lunedì 28 giugno 2010

La stanza nuda (Seconda e ultima parte. Bozza)


Paul, continuando:
"Volevo trovare solo il momento giusto. Tu lo sai che non è sempre così facile trovarlo. A volte non si trova, ma quel momento si indovina o ti indovina. Ti sbuca lui davanti e ti crea l'illusione che sia lui, quando invece non è così. E tu parti lo stesso, senza pensarci. Non potevo sapere se dovevo partire o meno. Se dovevo aspettare.  Aspettavo un loro particolare del viso, un gesto , una parola. Aspettavo che mi chiedessero qualcosa loro, ma nessuno dei due aveva o trovava il coraggio. Nemmeno io trovavo il coraggio. Volevo soltanto che il coraggio trovasse lui me. Che il momento giusto mi imbracasse e mi cavalcasse. Come forse avresti voluto fare tu, prima di farti seppellire in questa tomba, perché questa stanza è una tomba e di sbagliare ancora una volta compagno.
Loro due aspettavano me, ma io aspettavo loro, almeno uno dei due. Il primo che mi desse il segnale per partire. Quello che mamma usava quando ci chiamava per il pranzo, e noi eravamo lontani. Bastava l'inizio del segnale, a qualsiasi ora, e si sentiva già l'odore del cibo, dalla sua voce e il suo braccio alzato, nella luce delle dodici che ci chiamava. E io adesso ero ancora a capotavola e aspettavo il segnale per invitarli a pranzo nelle tue viscere, nella tua testa, Olivia. Perché nemmeno io avevo il coraggio. 
Papà si alzo e prese una bottiglia di vino. La aprì stando in piedi, come faceva sempre, quando c'eravamo tutti; lo faceva per controllare i movimenti, per estrarre al meglio il tappo e non far scivolare la lacrima dal collo alla tovaglia. La mamma forse non l'avrebbe nemmeno più notata, abbandonata com'era, ormai; ho avuto anche la sensazione che non mi capisse nemmeno più, o che forse non sentisse più bene come l'ultima volta. O che fingesse di non esserci, o di non capire o di non sentire. Papà stava attento lo stesso al vino sulla tovaglia, perché l'istinto del controllarsi a tutti i costi, gli era rimasto. Allungai il braccio al bicchiere. Il vino scivolava quasi viola, come i fichi finti, per quanto fosse profondo di note fruttate, di storia e di sapore. E così, ingoiando la prima sorsata, ho trovato il coraggio di raccontare di te. Non ho avuto il segnale, è stato il bicchiere. Un bicchiere pesante come il sangue. Così ho detto quello che tu mi hai chiesto di raccontare. Niente di più".
"Tutto, tutto quello che ti ho chiesto? Come ti avevo detto, Paul? È così?".
Paul la guarda. Stavolta le fa cenno con il capo, come Olivia gli aveva chiesto prima. Poi riprende, evitando di guardarla.
"Ho raccontato tutta la verità. Del fatto che ti sei divorziata, che quella non era una semplice crisi, come avevi fatto credere; e che adesso c'era un altro uomo, ed è per questo che tutte le volte che chiamavano il tuo primo marito, per loro l'unico e ancora vero, non c'era mai. Perché già era altrove. Altrove da te, e da me e da loro. E ho anche detto che questa bambina l' aspettavi da quest'uomo  che nemmeno tu conoscevi, e che adesso la piccola Alice è con una balia, che poi sarebbe la sorella del tuo compagno, in attesa che tu ritorni e che tu volevi incontrarli al più presto, e che lui è stato comprensivo e che ti ha lasciato libera, ma che non avrebbe mai permesso che sua figlia venisse in Italia a trovare i nonni. E che forse non l' avresti nemmeno voluta con lui, perché quest'uomo è quello che tu non credevi e che non sapevi che fosse. Ma io ti ho difeso, dal loro silenzio e dai loro occhi severi, si intende. Ho detto che nessuno di noi può mai sapere niente prima, di chi sia davvero quello che si incontra o che si crede di incontrare. Non siamo indovini. Se non si vive e non si sbaglia allora non si sa mai troppo. E tu stai cercando di risalire a galla, ma che avevi bisogno solo di ritrovarti con loro, e che forse solo adesso lo avevi capito...e poi basta. Ho visto che cominciavano a impallidire tutti e due, ancora di più di come li avevo trovati. Papà ha slacciato quel brutto nodo della cravatta e ha riempito un altro bicchiere. La mamma invece è rimasta immobile, senza parlare, né muoversi. Non hanno avuto il coraggio di chiedermi più niente, nemmeno riguardo al tipo di malformazione di Alice, e riguardo te o quest'uomo oscuro, che adesso ti starà aspettando e che si crede amato e che non sa che tu non sai se vuoi vivere davvero con lui, e nemmeno a loro l'ho detto, nemmeno il fatto che tu non ami più niente della tua vita, nemmeno Alice. 
Sono rimasti solo muti, tutti e due. Trasformati dalle loro ombre e dalle nostre, che adesso erano una sola, anche se tu eri lontana, eri nella stessa ombra di quella stanza, che di colpo si è fatta nuda come questa di adesso, come la tua. Erano muti, come  all'inizio ero muto io, non appena sono entrato qui. Anche io sono rimasto muto come loro due, per vederti da sola in questa specie di bara".
"Non ti hanno detto se vogliono vedermi?".
"No, non hanno detto quasi più niente. Papà ha preso la scacchiera e mi ha chiesto di giocare. La mamma invece ha stracciato tutte le tue foto, tutte, tutte quelle che aveva, anche quelle in cornice, da bambina, da ragazza e quelle del matrimonio, e anche la copertina che aveva lavorato a maglia, la voleva bruciare. Ha distrutto dei piatti, mentre io e papà giocavamo a scacchi, e facevamo finta di niente. Ogni piatto chiudevo gli occhi. Poi li riaprivo e guardavo il viso di papà. Magro e lontano, come te nella foto. Sono riuscito a salvare solo questa, questa foto di cui ti accennavo prima. Il tuo primo giorno di scuola, te lo ricordi, scema?".
Paul la estrae dalla tasca e la distende sul tavolo. La pioggia rallenta. Olivia accende la luce e avvicina la sedia al tavolo. La guarda.
Perché scema?”.
"Perché eri morta di paura. Come ora".
Paul le carezza il viso, allontanandole i capelli da un occhio. Un occhio stanchissimo, come quello di suo padre.
Guarda come ero piccola. Ero piccolissima, tu ti ricordi di me quel giorno lì?”.
Un po' sì...”.
Un po'?”.
Paul guarda la foto, la fissa e non le risponde. Sorride alla foto, ma non le dice niente. Olivia prende gli occhiali per cercare di guardare meglio. Rimangono vicini, nella stanza nuda.
Spegni la luce, per favore. Voglio stare ancora un po' così. Vicino a te”.
Paul si alza e spegne la luce. Poi ritorna a sedersi.
l.s.






domenica 27 giugno 2010

Stanza nuda. (Bozza grezza)

I

Stanza nuda. Poca luce da un finestrino. Un uomo è su di una sedia, ben distante dal tavolo. La donna poco più indietro, ma in piedi. È più vicina al tavolo. La donna è sua sorella.
"Sei ritornato ieri sera, e ancora non dici niente".
L'uomo,  fratello della donna, non fa che fissare lo stesso punto del tavolo. Un punto centrale, dove stacca un grappolo di frutta finta sulla distesa del marmo grigio. Ci sono mele, arance, ciliege e fichi. 
I fichi finti sono quelli viola, quasi neri. Hanno poco di verde. Sono di un livido notturno e di gas. Lo stesso sguardo dell'uomo. Il suo nome è Paul. Il suo viso ha le stesse tinte del tavolo e sotto gli occhi delle lunghe borse profonde, della stessa cromìa dei fichi finti. Sono fatti così bene quei fichi finti. Sembrano veri e viola, come i fichi veri e come il dolore che nutre il suo sguardo basso e quel loro incontro. Quello di Paul. Sua sorella sposta gli occhi alla frutta, come per rincorrere e accalappiare qualcosa, da quell'istante gravoso di silenzio al suo vuoto d'aria. 
Quel silenzio pesa, più della penombra, più del suo divorzio, del suo primo aborto, della sua solitudine, ancora così giovane ma già così vorace. Il suo grande rampicante, la sua solitudine. Quella che stacca sui muri e di solito, come l'edera, attira i topi, anche quelli snelli, con le loro acrobazie. La sorella si chiama Olivia, come l'attrice di Grease. Guarda la frutta e segue gli occhi e il buio di Paul. Poi ritorna sopra, alle sue borse e alle sue occhiaie.
"Non mi dici ancora niente. Così mi fai stare male. Abbiamo mangiato e bevuto, hai avuto tutto il tempo per stare un po' per conto tuo. Nemmeno un bacio. Tu sei mio fratello Paul. Mi dici che cosa ti succede?".
Lo sguardo dell'uomo è impassibile. Non ha molti anni più di Olivia, ma in quel momento sembra suo padre.
"Che cosa hanno detto papà e mamma? Hai cercato di spiegare quello che mi è successo? Perché non sono più andata da loro? Ti avevo pregato di dire tutto quello che non sapevano, che forse tu eri l'unico che potevi farlo, con la dovuta obiettività, perché sono certa che tu lo abbia fatto, Paul, non è vero che lo hai fatto? Almeno muovendo la testa, dimmi solo se hai cominciato a parlare con la mamma. Almeno questo. Non riesci nemmeno a fare un sì oppure un no con la  testa?".
L'uomo rimane fermo. La sorella Olivia è disperata. Fuori comincia a piovere. La pioggia scende all'improvviso, fitta come un bosco di spilli argentati.

 II
Passa il tempo e scende la pioggia. Rimangono ad ascoltarla, come se forse li calmasse o come se fosse fatta di parole umane. A volte la pioggia è fatta delle parole umane troppo sottili o pericolose da doversi dire. È un filtro, una balia. Ma parla.
Paul si alza e si avvicina al flebile punto del finestrino dove filtra la luce. L'unico punto di luce nell'antro. Cerca di guardare fuori, ma si scorge ancora molto poco. Tutto molto opaco, come il loro incontro. Olivia si spegne, sul tavolo. Prende una mela finta e la stringe nella mano, giocandoci.
Paul a quel punto comincia a parlare.
"Sono arrivato di sera tardi. Mi avevano anche aspettato per la cena. Non lo credevo. C'era il mio posto, tra loro due. Ero al posto di papà: a capotavola. Non mi è mai piaciuto stare a capotavola. Mi sembra di dover incarnare un ruolo, una posizione gerarchica sul cibo, sulle bocche, sui pensieri dei commensali. È un posto violento. Il terrritorio della tavola è violento. I bambini quando giocano a tavola sono violenti. Come lo eri anche tu, quando arrivavi trafelata e mangiavi senza guardarli e già covavi il tuo odio per loro due. Il tuo odio contro il loro amore. Che lotta impari. Ti illuminavi dentro quell'odio, come una stella. Sei stata una regina  che brillava, quando eri con loro due e potevi odiarli a sazietà, al massimo delle tue possibilità. Non è stato il tempo a renderti meno bella, ma il fatto che si fosse raffreddata quella grossa sacca di odio per i nostri genitori.
Mi hanno aspettato, come due ragazzini. Si fanno sempre più piccoli, tutti e due. Fanno a gara a chi perde spazio e corpo sul mondo. Perdono gli oggetti dalle mani. Mamma è inciampata due volte, davanti a me e si arrabbia se la voglio aiutare. Dice che è colpa dei pavimenti, che è da una vita che si dovevano cambiare. Non hanno nemmeno più un buon odore, nessuno dei due. Così la loro casa è impregnata di loro, dei loro acciacchi, delle loro cattive essenze, della loro paura; di morire, per esempio. Di morire presto o prima di una grande gioia o di un diversivo. Di morire prima che la morte sia una perdita di qualcosa di vivo e di bello, e non una semplice voltata di grigi anonimi, di due giornate uguali. Cercano qualcosa di importante da perdere. Non da ricordare. Qualcosa che giustifichi il dolore di una fine. Noi due non valiamo ancora tanto, Olivia.
Il papà, soprattutto lui, si trascura parecchio. Pensa, che aveva messo anche la cravatta, con un nodo tremendo, tutto sbagliato e i bottoni della camicia erano sbagliati. Gli tremano le mani, quando prende le pillole e il bicchiere o solleva una posata. E poi quella cravatta aveva una macchia, molto visibile, almeno per  i miei occhi, ma non per i loro. Anche la mamma, che un tempo era così precisa e ci teneva così tanto alla precisione, all'ordine alla pulizia, e lo tormentava, a papà, ti ricordi? Adesso è così cambiata. Aveva un vestitino molto più largo, dove si perdeva. Sembrava una bambina. Sembravi tu, Olivia, tu da piccolina. Tu, il primo giorno di scuola. Hanno preso le foto e ti ho visto. Avevo una sorellina molto ma molto carina.
Ci hai fatto sorridere quando sei comparsa tutta spaventata sul loro tavolo, come ci facesti sorridere quando venisti al mondo e io ricordavo con loro che stavo in classe, nel turno del pomeriggio, e quando arrivò in direzione la telefonata con la notizia del tuo arrivo, la maestra procurò un cartoncino rosso con una bustina, dove scrissero un messaggio di benvenuto con tutte le loro firme. In quel momento sentìi che cosa significava la felicità. Me ne accorsi nelle lacrime, senza ridere. Mi misi a ridere alla fine, quando mi presero in giro per l'emozione provata, e mi fecero l'applauso e io con la risata piangevo ancora di più. Perché sapevo che quella felicità era troppo grande e troppo breve per il mio cuore affamato di allora.  Non ci si può consolare dalla felicità che finisce. Dal dolore è possibile, ma dal dolore dell'essere felici per poco, non c'è rimedio.
Con loro due ho parlato così poco di me, direi quasi niente. Sapevano che avevo fatto tutta quella strada per te, ed era vero. Ritornare in Italia, con un altro volto, altri occhi, con la barba incolta e le scarpe nuove, solo per te. Per parlare di te, e non di me. Con loro due non avevo e non ho mai avuto nulla da chiarire. È sempre stato  tutto molto disteso, molto liscio e impeccabile. Troppo, forse. Li ho semplicemente ignorati, fingendo di amarli. Li ho accontentati, a  mio modo. Almeno non ho dato adito a questioni, a rimorsi. È rimasto tutto insonorizzato, molto composto. Le giuste carezze alla mamma, di sera, quando le spegnevo la radio e le chiudevo gli occhiali. A tavola cercavo di distrarre papà e poi le menzogne, sempre così ben congegnate. Il fatto di aver trovato un amore così lontano, e di non poterlo portare lì da loro, perché lavorava e non poteva lasciare la città, mi giustificava. Il fatto di promettere loro dei nipoti, quando intanto erano concentrati sulla tua gravidanza, e io ero passato già nell'ombra, come adesso, che non sono nemmeno un figlio ma un semplice messo che porta le buone nuove e le novelle più varie, mi giustificava ancora di più.
Così ero seduto a capotavola,  e riavvolgevo il nastro della nostra vita con loro, ma dentro di me,  prima di scovare il modo per parlargli. Non sapevo come cominciare. Il fatto che tu avessi portato avanti la gravidanza, li aveva tranquillizzati. Ormai si aspettavano le foto, e non vedevano l'ora che le tirassi fuori. Sapessi quanto è stato difficile, almeno all'inizio. Sviare e parlare di altro, tentando di far dimenticare o di trovare il sistema per dire tutto, fino in fondo, come tu avresti voluto".
Olivia non lo ha interrotto nemmeno per un istante. All'inizio, quando ha cominciato a  parlare, si è voltata di scatto, per guardargli gli occhi e la bocca che si muovevano insieme, dopo tanto tempo. Poi continuando ad ascoltarlo, ma guardando la frutta. I fichi violetti e cupi, soprattutto quelli. Sembravano veri.
"Continua, Paul. Non ti guardo ma ti sento. Continua".
Paul prende una sedia, la scosta e se la sistema vicino ad Olivia.
"Tu come stai, adesso?".
"Non lo so. Voglio che tu continui. Ti sto ascoltando".
l.s.

sabato 26 giugno 2010

Che cosa è importante

A volte penso a cosa sia davvero importante. Almeno per  me. In questo momento che lo sto scrivendo o forse anche oltre o prima che abbia cominciato a scriverlo. È importante quello che io credo abbia un valore per me? E non è detto che lo abbia necessariamente, solo perché lo abbia deciso io. Che sia un valore assoluto, intendo.
La bellezza di un libro, per esempio, o di un film, di un quadro, di un grande disco, di un ruscello, di un sorriso, di un coito, di un palazzo antico, di una vecchia cagna zoppa, di un camino acceso, di una serranda che si abbassa di colpo, di un confine invalicabile, di un cervo, di un viale notturno? Saranno forse gli odori dei bar, nel freddo di un inverno, o quelli di un cinema vuoto, di una chiesa o di una sala da biliardo immersa nel fumo e nelle voci? 
 Tutto quello che credo sia importante, lo sarà mai davvero? O lo sarà ancora, se lo è già stato? Saranno le cose che ho dimenticato o nemmeno sfiorato, a essere invece fondamentali per il mio formarmi, non per la mia formazione, ma per il processo vivo del mio formarmi? O forse invece non lo saprò mai?
Sarà forse solo questa, in fondo, la cosa più importante?
l.s.

Canzoni di famiglia...

Esca americana (bozza grezza)

Conoscevo da poco il surfcasting. Era stato un caso, forse nemmeno una precisa passione perché cominciassi a praticarlo. Un regalo di compleanno, da un cugino. Un compleanno vicino all'estate potrebbe riservare regali di quel tipo, ma in fondo era la prima volta. Una canna da surfcasting. In carbonio, grigia come un cielo dublinese.
Mi esercitai diversi pomeriggi di luglio, in solitudine e senza esca, solo per imparare la direzione, il gioco del mulinello, l'arcata del braccio. Improvvisavo. Avevo acquistato anche un libro, ma inventavo i lanci di sana pianta, come figure immaginarie.
La prima volta che la inaugurai sul serio, con un'esca viva, vera e propria, fu di notte. I miei dormivano. Mia moglie si coricava presto con Valeria, stessa stanza, stesso letto. Io ero reclutato nel soggiorno.
A mia moglie piaceva scendere presto sulla spiaggia. Io fumavo sul balcone, fermo. A guardare il cielo, a pensare all'esca americana che avevo nascosto in frigo. Mia moglie Silvia non avrebbe mai tollerato dei vermi rossi e vivi, accanto alla frutta del mercato, anche se rinchiusi in un contenitore di plastica. Dovevo nasconderli per bene, altrimenti me li avrebbe buttati.
Fumavo e guardavo il cielo. La luna crescente, nel sereno notturno; il vociare dei villeggianti da un residence vicino. Si cenava all'aperto, e dalla mia casa era già tutto spento. Nel giardino di fronte si accendeva il barbecue, e i bambini correvano. Ma noi non avevamo amici. La bambina faceva vita di vacanza con la madre, senza concedersi ai coetanei. Sembravano due donne adulte. La stessa crema solare, gli stessi occhiali, gli stessi gesti, quando si pettinavano vicine e mi salutavano in coro, senza nemmeno voltarsi. Andavo a letto tardi e dormivo tutta l'estate in un'altra stanza. Nel piccolo soggiorno.
Per la mia insonnia preferivo vedere dei film fino a tardi, così mi faceva anche comodo. A volte qualche western. Poi fumavo e non  chiudevo mai gli occhi prima delle due. A volte la radio nelle cuffie.
Quella notte non mi andava di andare a provare la canna di surfcasting. Ma avevo comprato l'esca; non avrei potuto nasconderla ancora per molto. Si sarebbe guastata e domani avremmo avuto ospiti. Silvia avrebbe trafficato parecchio nel frigo, dopo la spesa. Prendo la canna, l'esca, le sigarette, un golf arancione e le chiavi dell'auto.

Raggiungo la spiaggia in breve tempo. La vita del paese sta cominciando appena,  a quell'ora. Non ci sono altri pescatori; posso preparare tutto con calma. Ho portato tutto l'occorente. La torcia, la struttura di sostegno per la canna, un secchio celeste e anche una piccola sedia pieghevole. I primi lanci sono disastrosi, così come l'inserimento del grosso verme americano sull'amo. Le mani me le insanguino, sono appiciccate dal verme schiacciato. Poi, dopo il primo lancio più o meno riuscito, lascio la canna nella forchetta del suo sostegno. Attendo la toccata accendendo un'altra sigaretta. Mi siedo e chiudo un po' gli occhi. Mi sento il sonno che mi cammina addosso. Ho portato il telefono. Lo accendo. Nessuna chiamata, nessun messaggio. Una foto di Valeria, che mi stringe forte la faccia e mi sorride. I capelli corti e bagnati, da una piscina azzurra dell'anno scorso. Poi dei passi leggeri, alle mie spalle.
Qualcuno nel buio, che cammina. A braccia conserte, i capelli raccolti all'indietro, un golf bianco sulle spalle, annodato all'altezza del torace. Cammina ancora e forse mi guarda. Poi abbassa gli occhi nel secchio, ma non si vede niente perché è lontano dalla luce della torcia.
Fingo di non accorgermene. Ha una sigaretta spenta in una mano. Controllo la canna, quando mi chiede di accendere. Si avvicina. La faccio accendere e parliamo. Si accovaccia a terra mentre io aspetto la toccata lei aspetta le mie parole, come pesci. Non voglio armeggiare in sua presenza la canna di surfcasting; sono troppo inesperto. Lascio la canna con l'esca al suo destino. Tiro di fumo. La guardo alzare la testa all'indietro, e cacciare tutto il suo fumo fuori, verso le stelle.
"Sei da molto qui?".
"Sono arrivata stasera".
"Non ti ho mai visto".
"È il primo anno qui. Non conosco ancora nessuno".
"Io vengo qui da molti anni, invece. Conosco tutti, ma non vedo più nessuno".
"Sei qui da solo in vacanza,  o solo per pescare?".
Non so che cosa risponderle. Penso a Valeria che dorme accanto a mia moglie e le dico la verità.
"Sono con mia moglie e con mia figlia, in vacanza. Sono a casa. Non amano la pesca. Nemmeno io sono qui per pescare. La canna è stata un regalo di compleanno".
Non mi risponde. Continua a gustarsi il fumo.
"Hai preso qualcosa?".
"No, non ancora. Sono qui da poco".
"Mi fai provare un lancio? Uno solo, però. Quando vuoi".
 Non so nemmeno lanciare. Come avrei potuto insegnarle qualcosa che non sapevo fare nemmeno io? Così non le rispondo.
"È il primo anno. I miei hanno comprato da poco. Dicono un affare".
Il pesce non attacca. Nessun pesce di quel mare decide per la mia canna. L'unica canna da lancio per quella notte. La canna non si muove, né io mi azzardo a smuoverla. La ragazza dimentica di chiedermi un lancio, ma parla con me, fino al mattino. Con un filo di voce, come una lenza che ronza e che ritorna sull'acqua, mi dice cose indimenticabili e mai sentite, ma che per paura ho scordato. Anche io rispondo con parole indimenticabili, che forse non avrà mai sentito. Ci spaventiamo entrambi, allo stesso modo. Dimentichiamo. Ci scambiamo soltanto i golf, almeno fino a quando fa chiaro. Lei l' anonimo arancione da uomo, io il suo bianco lacoste.
Aspettiamo l'alba. Accanto ai vermi rossi, ancora vivi nel contenitore. Mi chiede di vederli, prima di andare. Si abbassa sui calcagni e li sfiora con un dito. Lo ritrae e poi lo avvicina ancora.
"Domani, o meglio...oggi che fai? Ritorni qui?, mi chiede, continuando a guardare nel contenitore.
"Ci ritorna mia moglie con mia figlia. Io scendo sul tardi. Saranno qui tra qualche ora, credo".
Non mi risponde. Poi si alza e si scrolla la sabbia dai pantaloni, guardando ancora verso la mia esca americana.
"Che cosa ci farai con questi vermi?".
"Non ne ho idea, penso di  buttarli, ormai...".
"Domani notte nemmeno ci ritorni?".
"Non penso, ho già fatto molto tardi stanotte. Poi ci saranno ospiti, domani".
Ci salutiamo. La ragazza mi chiede di conservare lei i vermi, se ho deciso di buttarli. Acconsento. Le chiedo dove posso incontrarla. Lei mi dice che non ha senso.
Spunta il giorno. Mi saluta con un bacio, poi lo sposta e mi apre la bocca con la sua bocca. Mi cade la torcia ancora accesa. A lei il mio golf arancione. La canna in quel momento vibra. Trema, dell'impennata di un pesciolino mattiniero, improvviso. Un uomo giovane e un altro più vecchio, stanno scendendo proprio in quel momento con le scarpette di gomma, per cominciare una corsa verso la riva ancora sanguinante di luci. Hanno una tuta rossa, entrambi molto vicini. Lo stesso colore della mia esca americana.
l.s.

giovedì 24 giugno 2010

Caro professor Varidàni (Bozza di studio epistolare con intreccio)

Caro professor Varidàni, non so se si ricorda di me. Io non credo di averle lasciato un così bel ricordo, e allora è proprio per questo che mi sento di scriverle, per mettere un po' di ordine, e per il tempo che è passato e che non è riuscito a medicare la nostra ferita. Ma credo che ci sia sempre tempo per un chiarimento, quando qualcosa si tiene sepolta per troppo tempo, è giusto che incontri il suo momento di luce. La mia e la vostra ferita, maestro. Saranno diverse o le stesse, ma sono due ferite, mi creda. Sono convinto che adesso comincerà a ricordare, per lo meno quale fu il mio ruolo nella tragedia, anche se forse non lo avrebbe mai immaginato. Ma almeno proverò a dirle quello che è davvero successo e tutto quello che so, per liberarmi e liberare anche lei dal dubbio atroce che ancora la dilania. Vorrei anche dimostrarle che quello che io ero all'epoca, adesso non sono più, anche se lei sarà libero di non credermi, dopo questa lettera, ma è giusto che cominci. Io ho bisogno di dare sfogo alle mie parole e tentare l'azzardo di questa medicina amara e dolorosa, altrimenti non mi darò mai più pace e non consentirei nemmeno a lei di ritrovarla.

La scuola media Carducci, se la ricorda, aveva organizzato quella gita, alla quale anche i suoi due figli, Alberto e Andreina, prendevano parte. Fu in quella occasione che li conobbi meglio. Prima soltanto di vista, ma anche solo di vista, per il solo motivo di essere i figli di un maestro così severo, già li odiavo, dal mio profondo. Non lo so se vi fosse un solo motivo per quell'odio, ma io ero quello che li odiava più di tutti gli altri, ero sicuro. Non conoscevo cosa fosse l'odio, prima di incontrare suo figlio Alberto, è bene che lo sappia. Conoscevo la rabbia, il rancore, ma non l'odio. Dicevo e pensavo che fossero dei privilegiati e che non avrebbero mai perso l'anno, come era invece successo a me, per ben due volte di seguito e per colpa sua, se lo ricorda, vero? Odiavo Alberto e Andreina perché non riuscivo a trovare il coraggio di odiare lei, maestro. Di farlo direttamente; ecco, forse, il perché.
Avevo perso quegli anni per colpa sua, almeno così pensavo allora, e anche perché io non avevo nessun padre acculturato e maestro come lei, che insegnasse alla mia scuola. Avevo solo un padre balordo e violento che ritornava a casa di rado e molto tardi; una madre nevrotica che lavorava in una piccola latteria e una zia sordomuta, che cuciva tutto il giorno e di notte russava e dormiva nella mia stanza.
Non chiudevo occhio la notte, Caro professor Varidàni, e al mattino cercavo di svegliarmi prima per recuperare tutto quello che non avevo fatto. Mentre la zia cominciava lentamente a ravvivare di piccole fiamme e tepori la cucina, io occupavo il tavolo e ripetevo ad alta voce le ultime cose della lezione. Le chiamavo cose, perché non avevano altro che il peso di oggetti vuoti, inutili e pesanti, come le parole delle sue lezioni, che schiacciavano ogni minuto della mia vita come tegole o mattoni scheggiati. La zia mi guardava, senza capire, a volte con compassione, quando credeva che le parlassi e che tentassi di dirle qualcosa di me, perché la fissavo e credeva che ce l'avessi proprio con lei, e io lasciavo che lo pensasse. In fondo ero l'unico a darle un po' retta in quella casa e non mi costava niente illuderla che fosse al centro dei miei poveri pensieri. Mio padre non aveva il tempo di dedicarsi a lei, a causa delle cinghiate sulla bocca che dispensava a mia madre, ogni volta che la vedeva parlare con qualcuno al negozio e sorridere, o anche quando non parlava, quando ritornava ubriaco, era lo stesso. Doveva muovere le mani su qualcuno di noi, altrimenti non trovava pace.
Nemmeno mia madre aveva tempo di badarle, dico alla zia sordomuta, perché era troppo presa a parlare con qualcuno alla latteria e a sorridere, quando mio padre non c'era, e a difendersi dalle sue cinghiate, non appena lui rientrava per castigarla e poi montarsela senza pietà, nell'altra stanza, come se fosse una vacca o un animale. Quando si amavano lo facevano come due animali. Li sentivo solo io. La zia dormiva ed era sorda, e così rimanevo l'unico testimone dei loro mugolii e della loro fame violenta. Una volta sentii che era lui a chiedere alla mamma di ridere e fare i sorrisi ai clienti, che a lui le piaceva la moglie civetta e anche un po' sgualdrina. Voleva che li tentasse, che si facesse guardare e che poi la sera gli raccontasse tutto, per filo e per segno. Voleva sentire i loro occhi del giorno, nelle sue mani della notte, per premerli e per schiacciarli, dentro un palmo, come mosconi. Ma poi si dimenticava o si pentiva o era mia madre che si faceva prendere troppo la mano nel raccontare, e allora lui non ci vedeva più. Queste cose forse lei non le ha mai sapute, Caro professor Varidàni, ma adesso le sa.
In fondo ero l'unico che aveva un po' di spazio per mia zia, e così la confondevo e ogni tanto le lasciavo dei biglietti affettuosi, in cui le dicevo che era l'unica che mi voleva bene e che mi sorrideva, perché in fondo di sorrisi non ne ricevevo mai e non ne riceveva mai nemmeno lei, da nessuno dei miei genitori.
È forse per questo che non ero capace di darli e nemmeno di restituirli i sorrisi, soprattutto quando mi venivano dati gratis e senza meritarli.
Il mio odio per i vostri due figli, che in fondo a me non avevano fatto niente di male, aveva radici profonde, che ho scoperto solo da poco e che solo adesso ho trovato il coraggio di smuovere dal loro terreno. Non capivo l'affetto muto della zia, ma cominciai a scorgere quello di sua figlia Andreina, che a volte cercava di proteggere il suo fratello più piccolo, quando io li minacciavo, soprattutto quando i maestri mi avevano annunciato la perdita dell'anno, della terza media, per la seconda volta. Allora non ci vidi più. Mi ero prefissato di terrorizzarli, perché davo la colpa soltanto a voi, più che a tutti gli altri. Li aspettavo fuori scuola, con il temperino graffiai anche il viso di Alberto e fu allora che mi accorsi del grande cuore coraggioso di sua figlia. Fu proprio Andreina che si mise davanti a lui, allargando le braccia, con il suo grembiule nero che le sbatteva dal cuore, come se fosse un gatto che premeva per uscire. E mi diceva: "Alberto è più piccolo. Graffia me, lui non ti ha fatto niente!", e così, la dolcissima Andreina, mi disarmò. Con un gesto di coraggio, che io all'inizio non capivo, piegò la mia caparbia e cominciò a intenerirmi e trattenermi dai miei propositi sinistri verso di loro, ancora più della zia Sofia sordomuta, più dei pochi pomeriggi di mare di giugno e di tutto quel poco che mi aveva intenerito in tutta la mia povera esistenza.
Ogni sera raccontavo alla zia dei miei sentimenti per Andreina e li scrivevo su alcuni fogli che leggeva, come un romanzo a puntate, immaginando di prendere la mia parte o a volte la sua, e sognare un lieto fine con me.
Cominciai ad abbassare il viso, con i suoi ragazzi, per colpa di quel primo amore che mi stava attanagliando e pugnalando alle spalle; anche quando mi evitavano, soprattutto suo figlio Alberto, per il terrore,; ma io volevo ingraziarmi la loro fiducia. Volevo che mi considerassero cambiato, anche se in fondo ero lo stesso, ma soltanto impazzito per la sua ragazzina. Non so di quei giorni lontani cosa vi fu riferito, e non so neppure che cosa le fu detto di quello che aveva combinato mio padre, in quella rissa nella taverna dell'oste rosso malpelo, dove aveva fatto saltare un occhio a un impiegato delle poste con la gamba di una sedia, e si era fatto sbattere dentro, ubriaco fradicio.
Quella gita scolastica invece arrivò come una benedizione. Potevo cambiare aria, non guardare il viso cinereo della mamma, le preghiere mute della zia, che pregava con gli occhi e con i lamenti e si leggeva i miei resoconti, ormai senza grossi sviluppi.
Avrei dimenticato per qualche giorno, il vuoto che ci lasciarono tutti, per colpa delle angherie e dei pasticci di mio padre, quando invece, proprio Alberto e Andreina, un pomeriggio, vennero a bussarmi, per invitarmi a passare un po' di tempo con loro. Quando me li trovai davanti alla porta, tutti e due, così vicini e indifesi, a chiedere di me, perché forse era partito proprio da voi, caro professor Varidàni, quel pensiero così nobile di non emarginarmi e di starmi vicino, al contrario di tutti gli altri. E fu proprio da lei, caro professor Varidàni, che partì la discreta raccolta per la quota che altrimenti non sarei stato capace di affrontare per la gita. E solo dopo ho saputo che si tassarono Andreina e il piccolo Alberto, rinunciando a diverse paghette settimanali per venirmi incontro più degli altri. Forse perché stavo cambiando, anche se non ne capivano ancora bene il motivo, il placarsi di quell'odio o di quel rancore. Nemmeno io avevo il coraggio di confessarlo. Scrivevo tutto quello che provavo alla zia, e poi basta. Cominciai a dimostrare il mio amore ancora segreto per Andreina, semplicemente non facendoli più spaventare. Un amore in negativo, dimostrato non facendo qualcosa di male, anziché facendo qualcosa di bene. Era il solo modo che conoscevo allora, non ne avevo altri. Ero così stupido e confuso, da confondere quel gesto così nobile di Andreina, con qualcos'altro. Con qualcosa di più grande e profondo, qualcosa come la mia rinuncia a minacciarli e torturarli entrambi, dopo la scuola. Ma quando si è troppo giovani, le cose sembrano tutte uguali, non si distinguono. Non potevo prevedere che Andreina voleva dirmi della sua amicizia, ma non del suo amore. Alla gita mi era sempre vicina, perché gli altri mi erano lontani. Mi sorrideva, così come Alberto, perché gli altri non mi sorridevano, ma non c'era altro. Mi parlava, perché non c'era nessuno che mi parlasse. Era il frutto del negativo degli altri quella sua dolce amicizia, e non vi era niente di quello che io immaginavo o attendevo. La nobiltà di un sentimento così puro o una piccola opera di carità, non aveva nulla a che vedere con la mia fame di amore e di tante altre riserve, che in quel momento vedevo concentrate soltanto in lei, Caro professor Varidàni, nella sua primogenita Andreina.

* * *

Quella sera che si era in viaggio così persi la testa, e non so che cosa mi prese. Era l'ultima prima di ripartire per Roma. Gli altri erano già rientrati. Erano rimasti dei gruppetti scarsi di ragazzine, che mi ignoravano. Andreina mi vide isolato e lontano e mi si avvicinò e rimanemmo vicini e io cominciai a dirle quello che provavo per lei, in modo confuso, poi non riuscendo a concentrare bene i concetti, le frasi, poi cominciando a innervosirmi, perché la vedevo improvvisamente fredda, come non era mai stata, nonostante le avessi preso una mano nelle mie, più grosse e più rudi e poi le prendevo il braccino e avvicinavo le labbra e il mio affanno. Non sapevo cosa mi stava accadendo, e la sentivo ritrarsi, e così mi fermai.
"Io sono già fidanzata. Mi dispiace. Sono innamorata di Pietro Spadin”, era quel ragazzo che frequentava il ginnasio al Pascoli, quello che andava bene, che aveva tutti dalla sua parte, che studiava e che era il figlio dell'avvocato Spadin, molto famoso e stimato in tutta la città; e quello che io presi a sassate, con un gruppo di balordi, non appena di ritorno in città. Per fortuna Andreina e nessun altro, vennero mai a sapere di quello che avevo fatto. Adesso lo sa solo lei,  professor Varidàni; dopo tanti anni, è il primo a sapere questo, prima di tanto altro. Eravamo tutti così ben nascosti, e poi se l'era cavata con qualche acciacco, niente di che. Il tutto andò nell'ombra, solo qualche sospetto.
Ma la mia violenza per il rifiuto montava, ritornava a fiotti il mio vecchio odio sopito e traslato per i suoi figli, adesso anche per Andreina e per Spadin. Quello mio adesso era un odio strano, impastato di altro, di altre mancanze o di quello che avevo creduto per un attimo di meritare ma che in fondo non meritavo ancora.
Sua figlia fu messa in cinta proprio da quel ragazzo così per bene, Caro professor Varidàni. Sembrava tutto perfetto, e allora fu proprio Andreina a ricorrere a me, disperata, quando quel pomeriggio lontano si confidò. Non lo sapeva nemmeno lei quello che avrebbe dovuto fare e nemmeno se avesse scelto il confidente giusto. Perché di solito non si sa mai se la persona con cui ci si confida sia l'unica a meritare la confidenza. Non lo si sa mai, fino a quando non si fanno più limpide le trame e i fili orditi dal destino, o dalla storia o dal tempo. Così Andreina, sua figlia, mi chiese un aiuto. Aveva saputo che mia madre conoscesse qualcuna che trafficava con gli aborti, una persona fidata e di buona esperienza, una che faceva tutto in gran segreto. Non mi ricordo se glielo avessi detto proprio io o se lo avesse saputo da qualcun altro. Le voci girano comunque, e soprattutto sui maledetti come siamo noi. Mio padre era ancora dentro. Andreina non sapeva cosa fare, e così la rassicurai che avrei messo a posto le cose. E lei mi avrebbe promesso un'amicizia speciale, e che a quel Piero Spadin non avrebbe mai detto niente. Le chiesi se lo avrebbe mai lasciato, nel caso io le fossi venuta incontro come avrebbe desiderato. In un primo momento la vidi perplessa, smarrita. Era ancora piccola, aveva sedici anni, c'era un mondo grandissimo davanti a lei. Ormai ci si vedeva di rado, da quando frequentava il liceo Pascoli, quello stesso di Spadin. Senza quel ricatto non avrei avuto più speranza di conquistarla. E così andai oltre, e le dissi che se non lo mollava e non si avvicinava a me, non le avrei trovato il rimedio e avrei detto a tutti la verità. Non pensavo che le mie parole avessero quell'effetto così potente. I suoi occhi si aprirono di dolore, mi abbracciò, e disperata com'era mi promise la sua anima e tutto quello che le rimaneva dei suoi giorni e dei suoi sogni e della sua vita, pur di non darle un dolore così grande, proprio a lei, caro professor Varidàni: era lei la sua paura più grande! Non voleva deluderla, capisce? Voleva cancellare a tutti i costi quello che riteneva uno sbaglio mortale, soprattutto per i suoi occhi e per il suo cuore, oltre che per la sua vita! Non potevo prevedere che la sua fosse una promessa disperata e non di cuore, quella di mollare per sempre Spadin. O forse perché la disperazione toccherà altri canali che sono paralleli alle promesse accecate da un grande amore come forse era quello suo.
Quella notte, dopo che Andreina si confidò con me, tornai a casa senza appetito e con il fiato spezzato. Mi sentivo il mondo in pugno, ma in un pugno che mi tremava e rischiava di farlo sfuggire o sbriciolare come un biscotto. Continuavo a mantenere vivo il mio diario segreto con la zia, e puntualmente le tasche della sua veste si gonfiavano dei miei resoconti. Ma quello sviluppo adesso la stava incupendo, lo vedevo dai suoi occhi, dalla sua espressione del viso, che era diversa, rattristata, più severa. Non le piacevano le cose che leggeva, ma la sua curiosità di sapere aumentava lo stesso.
Quella stessa sera Andreina avrebbe parlato a Piero Spadin e lo avrebbe allontanato in qualche modo: mi diceva che lo avrebbe fatto senza tentennare, che non le sarebbe pesato, a condizione che le avessi risolto il problema e al più presto. Io ero così felice, non riuscivo a credere ai miei occhi. Ma a casa non dissi ancora niente alla mamma della necessità di incontrare quella vecchia amica, che andava a comprare il latte da lei. Volevo aspettare gli sviluppi dalla sua parte, che ci furono e arrivarono puntuali. Lo allontanò, Andreina, il buon Spadin! Lo allontanò, come mi aveva promesso, senza spiegazioni, dicendogli delle cose orrende, che forse non provava o che aveva immaginato di sentirsi dentro pur di ottenere quello che la sua paura le dettava e di immaginarsi un distacco feroce e forse meno doloroso per entrambi, pur di liberarsi.
Ma a me scattò all'improvviso qualcosa dentro. La voglia di crescermi quel bambino segreto con lei, e di risparmiarle così quello strazio. In fondo di quel bambino ne sapevamo solo io e lei, e quindi poteva considerarsi nostro, a tutti gli effetti. Glielo dissi poche sere dopo, mentre fingevo intanto di aver già concordato tutto in gran segreto con quella vecchia strega che conosceva mia madre. 
Ma Andreina non volle saperne. Avrebbe fatto qualsiasi cosa, ma non quello che le stavo chiedendo. Il mio potere su di lei era devastante, ma non così forte come prevedevo. In pochi giorni organizzammo tutto con la mamma. Quello che scrivevo alla zia, la sera, era esattamente quello che era avvenuto e che stava avvenendo. La cronaca di quegli eventi era dettagliata, senza alcuna omissione. Una donna muta è sempre  la depositaria suprema di qualsiasi confessione. Era lei la mia confidente, quella che Andreina non aveva avuto la fortuna di incontrare. Fecero tutto in gran fretta, in una baracca piena di mosche e di ragni. Ne uscì stordita, con un viso magro, grigio.
Ma avevo ignorato un piccolo particolare, Andreina: che quel suo amore per Pietro era ancora molto grande, molto più grande di quanto essa stessa avrebbe potuto immaginare, ed era stato trattenuto e sepolto solo a causa del mio sordido ricatto, professor Varidàni. Ma io ero ancora un ragazzo, non potevo prevedere gli esiti delle promesse di dolore o dei ricatti e la differenza con la promessa di amore e non ancora di dolore, che forse aveva già stipulato con Spadin.
Adesso Andreina mi avrebbe allontanato di nuovo, o ricompensato con qualche carezza proibita, sopra le ginocchia, o con qualche bacio, ma il suo cuore era fiondato altrove, nel suo luogo naturale di origine, e io lo sentivo, ma non lo scrivevo alla zia. Adesso alla zia scrivevo che Andreina, per ringraziarmi, veniva a strusciarsi con me e poi anche a farsi guardare spogliata e a farsi toccare e poi ancora oltre, nel retro della latteria, dopo l'orario di chiusura. Scrivevo tutte quelle cose con rabbia, immaginando che fossero vere almeno per la zia, per avere un angolo di memoria che ancora mi esaudisse. Ma in realtà non era vero niente, io avevo accettato a malincuore che lei fosse ritornata da Pietro Spadin, che intanto era all'oscuro di tutto e si godeva la bellezza e il ritorno triste e innocente della sua Andreina, se non fosse per quel maledetto aggiusto di sartoria che sua madre, la ricca signora Spadin, dovette farsi fare da mia zia. Non so cosa diavolo le prese, ma durante la consegna, la zia riempì le tasche di quel cappotto, consegnato insieme agli altri vestiti, con tutta la storia segreta e sparsa in biglietti numerati, che io le avevo scritto e raccontato. Era tutto scritto. Senza dirle niente le affidò quella parte di vita incompiuta e non vissuta, o rianimata alle spalle del povero e buon Spadin.
Da allora non scrissi più nulla alla zia, perché non voleva più leggermi e mi aveva fatto capire a gesti che aveva buttato via tutto. Ma la signora Spadin, invece, non buttò via tutto. Lesse e chiamò suo figlio accanto a sé. In una sera di pioggia, tenendogli una mano nei capelli mentre il ragazzo si vedeva sfilare negli occhi il doppio inganno: quello reale di Andreina, e quello simulato da me, nel finale. Vi erano le date della cronaca, dei singoli eventi, e così tutto poteva essere controllato. Sua madre gli teneva i capelli nelle sue mani, è quello che mi raccontò Enrico Spadin, il suo fratello minore, che era rimasto a studiare nella stessa stanza e che aveva assistito a tutto. Enrico era mio amico, fino alla rivelazione di quei messaggi.
Non mi risultò che Pietro Spadin avesse detto nulla a sua figlia. Almeno fino a quella dolce serata al luna park, dove li incontrammo, con altri amici, che erano abbracciati, tutti e due. Andreina mi salutò, fissandomi con lo sguardo spaventato. Nessuno di noi due poteva sapere quello che Pietro Spadin aveva letto e quello che in quel momento provava. Era impenetrabile, quella sera, come tutta questa strana storia che ci è successa e che in qualche modo ci accomuna.
Fu per questo, caro professor Varidàni, che Pietro decise di portarla sulla ruota panoramica, in una serata così tiepida e illuminata, come fu quell'ultima della loro vita, perché fu proprio in quella serata lì, poco dopo averci lasciato e salutato, che Pietro Spadin si lanciò nel vuoto trascinandosela per un braccio, quando il loro vagoncino era al massimo dell'altezza prevista dal giro della ruota.
Hanno tutti pensato a un incidente. Io ero tra i pochi a sapere che quello non è stato un incidente. E mi sembrava giusto che lo sapesse anche lei. Ecco perché ho pensato di scriverle, perché la sento il confidente supremo, che forse non ho mai incontrato.
Adesso ho finito, caro professor Varidàni. Era quello che le mancava e che mancava anche a me. Come vede la medicina non è quasi mai riposta solo nelle parole, ma nel tentativo di fare ordine, quando le tenebre sono troppo spesse sui cuori e sulle promesse mancate o tradite e mal rivelate.
Ho due bambini, Caro professor Varidàni, un maschio e una femmina, proprio come lei: uno di cinque e l'altra di sette anni. Vorrei che un giorno li conoscesse. Aspetto vostre notizie e ricordate di salutarmi Alberto. Ho saputo che esercita a Ferrara, come valente avvocato, degno di tale padre, come nobiltà d'animo e perizia nella professione.
Sono sempre in debito per tutto, non lo dimentichi mai.
Con sterminato affetto,
Roberto Cardisi. III F Scuola Carducci,
p.s.
Riesce a indovinare il nome che ho dato alla mia bambina?
l.s.






mercoledì 23 giugno 2010

Lezioni private. (Bozza notturna)

"Vorrei fottermi una stella del cielo e poi scoppiarle dentro, nella fiamma. Come se fossi un lampo. Il dessert dello sperma come l' argento latteo".
Mi guarda. Si toglie gli occhiali. Più pensierosa e giovane come una rondine.
"Dicevi?".
"Non ci siamo mai parlati. L'estate è passata nel silenzio di queste lezioni private. Dove ho imparato il necessario, ma non ho saputo nulla di lei. Allora parto da quello che non so di me".
"Non è necessario. Non  c'entra niente con il mio ruolo".
"Sono d'accordo, ma io ho imparato il necessario, ma senza che noi abbiamo comunicato. Mi ha spiegato le regole, ma intanto non so dove è andata ad abbronzarsi, se ha un marito, che musica ascolta, se è andata mai a cavallo. Non è giusto imparare così".
Mi guarda ancora. Sembra interessata.
"Cosa c'entra tutto questo?".
"Non lo so. Due notti fa ho guardato un temporale per bene, come non avevo mai fatto. Dalla finestra della mia stanza, quella accanto al letto. E osservavo i balzi dei lampi e pensavo alla povertà della mia vita. A come fosse lenta e troppo seria e poco elegante e senza luce in confronto. Vorrei imparare a vivere con quell'estetica. Una saetta, dice tutto, in un attimo o ancora meno. Non deve spiegarsi. Cattura, vive e commuove al suo primo apparire. Come io non so fare. Spezzarmi due dita in una sua giarrettiera, il giorno prima di un diploma di pianoforte o portarla alle giostre, stasera stessa, per esempio. Senza sapere nulla di lei".
Adesso distoglie lo sguardo e pensa.
"Perché alle giostre?".
Come un lampo, senza pensieri. Vivere, parlare e decidere così,  come i suoi occhi spagnoli di adesso. Sono più vivi.
"Forse l'avrò spiazzata".
"Dici delle cose mai sentite. Mettono angoscia o ancora qualcos'altro".
"Qualche volta le scrivo, ma non le capisce nessuno".
"Adesso dobbiamo continuare, per favore. È l'ultima lezione".
"Lei pensa di vivere con quell'intensità? La stessa di un lampo di temporale?".
"Ma un lampo non è umano, non vive!".
"Perché, dovrebbero ritenersi vive solo le cose umane? Pensa davvero questo della sua vita? La vede mezza morta?".
"Sono lontani, molto lontani".
"Adesso sto guardando lei, e mi sembra di assistere a un temporale. I suoi sguardi, le sue parole. La lezione che finisce e lei che rimane".
"Non capisco".
"È felice?",
"Dico che non la capisco, che cosa significa tutto questo?".
"Le ho solo chiesto se lei è felice. Non c'entra col significato".
Si ferma, come sospesa. Non mi risponde.
Quella sera siamo andati al luna park. C'erano le famiglie con i bambini. Abbiamo passeggiato, senza parlarci e dirci altro. L'ultima notte di quell'estate. Glielo avevo chiesto io, senza sperarci, quasi per gioco. Siamo entrati nella casa dei fantasmi.
Abbiamo cenato fuori, molto tardi. Abbiamo riso. C'erano ancora i tavoli pieni di angurie e di persone. Molte luci. La luna.
l.s.

domenica 20 giugno 2010

On the phone.

"Sei tu, Dick?".
"Mi hai riconosciuto, vero?".
"Sei Dick, merda! Non è possibile!".
"Le voci non cambiano, almeno quelle".
"Che vuoi dire con questo, e poi...chiamarmi a quest'ora dopo una vita".
"Che facevi, dormivi?".
"No, sono a letto. La tele accesa e un caldo boia".
"È stato faticoso trovare il tuo numero, sai?".
Silenzio. Un sottofondo di voci camuffate, da cartone animato. Henry abbassa il volume.
"E allora, come l'hai trovato?".
"Non importa. Qualcuno lo ha cercato per me, e me lo ha trovato".
"E perché non mi dici chi è? Cosa c'è di male? Sarà pure qualcuno che conosco, no?".
"Perché non ha importanza, almeno adesso".
"Sei sempre più strano. D'altra parte dovevo aspettarmelo da te. Sei sempre stato così strano".
"Per cui non c'è niente di cui sorprenderti, vero? Nemmeno il fatto che ti chiami a quest'ora, mentre sei a letto a sbronzarti con la tele accesa?".
"E cosa c'entra sbronzarmi, adesso?".
"C'entra, perché chi mi ha detto il numero mi ha detto anche del resto, e così sono tornato a essere aggiornato, come una volta".
"Tutte balle, Dick. Non devi fidarti di loro, è solo invidia. Ho già capito, forse, con chi hai avuto a che fare. Comunque pensala come ti pare, ma non venirmi a farmi prediche a quest'ora, altrimenti...".
"Dov'è?".
"Che cosa dici, scusa?".
"Hai capito fin troppo bene, Henry. Voglio sapere dove si trova, adesso!".
"Scusami, Dick, ma credo che ci sia un grosso equivoco, e che stia pensando di parlare di qualcun altro. Se è per quei soldi che devo restituirti, ne possiamo parlare, ma...".
"È stata vista l'ultima volta con te. Mi hanno detto che frequentava te, prima di sparire. Sarai quello che ne sa di più, e guarda caso dopo la sua partenza sei svanito anche tu. Non è un po' strana come faccenda?".
"Accidenti a te e alle tue fantasie, ma non capisco: adesso non si è neppure liberi di partire, che subito ti puntano il dito contro; e poi lo sai che a me non importava un accidenti, dico di Enrica, stai parlando di lei, immagino".
"E di chi, sennò? Avanti, mi devi raccontare tutto, per filo e per segno".
Ancora un silenzio. Lo scatto del telecomando. La tele adesso è spenta. Henry allunga un braccio a una bottiglia di cognac, sul pavimento e se la porta alla bocca. Poi schiocca le labbra e sospira.
"Per telefono non è possibile. Dobbiamo incontrarci da vicino, e poi, non credere chissà cosa abbia da dirti".
"Ma saprai almeno dov'è finita, vero?".
"Anche tu avrai le tue colpe, se le cose sono andate come sono andate.  Non dirmi che adesso ti sei pentito e che ti manca? Enrica aveva investito molto su di te, eri diventato la sua...come mi diceva sempre, aspetta: che tu eri la sua, cazzo, non mi viene proprio".
"Lascia perdere quello che ero io, voglio sapere quello che viene dopo".
"Dopo non viene più molto altro. È scappata da me perché con te le cose cambiavano in peggio e allora all'inizio mi andava di fare il confidente, essendo amico di entrambi, anche se forse tu non mi consideravi un tuo amico, ma per me non cambiava niente. Poi cominciammo a bere, insieme, la sera, qualcosa di forte o di meno forte, come capitava. Perché aveva fatto sentire solo anche me, con il fatto che dopo la vostra rottura non riusciva a trovare pace, insomma, era diventato come un contagio e a me, queste cose non piacciono. Qualche volta abbiamo anche scopato, come vedi sono sincero con te, tanto ormai eri tu quello che non voleva saperne. Poi ha cominciato a dire cose strane, si è cominciata a trasformare, ma ti dico: dall'oggi al domani, come una impasticcata, ma di quella roba io non ne avevo mai fatto uso e credo nemmeno lei, almeno in mia presenza. Dovevo trovare il sistema per liberarmene. Tra l'altro non aveva una lira e mangiava come un lupo e poi, per il fatto che vivesse con me, mi precludeva altre possibilità. Mi credevano tutti impegnato o comunque un puttaniere, capisci? E questo non andava per niente bene. Ma lei insisteva, che se tu non fossi tornato da lei, non sapeva dove andare e che aveva bisogno di me, e si sarebbe nascosta, se fosse arrivato qualcuno, o qualche fica calda. Si sarebbe nascosta come una cagna e non mi avrebbe arrecato danni e che per le spese, insomma, si sarebbe trovata un lavoro e così avrebbe contribuito in qualche modo, perché lo diceva che non era giusto che mi addossassi tutto io. Ma la stronza era anche bugiarda. Cominciò ad approfittare della mia bontà, e tu lo sai che io sono sempre stato una persona buona, Dick. Anche se ci ho scopato, ma è stato per farle passare la tristezza, quando a tavola cominciava a singhiozzare e a immaginare tu a quest'ora dove fossi, in quale stato dell'America, lontano da lei, con un'altra donna, semmai più bella e più felice e allora solo nel fottermela quella lì si spegneva, ma cominciai a stancarmi anche di quello. Trovò un lavoro, in una lavanderia. Cominciò a frequentare altre persone e a sbronzarsi. Io non riuscivo più a continuare, tra l'altro non ero il responsabile e poi, insomma, stavo uscendo con una importante, con tutto il rispetto per Enrica, una di gran lusso che aveva una casa tutta sua e che mi aveva proposto di trasferirmi a Los Angeles con lei. All'inizio avevo dei dubbi, ma poi mi accorsi che era tutto fattibile e molto più conciliabile di quanto credessi. L'unico ostacolo era Enrica. Ho cercato di spiegarle la situazione, con calma. All'inizio mi ascoltava, poi ha cominciato a tremare tutta e a dare di matto. Non avevo mai visto una donna ridursi così. Non sapevo che cosa fare. Intorno tutto il vicinato pensava che fosse la mia donna o una sorella ammattita che mi avevano affidato e la mia vita doveva giustificarsi davanti ai suoi casini. Una sera prese anche la mia macchina  e mi sfondò una fiancata, perché si era rotta di birre. Ne  comprava cassette intere, con quello che guadagnava poi, dovevo essere io a rimetterci, quando non saldava i debiti. Capisci allora che dovevo trovare una soluzione? 
Ormai era tutto deciso. Con la  mia nuova ragazza avevamo stabilito anche il giorno della partenza. Fu lei a darmi la soluzione. Tra l'altro non avevo nemmeno il tuo numero: bella merda anche tu. Prima me la sganci in casa e poi sparisci, comunque fu lei, ti ripeto, la mia nuova ragazza, a trovare la soluzione. Come sempre le cose più semplici sono sempre le più risolutive. Mi disse come aveva fatto sua sorella con il loro cane, che era diventato molto impegnativo. Lo portarono con loro,  in vacanza. A metà percorso scesero tutti per una breve sosta, in un luogo isolato. I ragazzi continuarono a giocarci, come se nulla fosse. Per l'animale doveva sembrare tutto normale, senza traumi. Anche i ragazzi non sapevano niente. Doveva sembrare tutto come un incidente, o qualcosa del genere. Insomma l'ultimo lancio del pallone lo fece suo marito, lo lanciò molto lontano, ancora più delle altre volte. Intanto sua sorella aveva attirato con una scusa i ragazzi nella macchina e aveva cominciato ad allontanarsi. Quando poi il marito la raggiunse, senza cane e senza pallone, disse che lo avevano rapito. Finse di chiamare aiuto, di cercarlo, facendo con l'auto tutto il percorso opposto, fino a quando non si rimisero in marcia, fingendosi disperati, i genitori, e aspettando che i ragazzi dimenticassero. In fondo tutto si dimentica, così mi diceva e più lei mi parlava, più mi rendevo conto che avevo finalmente trovato la donna che cercavo da sempre e che non dovevo lasciarmela scappare. Putroppo non ebbi il tempo di contattare nessun altro del gruppo, anche perché ero preso da molto altro. Dovevo sloggiare. Togliere tutto, preparare l'auto. Enrica era entusiasta. Si era anche  molto affezionata alla mia nuova ragazza. Qualche pomeriggio le sentivo descrivere le strade di Los Angeles, la possibilità di nuove amicizie importanti, che avrebbe ricominciato una nuova vita e che aveva già pensato a una stanza tutta per lei, visto che la sua casa era grandissima e che avrebbe potuto ricevere amici e amiche, e che le avrebbe trovato un ottimo lavoro, altro che quella lavanderia dove stava lavorando. E quando loro due si parlavano, io vedevo gli occhi di Enrica così commossi  e così calmi, come forse non erano mai stati, nemmeno con te. E allora mi accorsi che con quella speranza, cominciava a bere di meno, a gridare di meno e a starmi meno addosso. Mi diceva sempre grazie, grazie, se non fosse stato per te, e io le dicevo che era il minimo, e che tu eri un fottuto figlio di puttana, Dick, ma comunque un amico e che io mi sentivo in dovere di consolarla, e altre cazzate simili. Fino all'ultimo mi disse grazie. Fino al giorno in cui partimmo e ce la caricammo in auto. Era andata a tagliarsi i capelli, poche ore prima di andare. Prima di fermarci, la mia ragazza le offrì una caramella. Lei accettò, aveva gli occhi lucidi. Una volta scesi è stato un gioco di ragazzi seminarla. Pisciava in continuazione, la poverina. Forse le sue vecchie bevute o l'emozione, ma c'era una fila da museo alla toilette. La lasciammo lì, dicendo che andavo a fare carburante e a prendere i panini. Le chiesi anche il gusto. Mi disse che voleva un panino con l'hamburgher e non so che  accidenti di salsa, tanto non cambiava niente, anche se chissà per quale cazzo di motivo quel panino l'ho preso per me. L'ho mangiato quando ormai eravamo già lontani, nelle lacrime. La mia ragazza mi chiedeva se fossi pentito. Tra l'altro avevamo ancora la sua borsa con tutti i suoi nuovi vestiti, che avevano comprato insieme, nel bagagliaio, e anche il suo odore, che in fondo era un odore buono. Dicevo alla mia nuova ragazza, che ero in lacrime perché nel panino c'erano troppe cipolle, e poi mi asciugai il viso con un braccio e le sorrisi e lei ricambiò, dicendomi: adesso sì che mi piaci. Sei più bello quando ridi, e così mi passò anche la tristezza dell'attimo. È tutto quello che ti mancava, genio! Per  i tuoi soldi dammi un recapito postale, che ti faccio un vaglia o un bonifico, se hai un diavolo di conto da qualche parte, ma ci sei ancora, Dick? Che diavolo, non dirmi che ti sei addormentato?".
"Ti rendi conto di quello che avete fatto?".
Henry abbassò il telefono. Aveva riacceso la tele, quando stavano per dare un film. Un film che aspettava da una vita. Staccò anche la spina del telefono. Aveva già i bagagli pronti per una nuova destinazione.
Enrica era profondamente addormentata, accanto a lui, in un mare di patatine alla paprika e di  fumetti erotici giapponesi.
Henry spense la luce.
l.s.

venerdì 18 giugno 2010

Sull'aggiornamento in letteratura.

A volte mi domando cosa sia un corretto aggiornamento, quanto meno in materia di libri.
Conoscenza di titoli, di tutti gli autori contemporanei più forti, o più in voga, non necessariamente per posizioni sui mercati, ma per spessore, incisività, tecnica, magia. O ancora: conoscenza di tutto quello che vi accade intorno, al di là del prodotto specifico. Saloni, festival, premi letterari, recensioni, riviste, immersioni mirate nella rete.
È davvero possibile ritenersi aggiornati? E quest'aggiornamento come sarà mai attestato, quale sarà quell'elemento che ti riterrà un soggetto aggiornato? La conoscenza di più informazioni rispetto a qualcun altro? O dovrà essere qualcosa che fai per te, che cresce naturalmente come tutti i tuoi interessi, la scelta di un libro, la sua interruzione, il riprenderlo in piena  notte,  il consigliarlo, il dimenticarlo o il distruggerlo? Per dimostrare che non ti sfugge nemmeno uno degli autori più grandi, quelli che costellano la nuova letteratura e che rimarranno impareggiabili, demoni incontrastati, o arcangeli dalle grandi ali in calce metallica?
Io non so quanto sia davvero aggiornato, forse non lo sono per niente o non lo saprò mai. Sono convinto che mi manchino milioni di autori quante sono le cose non vissute o perdute ancora prima di viverle, e ancora me ne mancheranno. Se non sono necessariamente aggiornato sulle piccole miserie di me, non potrò esserlo sulle grandi opere degli altri. Peccato, ma non so cosa farci. Non riesco a catalogarmi un percorso, a impormi una discplina se non succede prima qualcosa di semplice dentro di me che mi avvicini  a qualcos' altro.
Quegli autori che invece non mi mancano, sono entrati nella mia vita da ingressi particolari, e non ne sono mai più usciti. Ma non li ho scelti per sentirmi aggiornato, ma perché ero felice di farlo, affamato, assetato  e per sentirmi sazio o ubriaco, che è tutt'altra cosa dall'essere perfettamente aggiornato, almeno credo! 
Le cose che so e che ho scoperto, non le ho quasi mai decise. Non penso nemmeno che mi abbiano bussato o avvertito. Sono accadute. Ho aperto "La montagna incantata", un mattino prestissimo, quando dovevo rimanere da solo con mio nipote che dormiva. È probabile che in una circostanza diversa non l'avrei fatto. Le circostanze, i piccoli accadimenti, il caso, sono i fattori che mi accostano a qualcosa, da sempre. E che mi insegnano ad amarla, senza sezionarla o misurarla troppo, come quello stesso istante che ha favorito l'incontro ed il suo unico bacio nel buio. 
Non ho mai cercato un autore se non vi è stata una circostanza della mia vita che mi abbia fatto inciampare in un suo testo, in un aneddoto, nell'incanto di un passaggio particolare, che semmai per qualcun altro non avrà significato niente. Questo vale per Petrarca, per Tasso, per Miller e per D'Arzo, e ancora per tutti gli altri. Non ce n'è uno che sia venuto fuori dalle sue sole parole, senza imbattersi nella piccola scintilla di una mia emozione. Se la mia vita smettesse di lanciarmi richiami e si facesse rinsecchita e poco profonda, non saprei più nulla di quello che accade nella letteratura contemporanea, e forse non leggerei e non scriverei più, che in fondo sono la stessa cosa. Tutto il resto mi fa paura.
Ed è per questo che non so cosa significhi essere davvero aggiornati. Nè credo abbia molto senso dimostrarlo.
Tutto qui?
l.s.

giovedì 17 giugno 2010

La lettura del manoscritto

"Che stai leggendo?".
"Lo scritto di uno, non ricordo neanche il nome. È arrivato il mese scorso. L'ho cominciato in  metro".
"Come suona?".
"Non lo so ancora, è tutto così strano. Come al solito".
"Che vuol dire tutto strano, spiegati!".
"Non so, è fuori dalle mie abitudini, ecco".
"E il fatto che sia fuori dalle tue abitudini, ti basta a definirlo strano?".
"Che domande! Certo, per le mie abitudini di lettura è strano. Che c'è di male?".
"Che c'è di strano, forse!".
"Ma che hai oggi? Hai voglia di provocarmi?".
"Non ho niente. Mi è stato solo detto di  controllare il tuo operato, tutto qui".
"Che cosa? Stai facendo sul serio?".
"Dicono che avresti fatto qualche cazzata, almeno con un paio di testi buoni, che ti saresti lasciato scivolare. Non dirmi che non ne sei al corrente".
"Cazzo, ma che diavolo è questa storia? Adesso devo essere anche controllato? Quando una cosa non mi piace io la cestino e basta. Anche se è buona. E poi quando non piace subito a me, non può essere tanto buona".
"Ti  sembra un atteggiamento corretto? Lo dico nei confronti di chi si fa il culo su di un manoscritto, e anche di tutto il nostro gruppo, della nostra reputazione".
"Guarda che il culo me lo faccio anche io sui manoscritti, cosa credi! E poi al fatto che abbiano pubblicato quei due testi, nemmeno ci credo. Se sarà successo è perché gli avranno stravolti di editing, e allora a quel punto è semplice. Tutto può riprendere a brillare, non capisco che senso abbia".
"E un editore, secondo te, che diavolo dovrebbe fare? Raccogliere opere già pronte per la stampa, o soltanto quelle lì che incontrano i suoi gusti?".
"Ma che ti prende oggi? Con chi pensi di parlare, guarda che io ci lavoro da una vita con i manoscritti, e so riconoscere la lana dalla seta".
"Contento tu, intanto non mi hai mai detto che cosa leggi, oltre ai manoscritti".
"Che cosa leggo? Soprattutto quelli. Da quando gli invii sono aumentati, non credo di avere spazio per altro".
"E prima, intendo prima di cominciare questa attività, cosa leggevi di più?".
"Ma, prima... insomma, non è che prima io avessi tutto quel tempo; comunque lavoravo nella libreria di mio zio. Forse la situazione era un tantino più elastica, ma una volta a casa non riuscivo più a vedere libri. O mi sparavo una cassetta o andavo a giocare a calcetto. Poi mi sono fidanzato, il tempo è diminuito".
"Ma, ci sarà stato un momento della tua vita in cui avrai letto qualcosa, qualcosa di vero".
"Che vuol dire qualcosa di vero? Perché i manoscritti non sono letteratura vera?".
"Potenzialmente sì. Anche se andrebbero setacciati, messi prima a posto e poi vedere se il seme resiste, se c'è. Ogni scrittore ha un seme, questo lo sai, vero? Tu lo sai scorgere il seme buono, immagino!".
"Sarà...Io a questa storia del seme non ci credo, e poi ho letto molto da ragazzo, diverse cose. Ci si forma in quella fase lì, il resto è mancia, e tu dovresti saperlo".
"Quindi, tu sei soddisfatto del tuo bagaglio?".
"Certo che ne sono soddisfatto, altrimenti non sarei qui. E poi che cosa credi, tu: che un uomo valga i libri che legge? Sarebbe troppo facile così. Potrei accanirmi su tutti i libri possibili, farmi scorrere le parole negli occhi, farlo con foga, con accanimento, e sentirmi una persona colta, acculturata, completa. Non pensi che sia troppo semplice? Anche un lettore di manoscritti avrà il suo buon seme, che una volta nel terreno farà i suoi germogli. E io mi sento in fiore, caro amico. Ho trovato la mia strada, mi dispiace per te".
"Non l'ho mai messo in dubbio questo, figurati. E poi non è stata una mia idea quella di controllarti, ma un ordine superiore. Non sono io quello con cui devi prendertela".
"Comunque mi stai rubando del tempo. E poi, a questa storia dei controlli di lettura, io non ci credo".
"Pensala come ti pare. Ma almeno quando lo finirai, sarai in grado di motivare la tua decisione, vero? In qualsiasi caso, naturalmente".
"Non sono tenuto a motivare un corno. Già è molto aver dedicato del tempo, tanto già lo so che questo non passa; è partito come uno strafatto, pare che si divertano a non farsi capire, è diventato un vizio. A volte pare che  lo fanno apposta, e allora io li frego e li faccio fuori. Che cosa vogliono dimostrare, di fare gli acrobati con le parole? E io con un tocco di un dito faccio crollare tutto e non ci sono più. Basta un soffio...".
"Quante pagine hai letto?".
"Circa...una quindicina. Perché?".
"E quante ne sono in tutto?".
"Vediamo, dovrebbero essere...quattrocentocinquantasei".
"E tu lo avresti già bocciato?".
"Ma tu non la vedi quanta roba ho qui sul tavolo? Tu pensi davvero che io riesca a leggere tutto? Tu leggi tutto?".
"C'è una sola piccola particolarità. Che questo dattiloscritto è...fasullo!".
"Che diavolo vuoi dire, fasullo? Ma a che gioco giochiamo", cominciando visibilmente a innervosirsi e a passarsi le pagine tra le dita, cercando dove fosse il trucco.
"Vuoi che ti dica la verità?".
Lo fissa, senza rispondergli ancora. Comincia a sudare.
"Quello che hai tra le mani, è un testo già pubblicato da tempo, che però abbiamo deciso di trascrivere di sana pianta e di tramutarlo in un semplice inedito. Un sistema semplice e raffinato, per mettere alla prova i più  pavoni e spavaldi del nostro gruppo. Per fare un po' di chiarezza intorno a noi. Niente di personale, credimi".
"Giura che stai scherzando. Non è possibile una cosa del genere".
"Adesso vedrai se non è possibile", estraendo un volume dalla sua borsa di pelle. Un romanzo, quello dal quale era stato scorporato il manoscritto fasullo.
Il romanzo era di un certo Thomas Mann e si chiamava: "L'eletto".
Glielo porge, con delicatezza.  
"Apri dalla prima pagina e controlla, avanti, non temere".
Gustavo non riesce a dirgli altro. Si immerge nella prima pagina, oscillando il capo dal testo del libro a quello dattiloscritto, sussurrando l'attacco del testo, una parola da un lato, la successiva dall'altro. Dove tutto corrispondeva, ogni parola, ogni frase, ogni paragrafo, fin dal primo rigo:
"Suonar di campane, tripudiar di campane supra urbem, sopra l'intera città, nell'aria tutta traboccante di suoni!".
"Lo puoi ripetere ancora quest'inizio? Un'altra volta, per cortesia. Più lentamente, e fermandoti al secondo rigo, come adesso, dove incontri il punto esclamativo. Non avere fretta, non le vedi le virgole? Le virgole sono come parole, senti quanto è limpido. Lo sai cosa vuol dire leggere, analizzare l'attacco di un testo? Devi essere sensibile. Più il testo è ispirato e più devi essere sensibile. È per questo che oggi è meglio scrivere dentro ai cessi pubblici, sulle pareti, se hai un briciolo di talento. Almeno hai la certezza che ti leggano per intero, almeno con interesse, e non come fai tu, professore. Avanti, dall'inzio, più lentamente, come ti ho detto. E lascia spazio tra le virgole. Voglio vedere il cielo dalle virgole. Le virgole vogliono il cielo, fammelo sentire questo spazio! Nello stomaco, lo voglio: in my gut!".
L'altro non riesce nemmeno a guardarlo, riprende a leggere da quel punto, quello dell'inzio. Poi arrivato al punto esclamativo si ferma, lo fissa, confuso.
"Uno strafatto, non è vero?".
"Tu non dirai niente a nessuno di quello che ti ho detto prima, non è vero? Noi due,  insomma, siamo amici, o per lo meno ci siamo sempre rispettati, ma dove diavolo vai adesso, avanti. Lasciami spiegare, a parte che lo avevo capito, cosa credi, ma...dannazione aspetta un minuto, così non è giusto, e poi hai lasciato il libro di Pan, di Thomas Pan, qui sul tavolo!",
Ma ormai era troppo tardi. Sentì solo una voce, dalle scale:
"Comincia con quello, leggilo per bene, e poi ne riparliamo, e poi si chiama Mann e non Pann".
"Scusami, che stupido, hai ragione: Thomas Man, è che lo avevo confuso con Peter Pan, accidenti a me".
Rimane da solo. Si accende una sigaretta, apre la finestra e lo vede allontanarsi, senza voltarsi indietro.
Fa un cerchio con il fumo, apre una mano, in segno di saluto e gli sorride. 
Poi lascia accesa la sigaretta, ma spegne il sorriso.
"Che razza di idiota!", e chiude gli occhi, tirando un'altra boccata.
"E poi chi mai sarebbe questo Man o Mann. A me non piace lo stesso. E basta. Il resto: mancia!", e la sigaretta  la lascia cadere giù, con lo scatto di due dita.
"Ma con quante enne si scrive, Man? Pan è con una, però!".
l.s.

In un libro

Bisognerebbe entrare e penetrare un libro
come un labbro nella polpa matura di un loto.
Sporcandosi.
Ma trattare ciascun pensiero di ogni pagina
come fantasmi di seni appena sfilati da una camicia bianca,
appena aperta.
l.s.

mercoledì 16 giugno 2010

Estratto da "Gli Autunni di Gürsern"


4
"Lucrezia quasi tutti i giorni diffondeva dalla finestra della sua stanza le note del suo pianoforte, come manciate di petali trattenute a fatica da una cesta di paglia nel vento.
Si esercitava da un po’ di tempo, verso sera e con una maniacale e instancabile regolarità, che sfiorava a volte i limiti dell’ossessione e dispensava accordi struggenti nelle sequenze melodiche più svariate, talvolta viziose o troppo manieriste, che tesseva, nel loro piccolo splendore verso l’imbrunire, fin dal suo ritorno a casa. In quei momenti quella donna rivelava una nuova identità, che sembrava riprendere vita da sola, diventando un altro viso fatto di soli suoni, nel maglio di un suo nuovo respiro già stanco e dentro il suo animo i fili sfatti di un giorno di ricamo andato perduto, ancora più opaco di quello precedente. La sua piccola finestra semiaperta si spalancava alle ultime luci naturali della sera, fondendosi con i suoi suoni intarsiati, a volte sinistri e verso i primi minuti i profumi e i bagliori delle lampade più lontane del borgo, della torre dei cacciatori, che diffondevano un’aura giallastra sul gomitolo lanoso delle valli aperte, prima che salisse la luna a calmarne i riflessi.
Rimanevo ad ascoltarla. Disteso sul letto, le mani incrociate dietro il capo,  cercando di non perdere mai nemmeno un sussurro fra gli alberi folti e l'inizio di un altro tema. In quel ricamo di luci lontane e vibrazioni, ritrovavo e perdevo il suono e il sonno incompiuto della mia vita e ancora qualcosa di me, quando a volte sentivo di potervi accedere di frodo, a quell'ascolto così segreto, come se rubato, in quell’assoluta ed indisturbata solitudine di pioggia, che diventava sempre più grande, sera dopo sera.
Quando il tempo era cattivo, la mia finestra rimaneva aperta, per non perdermi i suoi ultimi momenti di studio, o forse di gioco insonne e doloroso. Era ormai diventata una dipendenza, l’abitudine a quella meta dolciastra e graffiante, dove incontrare dal buio i fantasmi delle sue dita.
Di solito le prime successioni erano omoritmiche, solenni distese organistiche, corali seicenteschi. Pareva che Lucrezia dovesse prepararsi il terreno adatto per un impasto successivo di accordi più robusti e fibrosi, con cui sostenere e articolare i tempi sospesi e gli ultimi atti del suo piccolo dramma serale improvvisato, fatto tutto di suoni nuovi e personaggi fiamminghi e candenti di una tela immaginaria, densi di lanterne e profondi manneti nordici, dalle tensioni di luci imprevedibili, da affinare e da sfilare nodo per nodo, dentro lo spazio dolce delle sue ultime trame in penombra.
Qualche volta suonava senza accendere la luce, e il cielo che si stellava all’improvviso, nel freddo che diventava una notte, e Lucrezia che diventava serena e scomparsa, in quella prima fase di preludio che mi riportava indietro, come da una madrina stanca, che mi apriva le tende al mattino con l’aroma di un fumo di piccole colazioni dimenticate, e un riflesso bianco di sole, il filo di una ciocca castana sulla fronte, negli occhi, ancora chiusi da uno stesso sonno.
E adesso ancora la scorgevo, in un bassorilievo di Palmira, deformata dalla violenza del tempo che le scheggiava il naso mentre mi fissava nell’indolenza dei suoi accordi più profondi, che a volte sembravano uscire fuori dal tempo reale della divisione...e della mia vita. E le sue mani non erano più parte del suo corpo, ma filamenti di altro. Un richiamo invisibile, una rifrazione.".
l.s.

martedì 15 giugno 2010

About the short story and the pretty legs...(Improvviso)


Lo scrivere in corto (the short story) ma anche lo scrivere in generale, comporterà sempre un compromesso arduo e sofisticato, tra il poco spazio disponibile e la profondità simultanea di un'idea, a volte così difficile da raggiungere, quanto può esserlo per una donna mantenersi  elegante e raffinata nelle scelte di abbigliamento più estreme e possibili. Una questione di  equilbri, di passo, forse di natura o di attitudine malinconica all'erotismo. Un passo femminile un po' spleen e perduto, non potrà mai essere volgare. Così come la scrittura, se non si ostenta troppo e se è permeata e palpata da un'attitudine alla cultura, alla sensibilità delle tradizioni e del loro superamento, non dalla sola nausea smaniosa di esserci a di là di quello che in qualche modo c'è stato. (Quella vivamente incoraggiata, di continuo: poco o niente stile, grande attacco, più è ruvido più è nobile, grande economia nella forma e nell'approccio stilistico, fruibilità assoluta dell'idea base, che sia commestibile, e non irriti, come un buon detergente intimo. Mi sto accorgendo, con grande rammarico, che a volte (e non solo "a volte") una scrittura senza storia e senza troppe esperienze profonde e meditate, è preferibile. È incoraggiata ancora di più perché non comporta pericoli. Lo scrittore non rischia, e rimane ancorato, innamorato di sé, della sua scrittura molto morigerata e contenuta e poco sgualdrina (Mon Dieu, la tristesse!) senza oscillazioni, senza ombre di manierismi o fiammate anarchiche, futuriste o estetizzanti, ignorando le correnti dell'impressionismo così come le più recenti del neolirismo. Tutto è pronto e perfetto dentro di lui, bisogna lasciare spazio al messaggio. Non sono graditi altri ospiti a tavola. Al diavolo tutto il resto. Si deve essere semplici e amorfi, non ampollosi come gli antichi o come tutti i cattivi maestri. Come dire a una donna bella di indossare la stessa divisa delle altre, e così scomparire nell'individualità o dolcezza del passo e confondersi in un'unica marcia anonima da collegiale, come in un nugolo opaco di cadetti calanti nella nebbia.  Gonne dalla stessa lunghezza, che non lascino mai intravedere il tornio incantevole della natica che canta inventandosi un nuovo viso e infiniti altri, nel suo piccolo passaggio d'ombra, mentre le ginocchia perderanno il loro naturale sorriso e la luce naturale degli occhi, che poco prima vi si posavano a pungerle di baci, come insetti silenziosi e discreti. L'importante è camminare. Le gambe di una donna in fondo devono solo camminare, servono per quello, no? E invece le parole devono dire solo di quel punto lì, il necessario e poi basta: tutto il resto è cattivo, fa pensare, disturba, è antico o troppo moderno, taglia le dita o brucia gli occhi, inquina, ha l'acaro demodex canis o peggio il folliculorum, che allarga la cerchia anche all'uomo, o le pulci o lo scolo o la scabbia, o la rogna demodettica!
Mi farebbe piacere ascoltare un parere dal grande Massimo Bontempelli, sulla situazione attuale, semmai in una seduta medianica. Una qualsiasi forma di scrittura è imprescindibile da una buona formazione culturale. Scrittura è cultura, non è anche cultura. La cultura per uno scrittore non deve essere il parente scomodo con i denti guasti che fa i rumori a tavola e che ti rende oscuro o involuto (quando va di moda adesso l'involuzione), ma la linfa vitale del suo approccio e della sua apertura alla vita, dei suoi giorni e delle sue eventuali pagine scritte. Non si può nuotare nel vuoto, senza consapevolezza del margine anche flebile della costa e trovare improvvisamente dei fari che ti instradino! E avere spazio di nuoto, per giunta e anche la boa bianca e rossa per il sub! ) La responsabilità enorme, è sempre dell'altrettanto improvvisato guardiano del faro, che asseconda e impone queste abitudini, collaborando attivamente a cristallizzarle.
Ricollegandomi alla parte iniziale: la bellezza del risultato, credo in entrambi i casi, sia nel racconto che nella gonna cortissima, e sempre se l'arduo compromesso andrà a buon fine (evitando così l'inconsistenza per lo scrittore e la volgarità per la donna che indossa) questo non avrà mai un luogo troppo preciso di origine, una chiave magica o un meccanismo pianificabile di assoluta efficacia, ma intanto in moltissimi casi avviene ed esiste, perché si rischia. Comunque.  I guess so...
l.s.