di abbassare il dito sul carattere. È altro, altro che al momento non mi spiego e che non mi interessa spiegare. La stessa cosa che mi sta accadendo adesso con questo piccolo post. Qui, però, ho almeno la vaga sensazione, anche se in filigrana, di quello che  mi preme comunicare, ma adesso procedo, non ho un copione precostituito. Mentre sono diversi i contesti in cui mi trovo a dover procedere nel buio pesto e assoluto, in attesa che dal contatto con le mie dita e una parte nascosta di me, si cominci a dipanare la nebbia e compaia un piccolo borgo, anche molto minuto e antico o lontanissimo, da tenere in una mano. A volte ridotto male, con le tegole scheggiate, la neve che lo nasconde, i carichi di legna non sufficienti a riscaldare tutte le case, senza un'anima, nemmeno quando sono più vicino. Ma è da quel luogo, anche se lontano, isolato e sfocato, che avverto la presenza dell'unico seme possibile da poter piantare. E il processo di scrittura conseguente all'avvistamento del borgo- di solito sono sempre paesi molto piccoli e misteriosi ad affiorare- è tutto imperniato su questa semina,  sulle possibilità infinite di diramare azioni e situazioni intorno al luogo ancora sconosciuto, che può essere incantato, a  volte maledetto o disabitato. Questo lo scoprirò a tempo con la scoperta che faranno in seguito i lettori. Ciascun passo verso la storia, è un passo fresco nella neve e mai già percorso. Anche se la prima bozza racchiuderà tutti gli errori del mondo e andrà ripresa e revisionata all'infinito, è questo spirito di freschezza e di mistero che non dovrò sacrificare. Il primo lampo da cui è scaturita l'immagine della storia, sarà la sua anima e il suo destino. E tutto questo perché non avrei avuto niente da dire. Ma stavo attendendo qualcosa, senza forzarla. Di solito è così che procedo quando scrivo. Partendo dal niente, che è la sintesi massima di tutte le possibilità di avanscoperta e di viaggio.
l.s.

giovedì 25 novembre 2010

Lo scrivere e il perdermi...

Scrivere per dimostrare o condividere? È possibile marcare un confine, o cercare una terza strada? Ha un senso parlare di scrittura e di dinamiche inerenti a un'attività così strana, profondamente oscura e antica, in apparenza alla portata di tutti, immediata, e di colpo relegata ai pochi iniziati che abbiano compreso la formula magica o abbiano trovato la chiave per mettere d'accordo gli addetti ai lavori fino ai più semplici curiosi? Quando non mi farò più domande, è probabile che potrò ricominciare da zero. Una parola che nasca da una certezza, ma che forse sarà anche l'ultima. Scrivono in molti, si dice in troppi. Come, però? Ciascuno con i suoi moventi, i suoi talenti, i suoi vezzi, le sue maledizioni, le sue tare i suoi manierismi. Il magma continua, ci si nutre delle proprie pagine in riflusso come latte di capra, inzuppandosi i colletti della camicia e continuando all'infinito, ciascuno con la sua maledizione fino a inondare il lago di un atrio. Eppure mi accorgo sempre di più di provare un certo disagio e pudore nel parlare agli altri di questa mia strana attività segreta, che a volte mi impegna come se fosse una questione vitale, in altre mi sembra così grande da annientarmi, così divertente da spaccarmi la bocca dal ridere, così spaventosa da costringermi ad accendere tutte le luci nella casa. Insomma, se dovessi davvero dimostrare qualcosa, qualcosa che sia misurabile e quindi quantificabile, non troverei quella pace che mi assale quando mi stacco da una seduta di scrittura e spengo il mio mac. Sarò anche stanco, ma come uno che ha viaggiato e si è divertito. E poi non so dove possono portarmi le mie parole, credo verso la certezza di un grande equivoco, di un'inadeguatezza a qualche canone precostituito, forse alla mia fine o a un labirinto infinito di sbadigli. Ogni paragrafo di solito è un autobus senza numero, dove tento di salire e di prenotare qualche posto ancora libero per un ipotetico viaggiatore; un autobus di notte, che probabilmente porterà solo al deposito, o addirittura in un luogo oscuro e malfamato, pericoloso.
Scrivere per condividere? Forse si comincia a ragionare, ma nemmeno. E poi che cosa? Quali sarebbero queste grandi verità o certezze che costringano qualcuno a fare affidamento sui miei tortuosi e caleidoscopici giri nauseanti di giostra, col rischio di sbattere in un deposito buio di provincia e non ritrovare più la strada? D'altra parte la certezza quando si lancia un sasso piatto nell'acqua di un lago, che sia un romanzo, un racconto breve, un saggio, un articolo, un post, è che chiunque potrà guardarlo dalla sua direzione e il più delle volte tutto quello che verrà recepito, potrà essere molto diverso da quello che io avrei previsto o sentito di esprimere. L'espressione del mimo, sotto le luci del teatro, anche al più attento spettatore di prima fila, vivrà quella serie di varianti che lo stesso artista non aveva previsto e che creeranno cento spettacoli paralleli nella stessa sala, o forse di più. Sono ancora convinto che ciascuno abbia un suo modo unico e personale di vedere, di sentire, di percepire quello che gli accade davanti. Sarà la sua storia, la sua digestione, il suo ultimo bacio rubato, o il suo delitto a fare la differenza e a filtrargli il succo magico che gli viene somministrato al momento E non credo che si possano dimostrare tutte le sfumature e le divergenze, tra un osservatore e un altro, ma nemmeno quel numero perfetto e assoluto che un giorno metterà d'accordo tutti. Anche il prodotto artistico più perfetto troverà diversi modi e diversi occhiali paralleli nella sua rifrazione e la certezza, durante la sua preparazione faticata, di non arrivare quasi mai al segno.
Scriverò dunque per addomesticare il buio, dove ancora adesso brancolo? Probabile, assai più convincente. Non credo di aver trovato mai delle porte o delle uscite di sicurezza quando attacco un paragrafo. Quelli che un giorno avranno funzionato, saranno quegli stessi che hanno vacillato e scricchiolato,  lasciandomi una risonanza di dubbi e di ripensamenti. Perché non ho mai chiaro il fattore dell'impatto, il senso della luce. Il miglior fotografo del mondo, potrebbe aver visto un rosso che non c'è. Scrivere è una questione di luci. Non penso ad altro che alla luce, qualsiasi cosa scrivo e in qualsiasi contesto o situazione. La luce di un viso, il suo allungarsi o contrarsi in direzione di un'ombra vicina, di un'esposizione a una finestra, all'ingresso luccicante di un night club o sotto il filo di luna di un eremo. Credo che tutto quello che ho scritto, di ridicolo, orrendo o accettabile, abbia visuto l'incubazione di un fotogramma, dei suoi contrasti in filigrana, da cui nascono in controluce le situazioni e anche le voci delle persone che solcheranno quella particolare scena. Non riesco a scrivere di un personaggio se non avverto dentro il tipo di voce, i suoi gusti in materia di donne, di musica classica o di cinema. Ma quella voce nascerà sempre dopo averlo immaginato con una certa luce. La luce è l'unico utero dal quale cerco di estrapolare i miei diabolici o malinconici tentativi di strutture e di portarli avanti fino a quando il cono di luce non si spezza. Eppure, nonostante il tutto rimbalzi a caso, senza certezze da dimostrare o particolari pensieri da condividere, tutto questo fattore impalpabile è così surreale, da diventare parte imprescindibile della mia vita e dell'amore irrazionale e sconfinato che provo per qualsiasi cosa mi capiti sotto il naso. Dal cane rognoso che solca l'ultimo tratto in salita di vico case puntellate, al tramonto che infiamma una darsena, allo sbadiglio sciatto di una cassiera. Qualsiasi cosa deve ritornarmi nel suo non senso ma nella sua assoluta indispensabilità perché possa scriverne, e perché ci sia ancora qualcosa da mostrare, ma mai da dimostrare. Credo che le due lettere in più o in meno, comportino lo squarcio di un abisso. La scrittura a cui dedico del tempo, dove spezzo un sogno o la punta di una matita, è legata a tutto questo. Forse all' ansiosa ricerca di un luogo perduto o sottratto senza un motivo, di un certo oggetto o di una certa casa o di un viso, di qualcuno che mi gridava qualcosa, intravisto di ritorno da un viaggio, da un finestrino appannato e forse ancora incagliato nella gola. Per questo strano dolore, impercettibile ma presente, io so di dovere continuare a farlo, comunque, perché scrivere per me è soltanto perdermi...
l.s.

mercoledì 24 novembre 2010

L'odore dell'aperto e il mio senso di scrittura

Quando si scrive, a volte, si tende a rendere sacro quello spazio e a conservare proprio in quel momento il meglio dei propri pensieri, delle proprie emozioni. Come se collocate in altre circostanze, che non riguardino direttamente l'affare della scrittura e del proprio possibile ingegno in perenne erezione, vadano sprecate, dissolte in luoghi che le depauperino del loro valore, almeno di quello che si ritiene essere il proprio eventuale valore.
Credo che  uno spazio espressivo non debba mai risparmiarsi troppo. L'avarizia è una certezza di povertà. Se ho qualcosa da dire e da dare, tutto questo non si esaurirà, ma si moltiplicherà con la mia generosità di concederlo quando lo sento e non quando credo sia più adeguato e giusto concederlo. L'importante è rodare la propria espressività, almeno quando le occasioni di tutti i giorni lo consentono, che forse è l'unico modo per affinarla. Se si seleziona troppo quello che si crede opportuno comunicare, relegandolo solo in luoghi eletti, si finirà con l'accumulare una letteratura di residuo, da quello che è l'odore di aperto e di vissuto di un'esperienza artistica. Credo che la scrittura sia un processo molto più ampio. Non vorrei relegarlo nella mera trascrizione di cose interessanti e migliori da dire o da saper dire, o come ginnastica  del linguaggio, ma nella capacità di sapere trasformare quello che sento e che vedo, che sperimento e  che vivo, in ogni momento,  e anche nel progetto di un testo. Ma non solo. Di trasformarlo senza un movente strategico, ma con la stessa dinamica con cui parlo a qualcuno, o lo saluto. Senza badare al luogo supremo dove questo saluto potrebbe avvenire o non avverrà mai. L'importante è che rimanga un luogo che abbia un buon odore di aperto e di imprevedibile. E che non sia mai la mia scrittura a dare un senso alla mia vita, ma che sia la mia vita a dare un senso alla mia scrittura. Concetto assolutamente banale quanto vero.
l.s.

martedì 23 novembre 2010

Trent'anni ad oggi...

Da pochi minuti sono passati trent'anni, da uno dei più grandi spaventi della mia vita.
l.s.

lunedì 22 novembre 2010

Mi capita, a volte...

Mi capita, a volte, di sentirmi nei confronti della scrittura, come uno che entra nel salone illuminato di un palazzo ducale, dopo aver preso una merda in pieno.
l.s.

Rilettura e lettura

Sto riscoprendo l'importanza della rilettura di un testo, e una volta riletto mi accorgo che non è neppure troppo corretto parlare di una rilettura, come di un qualcosa di già percorso, sgualcito e masticato da riprendere in mano, ma di una lettura autentica e viva, a tutti gli effetti. Quando il testo è interessante, mi apre a una serie di nuovi connotati e informazioni, che la prima volta potevano essermi sfuggiti o affiorati confusi e appannati. Tutto riprende a funzionare, ma senza ripetizioni. Non credo che sia il finale o il flusso degli eventi a determinare un'interesse per la lettura di una storia, ma è la modalità e tutto quello che consente alla storia di mantenersi in piedi e di imprigionarmi o di lanciarmi altrove. Quella della trama è la parte esterna, la corteccia; esistono tanti altri strati sovrapposti e altrettanto preziosi, che mi portano dentro un'esplorazione molto diversa e fertile. Questo è ciò che è avvenuto con i testi che ho ripreso e che ho consultato, anche diverso tempo dopo la loro prima lettura.
l.s

domenica 21 novembre 2010

Fondamenti di Autofiction

Autofinzioni

Bellezza e dintorni mutanti

Sto imparando e cominciando a capire, con il tempo e con una certa modalità di osservazione, che la bellezza sia in molti casi una situazione, più che un calco determinato e rifinito. Non credo che esistano persone assolutamente brutte e inespressive, non lo credo come non credo che esistano persone assolutamente belle e lancinanti, senza possibilità di mutazione- che non riguardi chiaramente il fattore tempo. Dunque, quello che voglio dire è che a volte le cose più belle che ho visto, che ho introiettato nel ricordo e che ho desiderato di comunicare, sono sempre quelle al di fuori di una regola e di un'ortodossia di bello prestabilito o conclamato statisticamente dalla pancia degli osservanti, che in qualche modo le condannino verso una sola direzione definita. Non credo che una ragazza di spalle, con la spalla abbassata perché un cane di grossa taglia la stia tirando mentre lei gli resiste e si dimostra forte pur nella sua esilità, possa definirsi brutta solo per la montatura dei suoi occhiali doppi o per il tipo di viso. In quel gesto di  forza, con la coda di cavallo che sbatte in contrappunto con la coda del suo cagnaccio, affiora del bello, che la riguarda e la introduce nella singolarità di un evento che non potrà essere necessariamente fissato, ma che potrebbe raggiungere dei picchi che la ragazza più bella del mondo, che passa il tempo ad aggiustarsi i capelli, senza guardare altro che altri occhi che si immolino nella sua direzione, potrebbe sognarsi di raggiungere; e forse perché troppa consapevolezza del suo standard potrebbe allontanarla e scioglierla dalla possibilità di vibrare in una situazione diversa o improvvisa, che non la metta necessariamente al centro e verso la quale non ha sviluppato la sensibilità necessaria, perché occupata da altro. È da queste semplici o forse contorte riflessioni, che cerco di organizzare il senso profondo di bellezza che può diramarsi dal personaggio di una mia storia, fin dai primi palpiti di vita, anche quelli ancora in incubazione: quella di una bambina a cui mettono al piede degli scarponcini enormi da uomo, dell'occhio di vetro del vinaio, del gatto nero, di una lanterna giallognola che sbalza nel fondo di un vicolo, dello scoppio di un bicchiere contro un muro, di una ragazza miope che toglie gli occhiali e stringe gli occhi per guardarti, di un tizio che perde un cappello, a cui gli si apre un ombrello o che gli si spezza durante un  piovasco.
Credo bisogna partire sempre da una situazione, e mai dal numero o dal calco determinato e imposto di un'idea astratta, anche se verificata di bellezza. A volte una persona profondamente irradiata di bellezza esteriore, può raggiungere, senza esserne consapevole- per atteggiamenti o assenza e consonanza alle situazioni mutevoli della vita- picchi di bruttezza, di ineleganza, di inespressività o di mostruosità, che una persona dichiaratamente molto brutta, potrebbe non incontrare mai nel corso di tutta la sua esistenza.
l.s.

La notte inoltrata: contest

Per chi abbia voglia di divertirsi, lancio, nel cuore inoltrato della notte, un piccolo contest di scrittura, finalizzato a buttare giù una manciata di dialoghi, che da soli riescano a condurre le redini di un plot, il tessuto di una piccola trama, che prenda vita da una telefonata che rimbomba nel cuore della notte e spiana nel personaggio che risponde qualcosa di oscuro.
Avrei pensato a limitare i righi del dialogo. In effetti, la singolarità di questo piccolo confronto, è dato non dal conteggio complessivo dei caratteri o delle parole, ma da quanti fili potrete tirare dalla bocca dei due notturni personaggi, che completino un piccolo arazzo. Avrei pensato a uno scambio totale di 25 righi di dialogo tra entrambi, e senza un limite minimo. Non esiste un genere specifico a cui rifarsi, è chiaro che il tipo di contesto, restringerà il campo a determinate situazioni. Quello che conta è l'originalità e l'economia del linguaggio, visto il limite delle cartucce disponibili. Credo che sia giusto che i testi siano visionati da più persone. Se il contest prenderà quota, farò in modo di confermare quelle che si fossero rese disponibili a darmi una mano nella lettura. Se il numero dei testi sarà troppo basso, vedremo al momento sul da farsi e come regolarci in merito. Oppure lo rilancerò in una stagione più stimolante o con un altra formula. Si vedrà al momento.
La prova migliore, o meglio, quella che riesce a centrare meglio con i pochi elementi il cuore e le atmosfere di uno snodo narrativo del genere, avrà la semplice pubblicazione su questo spazio, in tumbrl ed eventualmente anche una trasposizione sonora, molto artigianale, in formato audio mp 3 e una recensione.
È tutto. Come scadenza avrei stabilito il 31 dicembre 2010. C'è tutto il tempo di pensarci, preparare una bozza, dimenticarla, riprenderla, distruggerla, insomma mettersi all'opera o disertare. Un'ultima cosa. L' invio dei testi, potrà avvenire tramite semplice inserimento del commento al blog. Per i non iscritti, si può selezionare anonimo e procedere.
È tutto.
l.s.

sabato 20 novembre 2010

Diabolici dialoghi a sonagli

Mi piace solo accennare alla questione del dialogo. Diabolico ostacolo, uno dei punti scoperti per indovinare la frattura della scrittura cattiva, che di solito può espandersi in una virulenza nefasta per le sorti di un testo, se non frenato e domato per tempo. A volte le righe dei dialoghi le immagino come lunghi serpenti a sonagli, appena sbucati dalla cesta, affamati di luce e di spazio. L'incantatore-scrittore, dovrebbe gestirli, incantarli e in molti casi farli rientrare nella cesta, altrimenti potrebbe correre il rischio di rimanere soffocato tra le loro spire o come la sonnambula che scende le scale con il candelabro tra le mani e corre il rischio che le si infiammino i capelli sciolti per una fatale inclinazione del polso.
Non vorrei bruciarmi tutte le cose che avverto dentro e che sento di dire. In effetti anche il dialogo è una questione di orecchio e di sensibilità di ascolto. Anche il dialogo è un candelabro acceso e sfavillante, con piccole fiamme preziose e utili all'assetto di una buona storia, ma anche nemiche dei suoi capelli (troppe personificazioni, chissà dove finirò!). Esprimerò così una mia idea sia da lettore forte che da scrittore.
Credo che sia fondamentale riconoscere un dialogo che funzioni e che arricchisca di luce e di colori la propria prosa, da un dialogo che invece si attorciglia su sé stesso, diventando un traino per i tempi, la logica e per tutti quei delicatissimi equilibri che uno scrittore dovrebbe essere in grado di possedere e di armonizzare, per non perdersi nelle sabbie mobili prima di arrivare a metà della sua  fatica.
In effetti quello che può diventare rischioso, è di rendere i dialoghi - e di conseguenza l'approccio diretto dei personaggi che si incrociano e che interagiscono con la propria voce- troppo letterari, per quanto poco letteraria e stilizzata sia la voce di persone che parlano per comunicarsi qualcosa e non per pontificare sul mondo e sui segreti dell'esistenza. Anche nelle forme di letteratura più sperimentali o surreali, non si deve perdere di vista il tacco della scarpa che batte il tempo e mantiene in piedi la baracca. 
Non trovo soltanto nella forma il problema, ma penso che il personaggio debba necessariamente distanziarsi dal punto di vista dello scrivente- tranne nei casi in cui un pdv di prima persona è inserito in un dialogo, ma lì si aprirebbero altre questioni, da trattare semmai a parte. In effetti si dovrebbe lasciare, in base al contesto e alle caratterizzazioni degli attori, una certa naturalezza, un certo fluire imperfetto. Come accennavo qualche post fa, riguardo alla figura dell'anacoluto, che parte proprio dalle tensioni e dalle apparenti disarmonie del linguaggio reale e comune, un buon dialogo dovrebbe essere abbastanza sporco, sospeso, a volte anche contraddittorio e dissonante con l'ortodossia solita di un testo considerato corretto, e senza incarnare troppo l'immagine del compito da riportare in bella. Il dialogo si fa cattivo quando sconfina in quello che non gli compete, anche se pulito e molto educato nel prospetto della buona scrittura, quello scolastico, intendo. Anche il personaggio più prolisso e logorroico, dovrebbe obbedire a criteri fondamentali di economia e di praticità della comunicazione, e cercare di gravitare intorno a un certo centro, non uscire fiuori dal magnetismo necessario alla sua storia, che in quel momento è la sua vita, e non l'idea astratta di quello che possano rappresentare per lui la sua storia e quindi la sua vita. Un dialogo troppo letterario, o poetico, manierista e incipriato, rischierà di allontanare, sia dalla storia che dalla credibilità di un personaggio.
Un breve esempio su qualche stoccata che ho dato ai dialoghi di un testo, che ho attualmente in revisione. Giusto per divertirci insieme:
1° Bozza: "Non ti capisco, adesso che cosa vuoi dire, allora, che pur sapendo di essere incapace, dovrei continuare a tormentarvi con questa ossessione? A me sembra tutto così assurdo...".
" È che io un'altra scadenza me la darei. Per esempio, perché domani non mi accompagni ai corsi...".
2° Bozza: "Non capisco che  cosa vuoi dire, allora?"
"Allora  cosa? Prenditi un'altra scadenza, ecco".
In effetti in questo piccolo esempio, ho eliminato in tronco tutte quelle informazioni superflue che non aiutavano il lettore a sgusciare i fatti narrati, ma riempivano solo la bocca dei personaggi. L'importante è avere in pugno l'obiettivo e l'effetto psicologico che deve assolutamente imbrattare di vita il lettore e renderlo partecipe ai fatti, quanto più possibile. Dilungando troppo le parole, si perde a volte l'espressione più interessante, in questo caso di spazientimento e di incomprensione tra i due dialoganti, trasformandoli in alcuni casi estremi, in personaggi esagerati, o in piccoli filosofi da strapazzo, che se la suonano e se la cantano da soli.
Nel racconto "La compagna di classe", congegnato tutto su di un ritmo molto serrato, ho davvero eliminato all'osso i dialoghi, talvolta incarnandoli in una forma ibrida di narrazione indiretta e insieme diretta, come in questo caso: "Prima di avviarsi sopra, mi chiedono chi fosse quella  persona che non avevano mai visto, io dico una compagna di classe, perché non so che dire [...] intanto chiamo un attimo Elvira e le chiedo se dal balcone quella sera mi avesse chiamato davvero per nome, ma lei nega, quella sera non si era affacciata, ci siamo solo parlati al citofono, mi dice con sicurezza, che stava cenando e aveva già abbassato le tapparelle da un pezzo".
Buon sabatoa tutti.
l.s.

venerdì 19 novembre 2010

La gioia nelle parole (Lo giuro!)

Non credo ad altro se non alla gioia di celebrare qualsiasi spasmo espressivo che mi riguardi. D'altra parte non mi è mai capitato di incontrare da lettore e da fruitore di testi, qualsiasi spasmo espressivo che non sia stato intriso di una certa parte di gioia pura, come un effetto contagioso di una nevicata notturna che ti spalanca. In ogni caso: credo ancora che l'efficacia di uno stato d'animo naturale e impetuoso, che si fiondi negli altri con la frustata di una tale freschezza gioiosa, completi e semplifichi di molto le ragioni, a volte contorte o complesse, che si cercano in una scelta di scrittura, o di musica, pittura, cinema, fotografia, e avanti all'infinito. Una condivisione di una febbre, una febbre di vita soprattutto. Quanto possa risuonare squisitamente letterario tutto questo potrebbe interessarmi, ma fino a un certo punto. Credo molto nel palleggio saggio e infinito del to play, americano, con cui si affronta uno strumento musicale, un libro, un pallone da basket. Solo nel gioco potrai trovare il compromesso della libertà e del rigore necessari ad aprirti verso un'altra sensibilità. I bambini quando giocano, sono concentrati come un chirurgo che sta ricamando una coronaria o sfiorando un'aorta. Hanno la profonda attenzione assorta del seme della loro esistenza le regole dettate dalla natura del loro prezioso istinto, non ancora contaminata da ciò che è letterario e ciò che è anti letterario. Per fortuna.
Sono ancora contro; sono contro diverse cose, scrivo per combatterle, ma sorridendoci. Senza rabbia ma con cazzimma- consentitemelo- quando incontro il grigiore il termine napoletano ha la potenza di afferrare qualsiasi lingua impacciata con le pinze e metterla in riga, contro la nebbia del cattivo sapere ingurgitato.
Sono contro, per esempio, il grigiore delle ostentazioni sulle verità universali e assolute, su come si debba  procedere dentro un testo. Uno scrittore che gioca è uno che invece fa molto sul serio. Credo che solo con la gioia pura e febbricitante di scrivere, si possa davvero soffrire  un ricordo, raccontare un incubo, un amplesso, una giornata passata al parco, al bowling o in un negozio di animali. E penso che se lo start non sia fiammato al massimo, tutto l'apparato si spegnerà, e finirà a barcollare e a sformarsi lungo un vitottolo come la macchina di Topolino e Minnie, piena di colori ma senza benzina...
Ho paura di quello che può accadere quando si cercano le istruzioni, gli attestati e le consolazioni, perché la propria creatività gioiosa, sia ridotta allo schema prefissato e svilente di fruizione, di fruibilità di un testo.
Si cerca la conferma del talento. Molti lo implorano, vogliono sapere la verità sul loro talento, che assurdità! Il talento... se c'è si sente subito, quando senti le croste e il tanfo quando non ti lavi, se hai un dente malato o hai preso una brutta storta. Chi vuoi che ti dica quanto fa male il tuo dente? Non permetterei a nessuno di mettersi in bocca qualcosa che riguardi un'idea del mio talento, così come mi infastidirebbe il fatto che mettesse una mano sporca nel mio piatto quando mangio. Sul talento ne ho sentite molte. troppe. Tutte parole inutili. È una parte inconfondibile. Lo scrittore di talento non decide di scrivere, non decide di avere talento, non decide, ma si prende cura del suo desiderio e lascia l'odore di forno e di zolfo dalle sue parole, anche nel rinculo di un rutto o di uno strafalcione, c'è la frustata inconfondibile di un lampo nel buio. Nessuno quando vede un lampo, chiede quale saetta abbia più colore, velocità e talento di sfavillio dell'altro. Si tace e si aspetta il tuono. Credo che sia così semplice. Quando non compare il lampo allora non c'è nulla, puoi frugarmi nelle tasche, perquisrmi, dimostrarmi di aver visto qualcosa, pagare i tuoi testimoni, ma poi dovresti mimare i tuoni e l'odore della pioggia e tutto il resto, non avrebbe senso. Il talento deve bastare a sé stesso e fare i suoi casini, senza che debba esserci un riconoscimento. Il vero e autentico talento va dimenticato e mai affrontato.  È l'unico colpevole della maledizione dello scrivere. È molte volte il suo cattivo odore di bruciato o di putrefatto, è uno dei motivi principali di rifiuto, bisogna rassegnarsi. Ma il punto non è questo, è che nei miei contro, elenco tutti i luoghi comuni, che sento di elencare. A sbafo:
Andando oltre: il fatto di non poter  mai peccare in un paragrafo, di purificarsi a tutti i costi, perché oggi va di moda così  e perché i lettori devono essere imboccati e anche se sto usando un cucchiaio da brodo, perché nel mio lavoro c'è del brodo - e non ho scelta: devo usare il cucchiaio o in alternativa il piatto dovrà andare dritto alla bocca- ci sarà sempre qualcuno che mi dirà che avrei dovuto usare una forchetta d'argento, per imboccarli. Perché è giusto così. Quella è la sua verità e non va discussa.
Ancora: oggi la punteggiatura deve avere più peso. Troppo lunghi i periodi. Troppo lunghi i paragrafi. Crei troppe attese, pretese, contese tra le sue parole. Non pensi a chi ti possa leggere. Potresti dare l'impressione di scrivere per te. No, lo stile è involuto. Attento, questo passaggio non è chiaro. Questa roba è assolutamente impubblicabile, devi fartene una ragione, ma no,  la prego, non lo trova lezioso, manierista, oscuro, ombroso, peccaminoso, focoso? Non mi dica, se ne faccia una ragione. Devo farmene un sogno, e allora andremo d'accordo. Non una ragione. Non mi farò mai una ragione di nulla fino a quando non vedrò con i miei occhi quanto tempo avrai dedicato a ogni paragrafo, se hai staccato il  telefono, come ho fatto io  quando l'ho scritto. Se sei rimasto fermo, senza fare altro che spulciarlo e sprofondargli dentro, al di là se ti trovi con il muso dentro balle di fieno o dentro ammassi di concime fresco. Se hai cercato di dimenticare quello che tu credi che sia un prodotto letterario, a favore dell'ebollizione della gioia pura di scrittura non pensata, che sto cercando di farti almeno odorare, se metti da parte la mascherina, togli i guanti di lattice e mi porgi un attimo una mano. Come farebbe un amico. Potresti averne provata abbastanza a sfamarti di parole per mesi, o forse non esserti accostato nemmeno all'ombra della mia. Ma per accostarsi alla gioia pura dello scrivere, devi essere in ascolto. Un testo, anche il  peggior testo, ha bisogno, per la stessa valutazione onesta, dello stesso orecchio e delle stesse vibrisse sensibili e innamorate di uno scrittore vero. Più uno scrittore con un buon orecchio, ascolta quello che scrive e affina alla luce le sue vibrisse, e più sarà difficile adeguarsi a quel tipo di ascolto, e relegarlo,  allontanarlo tra gli anarchici, i surreali, inespressivi, pericolosi contaminati dalla scabbia dello schizzo di acqua troppo fredda. Forse sarò stato felice, e non infelice, come si usa dire in certi casi. Ho scoperto la mia gioia dove è incarnato il dolore sconfinato del mio scrivere. Ed è l'unica cosa che seguo e che dà il senso a quello che faccio o che tento di fare, ma senza inganno.
Il treno rallenta, c'è una piccola stazione, riesco a scorgere i tavolini all'aperto, con le tovaglie a grossi quadri bianchi e rossi, che svolazzano. Scenderò e mangerò qualcosa di buono qui, adesso dobbiamo lasciarci, il nostro piccolo tragitto sta per finire... un'ultima cosa: l'ascolto di una sola frase, al di là della sua forma, è quello che giustifica il nostro rapporto profondo con le cose che viviamo, alle quali ci accostiamo. L'attenzione, prima di tratte conclusioni. L'ascolto di una nuova verità, e non di quella immaginata automatica e propria. Il gusto e il disgusto per quello che si legge, non deve far dimenticare il fiore che sta alla base di qualsiasi balzo espressivo di chi si espone. Non vorrei essere frainteso, lo sarò, ma ho incontrato poche persone davvero felici di scrivere e così innamorate della loro gioia da proteggerla, ma molto attente ai buoni e cattivi criteri di classificazione della forma, dello stile, del periodare. Quando leggo sono del tutto immerso in quello che sto leggendo. Non esiste altro. E avverto la vita attraverso tutto quello che scorre attraverso,  e solo allora potrò capire di cosa si tratta e di quanto mi sia ritornata vicina da potermi dare fuoco
È stata una sforbiciata molto lunga e irregolare, di quelle da sartoria. L'ho scritta con la gioia anarchica di chi crede ancora nelle parole e nell'amore per la propria lingua. In un getto di lava, come dentro un treno già perduto... Ma con gioia, dalla prima all'ultima parola. Lo giuro!
l.s.

giovedì 18 novembre 2010

Dubbi e promemoria (relativo).

Il dubbio, su quello che avrei potuto migliorare, in qualsiasi cosa già fatta, è ormai una costante.
Questa sera, o questa notte -per essere più precisi parlo di circa un quarto d'ora fa- trafficavo nel primo di due grossi blocchi di un grosso lavoro in revisione, e mi accorgevo di quanto non concordassi con molte delle parti che mi sembravano del tutto esatte e ben congegnate e funzionali, quanto meno nel periodo della loro prima sfoltitura. E sono convinto che quelle che adesso sfoltisco, mi troveranno discorde sullo stesso divano, in una certa sera o notte, prima di un certo strano ripetitivo post, se deciderò di dedicare al mio lavoro un'ulteriore scrematura, ma tutto questo fa parte del gioco. Il dubbio, il mistero, le mutazioni, il cambiamento, sono parte delle regole imperscrutabili del maledetto affare nel quale si è caduti. E forse se non ci fossero o se in ogni caso diminuissero, farebbero sentire la loro mancanza.
Prima della buonanotte, un piccolo promemoria relativo alle mie abitudini di scrittura, almeno in questa fase:
Mattino prestissimo: lettura, lettura, rilettura. In attesa del caffè una scorsa a qualche testo abbandonato dalla notte in qualche angolo alla portata, da controllare, decifrando gli ultimi aggiusti nel tempo morto.
Mattino (di solito presto) dedicarmi ai file recenti, quelli di primo getto, quelli ancora con il viso sporco, gli occhi cisposi e assonnati, le spighe nei capelli. Le chiamo bozze prime o selvatiche. Nel caso specifico: bozza estate luglio 2010, quella che ho cominciato più o meno in quel periodo lì e che adesso mi terrà compagnia con le pioggie tardoromantiche di autunno, come sta regolarmente avvenendo. Non ho idea di come finirà ma scorre con molta fluidità, a volte come un ruscello terso e celeste pastello di montagna, altre come uno sbocco schiumoso di chiavica, ma va bene lo stesso. Tutto ancora (ir)regolare.
Pomeriggio tardi o tardissimo, o sera: lettura, lettura, riletture.
Ancora un occhio al blog, alle relazioni in rete, alle bozze più mature, di solito quelle tra la seconda e la terza scrematura. Un occhio ai testi pronti per gli eventuali concorsi più vicini.
Il resto varia. Di solito i testi vengono trascinati, in base al tempo che mi ritrovo disponibile, in vari punti e momenti liberi della giornata, anche in base al mio stato emotivo, al mio umore, alla loro specifica situazione, alle loro condizioni generali di salute. L'importante è baciare ogni santo giorno, almeno con una manciata di parole vive e guizzanti, anche un solo rigo, come un pesce rosso catapultato da una busta di plastica alla vasca ovale di un parco, e cercare di amare ogni attimo passato con loro, anche quelli più difficili e tormentati, perché quegli attimi non ritorneranno più. E leggere anche un solo rigo al giorno, con la massima attenzione, come se fosse l'ultimo della mia vita, e scrivere ogni frase come se fosse l'ultima, salutare un amico, un'amica, come se fosse per l'ultima volta, anche se in effetti tutte le volte saranno le ultime e le prime in assoluto, se vissute con una certa freschezza e unicità di approccio. Con la fame. La grande fame insaziabile di scrivere che non sia più grande della fame insaziabile di vivere, di disegnare, di imparare l'inglese o di guardare gli animali, di parlare con un amico, di scendere, di passeggiare, di avvertire l'arrivo dei primi freddi.
E di sorridere ancora al mondo, che questa della scrittura in fondo, non è nemmeno la peggiore tra le maledizioni! Ne sono ancora convinto. Nonostante.
l.s.

Il cerchio capovolto



PRIMA EDIZIONE DEL CONCORSO

“IL CERCHIO CAPOVOLTO”

(Sussurri in un corridoio lontano)


BANDO DI CONCORSO
1.

Il concorso è aperto a TUTTI gli scrittori, esordienti e non. Non è prevista alcuna quota di partecipazione.  

2.

Verranno presi in considerazione soltanto RACCONTI in lingua italiana, della lunghezza massima di 15.000 battute (spazi inclusi).

Ogni scrittore potrà partecipare con uno o (al massimo) due racconti.
3.

I lavori presentati dovranno essere categoricamente INEDITI, quindi mai pubblicati da un’altra casa editrice e/o liberi da vincoli che ne impediscano l’eventuale pubblicazione.

4.

Il concorso è aperto unicamente a racconti HORROR, ma possono essere declinati nei sottogeneri più noti (fantahorror, thriller sovrannaturali, horror comedy e così via). L’importante è che la componente orrorifica risulti preponderante.

5.

I racconti vanno inviati (in formato .doc, .odt oppure pdf) al seguente indirizzo mail:

concorso@casadeisognatori.com

È obbligatorio allegare, nel corpo della mail, i dati personali e un indirizzo mail di riferimento.
6.

Verranno registrati unicamente i racconti pervenuti tra l’1/10/2010 e il 31/3/2011.
I sognatori declina ogni responsabilità riguardo eventuali racconti smarriti e non giunti in redazione per problemi di carattere telematico, ovviamente indipendenti dalla nostra volontà.

7.

PREMIO: i racconti pervenuti verranno letti e giudicati dalla redazione della casa editrice. I primi 15 classificati verranno premiati con laPUBBLICAZIONE all’interno di un’antologia, che verrà regolarmente editata e inserita nel catalogo de I Sognatori. I racconti verranno sottoposti a editing e correzione della bozza, tutto questo a spese della casa editrice. I vincitori non avranno alcun obbligo di acquisto copie.

8.

RISULTATI verranno resi noti pubblicamente il 2 maggio 2011, sia sul sito de I sognatori sia sul blog della casa editrice. NON verranno inviate mail informative ai partecipanti, che in questo senso sono tenuti a verificare di persona l’inclusione del proprio nome e racconto nella lista dei vincitori.

9.

Gli autori dei 15 racconti vincitori si impegnano sin da ora a cedere gratuitamente, alla casa editrice I sognatori, i diritti di pubblicazione del proprio racconto.

10. 

La casa editrice I Sognatori si riserva il diritto (in caso di necessità) di prolungare la data di scadenza del presente bando, di pubblicare un numero inferiore di novelle rispetto al quantitativo inizialmente previsto (quindici) o – in casi estremi – di non procedere alla pubblicazione dell’antologia, qualora il materiale giunto in redazione non dovesse soddisfare i criteri qualitativi richiesti. Nelle eventualità di cui sopra, tutti i partecipanti verranno tempestivamente informati via mail.

11.

Informativa ai sensi della Legge 675/96 sulla Tutela dei dati personali: i dati forniti dai partecipanti al concorso verranno trattati con la massima riservatezza, e non verranno comunicati o diffusi a terzi a qualsiasi titolo.

12.

La partecipazione al concorso comporta automaticamente l’accettazione di tutti gli articoli del presente regolamento. 
Per domande e informazioni: info@casadeisognatori.com



mercoledì 17 novembre 2010

Faulkner dixit

Faulkner dixit...

EFF Pioneer Awards (Parte 2)


Watch live video from BAMM.tv! on Justin.tv

È stato un buon lavoro?

Quanto si è davvero convinti di quello che si è appena concluso? Esisterà una zona in qualche parte più o meno profonda in cui una voce bassa, da un viso mascherato mi suggerirà qualcosa, semmai con una sigaretta tra le labbra, in tono svogliato: "Non è il massimo, avresti potuto evitarle quelle incidentali, spezzano il braccio alla storia; il periodare va reso più fluido, pesa troppo, colpa della punteggiatura; non si capisce mai bene dove vuoi arrivare, ma nemmeno da dove parti; ma perché i tuoi personaggi sono sempre magri; è probabile che abbia fatto un brutto incubo prima di cominciare questa storia; a volte sembrano versi; e intanto il fumo dalla sigaretta avvolge le pareti della stanza, il mio sentire, l'ascolto di quella voce come un filo di radio nella notte, che ogni tanto smette, dandomi appena il tempo di ragionare su quanto ci sia di vero e di me in quello che ho appena ascoltato. Eppure sembrava un buon lavoro. È un buon lavoro? Quanto è importante credervi dall'inizio o aspettare una conferma perché si plachi il sottofondo fumogeno e notturno sugli esiti delle mie ultime impalpabili creature? 
A volte accadono cose imprevedibili. Alcuni testi molto forti, li amo in modo particolare, sin dalle prime fasi della loro costruzione, quando non c'è ancora l'impianto ma ho già in mente la grana e la pasta del loro futuro, allora so che avranno già una loro strada ben definita, perché sono loro a spianarmela, pare che siano loro gli scrittori e io le loro parole; o come in un corredo genetico particolarmente felice, colgo d'incanto i filamenti, la fisionomia, il potenziale, anche da fasi frammentarie, come in una mappatura che mi si dilata più chiara e mi traduce i suoi codici, senza che debba sforzarmi più di tanto. Una storia già scritta chissà quando, in un sogno o forse una storia che mi ha scelto, per qualche motivo oscuro. Avverto così come un segno, una freccia che mi fa credere nel testo ancora prima che veda una luce di completamento e ancora prima che qualcuno mi dia la conferma del suo valore. In quel caso quella conferma non sarà fondamentale, perché il primo giudice o nemico, è quello che dentro di me ha appena finito di fumare, adesso in maniche di camicia rilegge, compiaciuto, senza obiezioni, pronto per una pennichella o una pescata sul lago. 
Eppure non è sempre così. A volte i pareri, le emozioni e le sensazioni, sono mutevoli, e le parole che ho scritto cambiano a seconda della luce del giorno che scorre sulla pagina quando le leggo, in base all'esito dei miei affari non letterari, delle relazioni umane, della facilità con cui ho parcheggiato o della fila alla cassa che ho trovato in pizzeria. È in quel caso che non so se è stato un buon lavoro, non perché abbia lavorato in modo peggiore o perché sia stato distratto, ma perché la natura e la direzione di quel testo è partita in modo del tutto diverso, e ha quindi bisogno di intaccare il muscolo della lettura per ritrovare una propria identità, come una lunga siringa. A quel punto un giudizio buono aprirà una certa strada, uno cattivo ne aprirà ancora un'altra diversa, e perché no, forse altrettanto interessante. I testi che rimangono sospesi dentro di me, quelli dove frulla sempre un giudizio sommesso e un fumatore sospettoso e mascherato, sono fasi lunari, non sono sempre ormeggi, e a volte, al di là di quello che sarà il loro destino, rivelano la mia maturità o la mia trasformazione e in diversi casi hanno bisogno di maggiore cura rispetto a un testo che amo di più, forse perché mi trascina, per la forza naturale di un suo talento intrinseco e autonomo.
Per questo alla domanda: È stato un buon lavoro?, risponderò di sì. In ogni caso.
È stato comunque e in ogni caso un buon lavoro, se l'ho amato e l' ho vissuto con una buona dose di incoscienza ma anche di meticolosa e vorace attenzione.
l.s.

martedì 16 novembre 2010

Nero Doc

Nero Cafè organizza “NERO DOC”, un concorso gratuito di narrativa per la selezione di racconti di genere noir, giallo e thriller per la pubblicazione sul Nero Cafè Magazine. Gli elaborati dovranno per
llil bando del concorso in pdf

Luoghi e personaggi

Stamattina pensavo, nella pioggia forte. Ancora a casa, per mia fortuna: pensavo a quanto i luoghi e le ambientazioni di una storia, anche la storia di questo piccolo frammento che sto raccontando - con tanto di acqua sui vetri e di scrosci violenti - sono in tutto e per tutto dei personaggi, con il loro temperamento, i loro tratti somatici, i loro vezzi, vizi, passioni, pulsioni. Ogni luogo avrebbe così una sua vita caratteriale e psicologica, e una sua complessa fisionomia, così come ogni personaggio può avere la vastità, la profondità, le luci, le distanze e gli strapiombi di un qualsiasi luogo. Da questa prospettiva potrebbe essere divertente il  narrare, senza troppe delimitazioni, qualche volta ameno provarci. 
Quest'idea mi visita di continuo, e a volte mi porta a non demarcare troppo, in una certa storia, la dinamica dei luoghi e quella dei personaggi, forse per non correre il rischio di creare un' ambientazione fatta di soli umani in stanze nude e anonime, o al contrario, un affresco di mille luoghi senza voci. Sono sensazioni, ma in fondo  penso che i luoghi e le persone di una storia, ruoterebbero sempre  attorno allo stesso fuso di origine. Non nascono staccati.
La pioggia rallenta, adesso fa più chiaro.
l..s.

lunedì 15 novembre 2010

In libreria, considerazioni molto recenti.

L'osservazione dei libri, dei loro titoli,  dei loro costi, delle loro copertine, è una forma profonda di lettura e di una certa espiazione di colpe letterarie. Osservando quante forme nuove di lettura ancora mi mancano e sempre mi mancheranno, sono costretto a una certa raffinata introspezione. Per estendere al massimo la conoscenza delle parole stampate e la salute della mia ignoranza, ancora fragrante, nei pensieri più profondi dei libri, non basterebbe tutto il danaro, l'estensione del sapere cammina e muta forma e linea del paesaggio, non esiste il bicchiere per la sorsata diretta, mi sputa, sfuoca e sfocia in direzioni diverse. 
Osservando alcuni testi che mi mancano, alcuni Sanguineti,-e la sua analisi preziosa del sonetto 19, sfogliata stamattina-, e ancora un certo riedito Carver, per paura di doppiare racconti già in mio possesso e ancora il S.Gennaro di Marai e i preziosismi di Dashiell Hammett, e ancora il libro rosso di Jung, fino al Cimitero di Praga di Eco e alla Cognizione gaddiana del dolore o al terribile uccello dipinto di Kosinski, per citare i più prossimi all'ultimo giro frustrante. Intanto ho recuperato una bellissima edizione delle lettere di Miller alla Nin, una Longanesi. E  anche se li avessi tutti, l'estensione serpeggierebbe ancora oltre, in un caleidoscopico alternarsi di nuovi vuoti successivi a nuove conoscenze, oltre le pareti più ampie del bibliofilo ancora una risacca di ansia infinita. Intanto divoro libri più volte, quelli che in fondo mi marchiano a fuoco, come capo di lettore da bestiame e da loro sto imparando che l'estensione del sapere è un qualcosa anche da perdere e non solo e necessariamente da ingurgitare. Non dovrebbe conoscere digestione nè nausea, ma profumo celebrativo, annusamento, intuizione. Non è cibo diretto. È un passaggio per ottimizzare un ripristino mirato della mia personale informazione, dell'effetto di rifrazione con la mia sola lente impossibile, l'occhiale che sceglie e mette a fuoco che ha bisogno di quello che ha senza possederlo ma del solo graffiarsi con la punta della sua pagina - alcune dita femminili sgorgano sangue anche alla carezza dei quaderni - e come l'inno alla vita di Blaise Cendrars ha sempre tentato di dimostrare, sfogliare anche le pagine di un proprio cammino parallelo.
Mi consolerà allora, ritornare alle vecchie edizioni verdi del mio Mann, che mi attendono nel loro  autunno boschivo sulla vecchia neve delle pagine? È pericoloso arrendersi a una certa impossibilità di fruizione letteraria assoluta?
l.s.

domenica 14 novembre 2010

Passi notturni

Esistono dei momenti notturni molto adatti per ritrovarsi o per perdersi nel pensiero di una certa scelta che hai compiuto e che forse non hai ancora afferrato per intero.
Ho davanti un manoscritto che dopo diverso tempo ho deciso di rimettere in sesto: è un lavoro che pensavo di abbandonare e di lasciare senza ulteriori ritocchi di revisioni, addirittura di distruggere. 
È così tardi, e adesso, a dispetto delle mie vecchie ma non così lontane intenzioni, stavo dando una scorsa ad alcuni punti che vorrei far filare meglio e quindi far rivivere, ad alcuni tagli da fare, e intanto pensavo a che cosa mi abbia portato a riprenderlo, quale parte di me che prima lo aveva dimenticato e ignorato abbia prevalso e in qualche modo deciso di riprendere o meglio reciso la resistenza a riprenderlo. Oppure quale misterioso momento, esperienza o anche piccola coincidenza, avrà fatto sì che io e questa storia ci ricontrassimo. 
Ecco, è proprio questo il fattore che mi intriga molto, intendo l'esplorazione di molti dei passi notturni che compiamo un po' alle nostre spalle, come a tradirci, e che spesso immaginiamo naturali e scontati, quando in fondo così naturali, ma soprattutto così scontati, alla fine non lo sono del tutto. 
Il sapere che in una scelta e in una decisione vi siano ombre e varianti ancora così ignote, mi fa capire ancora di più di quanto sia complessa e impentrabile la sensibilità di un lettore nel relarsi a me o a una mia certa storia, nel momento in cui dovrebbe avvertire l'esigenza di esplorare una mia relativa o presunta verità e dedicarmi parte del suo tempo. Quando non tutti i miei passi notturni in una storia o sulle dinamiche relative al suo destino interno ed esterno, sono stati compiuti in un solo e sicuro certo reale definito, ma accompagnati da un intreccio infinito di visi, di cose, di situazioni passate e di momenti notturni, anche come questo di cui scrivo, che potrebbero costituire un ulteriore fattore di correzione e che sono e che diventeranno la mia vita, a dispetto di quella che io voglio e che desidero che sia, o di quello che avevo appena immaginato che fosse. Allora uno scrittore non offrirebbe solo una parte di sé, ma anche uno spaccato di molto altro, che potrebbe riguardare il lettore in prima persona, quasi quanto l'autore -se la storia funziona - e senza che nemmeno ne diventi consapevole dall'inizio, ma lo avvolga in un torpore graduale e dal sapore ancora molto antico, come il rumore dei passi notturni, che rallentano ma senza fermarsi dalla strada, disturbando e insieme stimolando il tuo sonno. 
l.s.

sabato 13 novembre 2010

Libri come case

Immagino i miei libri come case.
Case trovate aperte o devastate dai ladri, acquistate, regalate o raccattate per caso e nel tempo.
Da abitare e da rivivere, in tutte le stagioni, con le stanze sempre aperte alla luce,
ai fulgori scintillanti del giorno o alla calma di una candela.
I dorsi come tegole, le parole come fiamme di camini...
l.s.

venerdì 12 novembre 2010

A qualsiasi costo?

Riflettevo alla sorte di tutti i miei appunti, che vivono  diversi destini e strade parallele e contorte, molte volte imprevedibili. Ho riflettuto  così sul mio approccio emotivo al testo, fin dai primi attimi in cui comincia a prendere forma e poi cuore, accorgendomi che è proprio il tipo di atteggiamento, di freschezza mentale, di voracità e di tenacia, a decidere per qualsiasi progetto, molto di più delle razionalizzazioni mentali e dei disegni, anche stupefacenti  e intriganti, fatti a motore spento. Intendendomi a motore acceso, quando sono concentrato sull'operazione di scrittura, in fase di immersione e quindi non di analisi e di razionalizzazioni successive o precedenti- ma in fondo rimango a motore acceso anche in forma passiva, quando non scrivo quando in effetti sto scrivendo ugualmente, ma questo è un altro discorso.
Se quindi riesco a mantenere quell'atteggiamento rilassato ma insieme impetuoso, che mi tiene vivo e mi fa credere profondamente in quello che sto facendo anche se non vi sono motivazioni evidenti ed effettive per credervi, nonostante l'eventuale complessità o i "ragionevoli" dubbi che avvolgono qualsiasi cosa si intraprenda da soli e nel buio,  senza nessuno che ti guidi, o che ti incoraggi, allora quel testo ha trovato in me la sua strada di casa o comunque di viaggio verso una qualche vita possibile. 
Una questione di energia psichica, in primo luogo, da cui deriveranno gli approcci di entusiasmo, la resistenza a tutte le  discrepanze, disarmonie e possibili incoerenze che prima poi verranno a farmi visita. 
Quando un testo, anche bellissimo, con un tema intrigante e pieno di magnifici effetti letterari, comincia a raffreddarmisi dentro, e tutte le volte che cammina ha bisogno delle stampelle, e i personaggi cominciano tutti a tossire, a scricchiolare nelle ossa, nei denti, nelle parole, e anche i cieli scricchiolano e  i mari, e le  montagne perdono di altezza,  le cime non sono più aguzze, e le anatre affondano negli stagni, allora vuol dire che non sono più il padrone naturale di quell'idea, che non è più quella attraverso cui posso esprimermi e almeno consolarmi, alla fine, della follia di clausura che mi sarei inflitto in suo onore.
A volte è giusto l'affinare la sensibilità a certe distinzioni, perché,  fino a quando un testo brucia sul serio, varrà sempre la pena di custodirlo e di amarlo, a qualsiasi costo, ma quando comincia a sciogliersi e a sgocciolare, sarebbe il caso di guardarsi meglio dentro.
l.s.

giovedì 11 novembre 2010

Cerimonia di premiazione 8° Edizione 2010 Concorso Internazionale Poesia Haiku

La 8° edizione 2010 del Concorso Internazionale di Poesia Haiku in Lingua Italiana bandito da Cascina Macondo ha visto la partecipazione di circa 750 autori provenienti da ogni parte del mondo con 1765 haiku pervenuti. Si ringraziano tutti coloro che hanno reso possibile il successo della 8° Edizione del Concorso Internazionale di Poesia Haiku in Lingua Italiana: gli autori, il pubblico che ha votato, la stampa, le radio, i siti web, le riviste di poesia e letteratura, le biblioteche, le scuole, gli insegnanti, i prèsidi, i direttori didattici, le pro-loco, i locali pubblici, i teatri, le associazioni, i circoli culturali di italiani all'estero, gli amici che hanno trovato il tempo di appendere un volantino in un luogo lontano.



la giuria
Alessandra Gallo, Annette Seimer, Antonella Filippi,
Domenico Benedetto, Fabia Binci, Fabrizio Virgili, Pietro Tartamella


la giuria onoraria 
Ban'ya Natsuishi (Giappone), Danilo Manera (Italia), 
David Cobb (Inghilterra), Jim Kacian (USA),
Max Verhart (Olanda), Visnja Mcmaster (Croazia), Zinovy Vayman (Russia)
LA PREMIAZIONE AVVERRA' DOMENICA 21 NOVEMBRE 2010 


a Cascina Macondo - Borgata Madonna della Rovere, 4 
10020 Riva Presso Chieri - Torino - Italia
Presenti i Giurati, la Redazione di Cascina Macondo, gli Sponsor, 
gli Autori premiati, la Stampa.
La manifestazione è aperta al pubblico, previa indispensabile prenotazione 
a causa dei posti limitati. Per lo stesso motivo si invita ogni bambino
ad essere accompagnato al massimo da 4 adulti.
PROGRAMMA CERIMONIA DI PREMIAZIONE CONCORSO HAIKU 



* inizio 14,30 puntuali
* lettura ad alta voce intorno al fuoco degli Haiku classificati
a cura del Gruppo I NARRATORI DI MACONDO
* concerto del gruppo ManoSonora con il magico strumento Hang
* proiezione del documentario "Budo: la via del guerriero" (Arti Marziali e Haiku) 
   regia di Diego Vida, Produzioni Cinematografiche FanVision, voce narrante Ivo De Palma
* cottura Raku dal vivo delle ciotole premio
* consegna dei premi e dell'antologia CON FILI INVISIBILI
* termine della manifestazione ore 18,30 circa
PRENOTAZIONI DELL'ANTOLOGIA "CON FILI INVISIBILI" 


(tiratura limitata - edizioni Alba Libri)
che raccoglie i 114 haiku classificati 
COSTO A COPIA EURO 12,00 + SPESE DI SPEDIZIONE



COMUNICARE LA PARTECIPAZIONE ALLA PREMIAZIONE CON UNA EMAIL 
COMUNICARE LA PRENOTAZIONE DELL'ANTOLOGIA CON UN'ALTRA EMAIL
VINCITORI - SEZIONE INDIVIDUALE



1° Premio  Fanny Casali - Italia - Genova 
2° Premio  Graziella De Poli - Italia - Genova 
3° Premio  Eduard Tara - Romania - Iasi
VINCITORI - SEZIONE COLLETTIVA



1° Premio   Andrea Bonis - Elementare "Cena-Abbadia di Stura" - Italia - Torino
2° Premio   Ilaria Carrera Nulla - Elementare  "Lessona" - Italia - Torino
3° Premio   Antonella Giraudo - Media  "Vittorio Montiglio" - Santiago del Cile
per conoscere tutti i 114 autori selezionati e altri dettagli clicca qui:
Vincitori