sabato 29 maggio 2010

Carissimo Contini

"...io ho lavorato come ingegnere, faticosamente, anni ed anni, per avere la mia indipendenza, ho sacrificato così le forze e gli anni migliori perché non credo che una creazione vera, grande o piccola che sia, possa essere altro se non una creazione spontanea. Io non posso scrivere su misura, anche se consento con chi mi darebbe la misura. Io voglio essere io, e non il pappagallo d'alcuno.-".
Carlo Emilio Gadda. Lettere a Gianfranco Contini. Garzanti.1988

mercoledì 26 maggio 2010

Impressioni

Mi accorgo che molte volte, nel rifinire o strutturare le psicologie dei personaggi di una storia, è molto comune che i più impauriti o fragili, incutano nell'altro un certo coraggio e maggiore tenacia, mentre quelli più impavidi e coraggiosi, smarriscano e rendano l'altro con cui si confrontano, ancora più insicuro e spaventato. Mi sembra che accada come un contagio al contrario e che, in alcune particolari relazioni, ciascuno finisca col  nutrirsi e con l' ubriacarsi dell'esatto opposto dell'altro.
l.s.

martedì 25 maggio 2010

Il cibo dei libri

...immaginando la dimensione del leggere, come un vasto luogo di cibi, dai più sofisticati e raffinati, a quelli speziati, o dai sapori violenti, primitivi. Ciascuno il suo tenore proteico, calorico, i paragrafi scintillano come amminoacidi. Lo scrittore esercita e stimola la fame, e a volte la sazia, altre volte la acuisce. Il lettore affama lo scrittore dei suoi occhi voraci, e del suo difficile desiderio di nutrirlo dell'imperscrutabile giusto.
l.s.

lunedì 24 maggio 2010

La gettoniera di Vibrisse

Un progetto originale e interessante per autori di testi ancora inediti. L'idea è di Giulio Mozzi.
È spiegato  tutto qui.
l.s.

venerdì 21 maggio 2010

Scrittura e volontà

"Scrivere, meditai, deve essere un atto privo di volontà. La parola, come una corrente profonda dell'oceano, deve emergere alla superficie per un proprio impulso".
Henry Miller- Sexus.

giovedì 20 maggio 2010

Il gioco del silenzio

"Non so se veramente fu vissuto
quel giorno della prima primavera.
Ricordo - o sogno? - un prato di velluto,
ricordo - o sogno? - un cielo che si annera,
e il tuo sgomento e i lampi e la bufera
livida sul paese sconosciuto...".

Dalla prima strofa de "Il gioco del silenzio" di Guido Gozzano. Poesie. BUR.

Come piccoli appunti o testimonianze di lettura, ogni tanto sento il bisogno di fermare alcuni lampi, come a conservarne in qualche luogo il segno del mio passaggio sul loro azzurro fuoco.
l.s.

mercoledì 19 maggio 2010

"Il tuo volto domani 3". La traduzione italiana

Disponibile la traduzione italiana del terzo volume della trilogia di Javier Marías "Il tuo volto domani-Veleno e ombra e addio". Titolo originale "Tu rostro mañana". La casa editrice è sempre l'Einaudi con traduzione di Glauco Felici.
l.s.

martedì 18 maggio 2010

Ricordando Sanguineti.

Par la XII Elégie de André Chénier

"J'ai suivi les conseils d'une triste sagesse.
Je suis donc sage enfin; je n'ai plus de maîtresse.
Sois satisfait, mon cœur. Sur un si noble appui
Tu vas dormir en paix dans ton sublime ennui".
André Chénier. Poésies. Charpentier et Cie, Libraires-Èditeurs. Paris 1870

lunedì 17 maggio 2010

La prova

Anche in una sola pagina di libro, in un breve passaggio, in un paragrafo, può accaderti quella strana coltre che ti strega e che ti trattiene, andando ben oltre le parole scritte e fermandoti l'occhio, il cuore e il pensiero, in una stessa e impalpabile dimensione sospesa. Quando questo avviene, anche in un solo punto, hai incontrato uno scrittore vero, uno dei tuoi, del quale sei tentato di conoscere altro, il possibile e l'impossibile che abbia scritto o detto dei suoi scritti e della sua vita che non sai, e non solo perché quella cortina si propaghi nella tua vita, ma perché ormai da quel solo istante ha conquistato la tua fiducia più intima e profonda, che ti porta a rallentare nella speranza che quella lettura non diventi un evento normale, ma si impregni di quella stessa sospensione accaduta e anche del possibile altro che può celare o promettere.
Non penso possa esserci altro modo per incatenare un lettore a un libro. E quando si scrive, fin dal primo rigo o dalla prima parola, uno scrittore deve cercare naturalmente questo seme. Come la prova sensibile del suo scrivere.
l.s.

domenica 16 maggio 2010

La finestra


È difficile rimanere a guardarti, quando ti sposti nella luce, senza che tu sappia. Guardarti senza poterti esprimere la mia volontà di sguardo, e rimando così la falcata dolce del tuo passeggio, e la pazienza delle mani nel tempo tra le parole silenziose che stai ascoltando, e che io non saprò mai. Sei troppo lontana e perduta, dalla mia finestra, avvolta nel drappo della luce bianca di Domenica, come in una nevicata. L'azzurro del tuo passo e un filo di voci che gridano: i tuoi gemelli nella corsa, dove cerchi di pilotare la testa, mentre il tuo accompagnatore continua a parlarti e tu cerchi di seguirli insieme, i tuoi figli e la sua voce, come un rigo di alba, colta nel sonno dalla sorpresa di perdermi, che forse non avresti mai previsto. La tua fiducia, adesso da questa finestra di certosa, velata da un ombrello di sole che schiudi piano dal peso che ti grava al polso, e i tuoi piccoli sono dei calabroni bianchi che adesso ti ronzano grassi nel sole, in attesa di pungerti di una carezza o di un bacio svogliato per la fretta del gioco. State proseguendo, io continuo a guardarvi. Stavolta l'ho fatta proprio grossa, lo riconosco in un giorno così radioso, ma continuo ancora a seguirti e a perdermi nel tuo buio, in qualsiasi giorno di luce. Adesso di spalle scorgo la cupola dell'ombrello e il passo dolce del tuo nuovo amico, che non tradisce ansie all'idea che tu non possa vederlo, ma almeno avvertire la sua voce che non saprò mai che cosa ti stia dicendo adesso, così come tu non saprai mai quello che sto guardando e che ho visto di te e che non avrai mai saputo della profondità di vertigine dei miei occhi su ciascuna parte di te e della tua vita. Potrei non averti mai guardata ma solo braccata.
In questo giardino adesso i gemelli sono di nuovo sciolti e sganciati, come i miei pensieri levrieri ciechi, vanesse disperse nello stesso bagliore delle undici, uccelli di passo. La più veloce è ancora Sofia, che adesso scivola. Io faccio un piccolo sussulto, la piccola ride. L'uomo non ti lascia, aspetta che la bimba si rialzi o forse un tuo segnale, che non posso percepire.
Sono troppo lontano. I bambini ritornano vicini, anche tu ti aggreghi e ti inginocchi piano, cercando di tastarle con circospezione il visino ancora spaventato e i piccoli pomi delle ginocchia, con le tue mani. Alberto alza lo sguardo, come se mi avesse scoperto. Forse vuole guardarmi per te, percepirmi nel taglio severo di un rimprovero, di una minaccia. Io penso di non essere visibile, ma fingo per un momento che quelli siano i tuoi occhi veri, almeno per un istante, sottratti dalle tenebre del loro destino, e dal mio.
l.s.

Foto di Daniela Fariello

sabato 15 maggio 2010

Scrivere...

Trovo giusto che bisognerebbe scrivere, lasciando in un lettore il profumo, e mai il peso, della propria eventuale cultura.
l.s.

venerdì 14 maggio 2010

Fanny nostalgie...






Fanny nostalgie
(Piccolo studio surreale in forma di fiaba, per una classe reale la III E del Liceo Braucci e alle piccole grandi speranze dei loro cuori scrittori)


La finestra ancora aperta nel reparto del secondo piano.
Di sera da quella finestra dell'ultima camera arrivava il vento, dove mi fermavo da circa un mese, e notavo le lenzuola appena arricciate e poi ricomposte quando da quel vento arrivava la notte, scavalcando lo steccato di quello strano respiro serale, con la maestria di un grande fantino francese che sterrava schegge di siepi e di guano, dentro spilli soffiati di stelle azzurre. E allora tutto si stellava, anche un po' nella mia vita così stramba. Fanny era l'ultima ragazza rimasta ancora lì, quella che appena la curva del cielo si faceva più ampia, interrompeva qualsiasi cosa e rimaneva a guardare. Il piccolo naso contro il vetro e quei suoi battiti smemorati, che sbagliavano tempi dentro il suo cuore scheggiato e sfortunato, ferito nella sua prima bellezza da una pioggia di inspiegabili infarti: il primo a sedici anni. Io, giovane clown volontario – portavo del clown solo il naso, e poi mai nient'altro - che tornavo dalla pediatria e ogni tanto mi fermavo a salutarla in chirurgia.
“Che cosa vedi adesso che fa buio, Matteo?”. La sua voce, così piccola e intensa che non mi aveva mai cercato e sorriso, mai prima di quella strana notte di sereno.
“Quello che vedi tu”.
“Tu pensi che siano proprio uguali le cose nei nostri occhi?”.
“Perché, tu pensi di vederne altre?”.
“Non lo so se sono più le stesse. Io penso che sia un po' troppo facile così”.
Mi feci più vicino e le guardai il dito che scendeva sul vetro e imitava la forma di qualche nebulosa o stella lontana dispersa in qualche altro mondo invisibile.
“Tu che cosa ci trovi, allora?”, le dissi a bassa voce, mentre il suo dito freddo adesso si fermava nella mia mano.
“La mia solitudine è lassù e non sarà mai la stessa tua, è tutto quello che vedo adesso”.
“Perché?”.
“Perché tu sei un pagliaccio che fa divertire i bambini e dentro i tuoi occhi di volontario, non lo so...le cose sono meno lontane e diventano un po' come risate, quando prendono la forma finta del tuo brutto naso, e allora io non ci arrivo più così vicino”.
“Come lo fai a dire?”.
“Lo dico perché lo sento, anche se poi non lo vedo neanche già più”.
“Alla fine, sai che siete proprio voi a renderci più felici? Questo lo sai, non è vero, Fanny?”.
“Davvero non ti mette tristezza stare qui con me? Proprio io che non ridevo mai e che non ti ho mai dato soddisfazione?” e continuando a guardare fuori, come nel vuoto di un dirupo.
“Di solito non ci penso mai a certe cose”.
“Guarda che buio lì fuori. Se arriva qualcuno poi ti mandano via, e poi, tu a quest'ora non hai nulla di meglio da fare?”.
“Non ho grandi compagnie, o almeno non belle come la tua”.
“Boom!”.
“È vero invece; perché adesso mi fai così?”.
“È perché mi devo operare al cuore domani; è solo per questo, vero?”.
A quelle sue ultime parole, ci fermammo entrambi, come se inchiodati dentro il maglio di uno stesso bacio.
“Non lo so perché a quest'ora sono ancora qui con te. È che vedi, non mi era mai successo prima di...”.
“Di?”.
“Non lo so nemmeno io se sia giusto, forse non ha molto senso, ma poi penso che non ci sia niente di male”.
“Di?”, insistendo con tono più deciso, ma senza ottenere risposta: allora mi guardava con un'aria smarrita. Il suo pigiama azzurro e corto, i piedi incrociati sul letto, nei suoi calzini arancioni. Morse un biscotto e poi me ne diede un pezzo.
“Tu sei fidanzata, Fanny?”.
“Che razza di domande che mi fai? Con tre infarti giovanili dove ce lo metto un fidanzato, eh? Brutto pagliaccio che sei!” e accennando a un piccolo sorriso nervoso e appena divertito.
“Immaginatelo lì, guarda, dove finisce il mio dito. Loro che ne sanno degli infarti”.
“Loro chi?”.
“Quei pesciolini di neve, che si accendono le code nel cielo e che adesso si stanno addormentando nei nostri occhi, che forse ti amo, e allora sono anch'io lassù con loro e più lontano”.
“Ma che sciocchezze stai dicendo, Matteo?”, la ragazza Fanny: che si fermò imbarazzata, fissandomi e poi alzando subito gli occhi con violenza, e spostandoli di nuovo fuori, in un attimo incantato di tristezza e di paura soffocante. Avvertiva che forse stesse avvenendo qualcosa di sbagliato e di impenetrabile, e così da quell'istante ci evitammo in perfetto contrappunto e con una riga uguale di cinereo e di dolore sui visi, la stessa tenebra nel suo broncio che mi si dilatava dentro nel contagio della sua nuova maschera, da non darmi più il tempo e quando poi non sapevo nemmeno più che cosa dirle, puntando nel buio quella stessa direzione di ansia, dove adesso ritornava a perdersi, come per un dispetto o per un grande castigo da infliggermi.
”E poi io non ne vedo nemmeno uno...”, adesso in tono più marcato e severo, sospeso e appena più sobrio nelle parole.
“Peccato”.
“Si è fatto tardi, Matteo”.
Il brutto pagliaccio che ero si tolse il naso e glielo porse, con indolenza. L'infermiera intanto arrivava teutonica nel suo bianco e con uno sguardo altrettanto severo, facendomi segno con piccoli rintocchi sul polso che era arrivata anche l'ora di andare. Ci sfiorò entrambi, con un'aria perplessa, che però sviò subito, senza soffermarsi. Ci salutammo con una grande e sconosciuta freddezza: il cenno stanco di un mio dito, senza dirci altro e spostando subito, Fanny, quella sua lunga ombra e svogliata di sguardo, il più lontano possibile da me. Lasciai di fretta il reparto, con un solco trattenuto di dolore e di nausea nello sterno. Una volta nel cortile il suo piccolo viso dal padiglione di cardiochirurgia, che mi guardava immobile sfocarmi e farmi più lontano. Rimasi a fissarlo ancora, e aspettando che si facesse ancora più tardi senza neanche deciderlo, forse per stancarmi o stancare ancora prima il suo volto quasi assonnato, che pareva essersi sporcato del mio stesso improvviso misfatto e forse adesso diventato ancora così serio e così adulto, in una volta sola e come non era mai stato, quando all'improvviso quella sua voce così piccola e sfumata che mi raggiunge a bruciapelo, in una tenacia così anonima, sfrecciata come dal taglio di un agguato di caccia:
“Forse saranno le stesse che vedo anche io. Tu che ne dici se io un po' ti credessi davvero?”.
Mi girai, stupito e commosso, ormai quasi senza più voce in gola.
“Che fai, non mi rispondi nemmeno più?”.
“Perché tu non ridevi mai? Non me lo hai mai detto”.
A quelle parole il cielo si spense di colpo, come se mozzato dal buio di un grande infarto imponente: rimanemmo a bocca aperta, senza riuscire quasi più a respirare: una pioggia di delfini azzurri e fumanti come comete improvvise, che scherzavano di scintille e tintinnii tra i satelliti e i pianeti, e dentro l'orgasmo di un'esplosione funambolica di lattimi e piccoli cristalli, su tutto il tratto di acquario notturno e infranto del cielo, che staccava di schiuma sul tetto dell'ospedale e che adesso solcava i nostri occhi soltanto, fino a spezzare un albero e le fleboclisi del reparto, nello schianto perfetto di una sua risata indimenticabile, dedicata alla mia vita caduta di peso dentro la sua. Poi tacque tutto di colpo; dopo la bellezza romantica di quel boato inspiegabile e soltanto nostro, che ormai era già sfuocato nella fretta di un ultimo spettacolo di provincia, e come se sventratosi nel salto mortale di un sogno.
Riprese a cantare il vento, dalla stessa finestra aperta del reparto, sulla notte più lunga e più dolce di Fanny. Il suo sorriso calmo e diverso, dentro i miei passi già lontani. Il mio naso di gomma dimenticato sul suo viso, nella dolcezza del primo sonno.
fine

l.s.










giovedì 13 maggio 2010

Narrativa di genere, cinema e regole del gioco. Jaume Balagueró

Non sarò mai troppo riconoscente al cinema per quanto mi abbia educato ai tempi, agli equilibri e alle luci necessari per l'uniformità e la coerenza di una storia. Anche, e forse soprattutto le opere di genere, sia narrative che cinematografiche, nascondono, se ben fatte e ben strutturate, delle regole molto ferree, una sorta di ortodossia a cui uniformarsi perché alla fine i conti tornino. Sin da bambino mi sono nutrito di storie e di fiabe, in molti casi interagendo direttamente e modificandole con la mia fantasia, in altri subendone il fascino del contagio per mesi, poi approdando ai contesti più elaborati, come quelli di di Henry James, soprattutto per l'impalbabilità delle presenze e della sapiente raffinatezza di stesura, e mi sono sempre accorto che una storia comincia a funzionare quando esiste al suo interno un grande cuore sensibile e narrante, ma anche una grossa saggezza di battito, di tempi e di luci, intorno al quale organizzare il cerchio perfetto di un orologio. Alcuni scrittori, forse perché troppo distratti da altro, o troppo presi da elementi idealizzati di un linguaggio che piaccia o che accontenti, girano digiuni da certe esperienze, spesso snobbandole,  perché lontane dal loro percorso stilistico o soltanto perché di genere, senza sapere che anche queste sono figlie dirette di un mondo letterario ed espressivo con una sua storia, altrettanto nobile e prezioso di contenuti per affinare il mestiere e la sensibilità di un proprio personale bagaglio; e  trascurando, a volte, l'importanza di alcuni procedimenti rigorosissimi che sono alla base, per esempio, di un horror ben riuscito e collaudato, che sia un film o un romanzo, perché tutti i pistoni del motore siano al proprio posto e in splendida forma, per ottimizzare al meglio i tempi, le dimensioni psicologiche (quelle più complesse da rendere credibili), l'abilità delle ambientazioni, i dialoghi (cruciali per qualsiasi scrittore e di qualsiasi genere; senza dialoghi buoni tutto comincia a stridere e a stonare) e di quel riflesso unico su un oggetto inquadrato in quel momento preciso della storia, attraverso cui la situazione può rapprendersi di un nuovo elemento vitale, che può diventare altrettanto funzionale a quel certo obiettivo estetico e artistico perseguito. Il narratore non dovrebbe buttare mai niente. Ho scoperto attraverso visioni ossessive di moltissimo cinema (la mia tesi di alta formazione, riguarda appunto "La musica colta nel fotogramma", in cui analizzo il rapporto  tra pellicole e strutture di opere sinfoniche preeesistenti, nelle loro modalità di utilizzo e di innesto, partendo dal Bach di Bergman e per arrivare allo Shining di Kubrick con Bartok e Ligeti) quante informazioni un qualsiasi scrittore possa assimilare e perfezionare da un qualsiasi lavoro di genere ben curato, dove le atmosfere psicologiche si equilibrino con le attese e la scansione di un ottimo ritmo di narrazione.
Penso molto alla musica, quando scrivo. Esistono delle regole fondamentali da conoscere e a cui sensibilizzarsi, che vanno conosciute e rispettate. Ecco un illustre esempio di come un impianto narrativo di genere, possa essere strutturato in modo ottimale, per quelle caratteristiche appena citate. Il trailer che segue è del regista spagnolo Jaume Balagueró. In questo suo lavoro, Darkness, riesce a conciliare molto bene un piglio di tecnica e di maestria da cineasta di razza,  con la cura più minuziosa delle situazioni psicologiche, elementi che a mio parere dovrebbero essere presenti nell'armadietto dei medicinali di ogni scrittore che si rispetti. Tra le sue prime pellicole ricordo anche Nameless, tratta dal romanzo di Ramsey Campbell
l.s.

mercoledì 12 maggio 2010

"Clair de bougie" : Deuxième

"Sarà stato il vento. Queste finestre ormai sono così vecchie, e piene di spifferi", quando Pierre ritorna con indolenza nel suo letto, ancora spettinato e frastornato dal racconto ancora caldo e sferzante  del cugino minore,  che adesso si  distende sul lettino di Sophie, che quella sera di vento ancora ritarda.
Il piccolo fissa il soffitto, pensieroso.
"Adesso come ti va, Gérard? Adesso che lo hai raccontato, ti va meglio, non è vero?".
Il viso di Gérard è fermo, orientato in basso e verso la porta, che  appena sfiorata dal bagliore della candela, subito riaccesa da Pierre, sembra molto più grande quanto minacciosa, nella sua sobria estensione di antichità.
"Voglio ritornare a casa. Domani parlerò con zia Isabelle. Da solo, qui a Camargue, io non voglio più dormirci".
"Avanti, che sciocco che sei, e poi non sei da solo, lo sai benissimo, ci siamo noi e quella grassona non la chiameranno prima di giugno o ancora più avanti. Basta pensare ad altro, o contare, o leggere un libro o ricordare qualcosa di bello che ti è capitato: tutto qui".
"Quando ritornerà la luce?".
"E chi lo sa! Hanno detto che forse provvederanno entro domani...oh, questa adesso sarà lei, ho sentito la porta dal basso. Sbrigati, scendi dal suo letto, presto! Altrimenti chi la sente, e cerca di sistemarlo, avanti!".
Gérard balza subito giù dal letto, seguendo impacciato le ultime istruzioni. Si avvertono già i passi rallentati e romantici di Sophie Fournier farsi più vicini. Forse avrà già preso la candela, che la signora Isabelle le aveva lasciato accesa all'ingresso, sul piccolo tavolino, quello marrone chiaro e intarsiato di decorazioni  e con dentro il piccolo carillon non ancora riparato.
"E adesso fila a dormire, capito? Salutala, se ti vede, e poi  ritorna subito in camera tua!".
"Ma io ho paura. Non è che ...".
"Che cosa? Fammi capire,  non vorrai forse rimanere qui con noi? E poi Sophie si deve spogliare e davanti a te...".
"Che cosa succede? Abbiamo ospiti stanotte?", dice  Sophie Fournier, varcando la soglia con la sua candela, ancora più viva e tenace dell'altra fiamma, come la sua figura dolce e più slanciata, non ancora stanca, nonostante l'ora, che lascia vibrare  nella penombra il plagio d'eleganza del suo ingresso, in una sorsata di cotone celeste e dalla sua pelle ancora serena, forse per i suoi ultimi baci nascosti o per il riflesso, nel suo sguardo vivace, di un'ultima corsa notturna e gridata con George, il fratello maggiore di Fanny. Molto radiosa e nobile nei tratti Sophie, la sorella più grande di Pierre Fournier, ormai autonoma e sempre così materna verso tutti i componenti della famiglia. Come una piccola giovane madre per ciascun Fournier, per la sua pazienza, il suo tono di voce sempre calmo e rassicurante, e quelle sue mani veloci di arpista, così lunghe e addestrate al fascino dei roseti potati e delle ultime siepi di confine,   quando stringeva a rassicurava dei suoi abbracci ognuno di loro, nelle notti e nei giorni, di vento o di tempesta, o anche in quelli di luce solare e marittima, dove organizzare passeggiate senza tempo lungo la Costa dell'Étang de Vaccarès, con le mani incrociate dietro e la testa sepolta nei cieli gotici di un pomeriggio tardi, in attesa della comparsa dei fenicotteri rosa, allo squarcio degli ultimi cristalli del giorno.
Anche il piccolo Dussier la sentirà così, quello così incerto e smanioso, che adesso si affretta, suo malgrado, a raggiungere la porta della sua camera, prima che l'altra si chiuda del tutto, oscurando il piccolo tratto obbligato di corridoio.
"E tu che ci fai qui? Hai cambiato stanza o cosa?", guardando poi subito il fratello, con tono appena ironico ma interrogativo.
Pierre le fa cenno con il capo di lasciarlo andare, senza insistere. Il piccolo Gérard le sta quasi accanto, quando Sophie lo coglie nella penombra, molto afflitto e spaventato, lo sguardo incupito sotto gli occhi,  o anche per la distanza del cono di luce, molto più delle altre notti. Lo sfiora con il palmo libero dal candelabro, giusto sotto il mento, mentre lui cerca ancora di sfuggirle con lo sguardo commosso e ansioso, di chi si prepara a ritornare in un luogo di supplizio, contro la sua volontà, quando non vuol farsi indovinare nello spavento del viso e vuole invece apparirle come un piccolo uomo coraggioso.

"Che brutto faccino che hai, Dussier! Sei sicuro che vada tutto bene?".
Il piccolo Gérard non riesce a guardarla e a parlare, quando allora interviene Pierre, con il suo tono sarcastico, ma ancora affettuoso.
"Si sogna sempre la grassa cuoca, quella che viene qui in estate. Se la sogna e allora prende paura. Non è la prima volta che gli succede! Se la sogna grassona e pure nuda!", riavvolgendosi poi nelle sue coperte e girandosi dal lato opposto verso la parete, sghignazzando appena.
Il piccolo Gérard è mortificato. Sophie allora posa la candela sul pavimento e si inginocchia di fronte a lui, per capire se si sia  calmato.
"Perchè ti fa tanto paura, la signora Luisa? E poi non si dice grassona e nemmeno cuoca, si dice Luisa, non è vero, Pierre? Dovresti almeno dare l'esempio, tu che sei più grande", virando con lo sguardo severo verso il letto del fratello, ormai coricato e girato.
"E non fingere di dormire, che ti conosco fin troppo bene!".
Poi, rivolgendosi ancora al piccolo Gérard, con un tono più dolce e sommesso:"Lo sai che io la conosco, e che è una donna  molto buona e anche molto brava in cucina? Allora, perché adesso non mi guardi? Sono diventata davvero così bruttina?".
"Sono i baci dei ragazzi, che la faranno diventare vecchia, all'improvviso!", dice ancora Pierre, coprendosi il viso stanco nelle lenzuola e con la voce incappucciata dal manto lanoso delle coperte invernali. "E poi io dormivo davvero, sono le vostre brutte chiacchiere!".
"Zitto, stupido. Che tu non capisci un bel niente di baci!".
"No, non sei brutta, è solo che io non volevo che si sapesse, era come un segreto!", continuando Gérard,
"Ah, adesso capisco. Era come un gran segreto tra te e Pierre, ma tu adesso non devi più preoccuparti, che io non lo dirò a nessuno, e se vuoi, parlerò personalmente con la signora Luisa e le dirò di non venire più ad importunarti. Dammi la mano, allora. Ti voglio dare la mia parola. D'accordo?".
Gérard riesce ad alzare appena lo sguardo  e incontra in un attimo tutta la gioventù della cugina più grande: forse, quella più dolce e la più bella tra tutte le donne giovani ma ben mature, del suo ramo parentale e della Provenza che gli davano quella ricreazione di dolcezza e di protezione, che in assenza di sua madre lo sfamavano, anche se solo per poco. Che adesso gli riscalda con gli occhi castani il cuore, facendogli dimenticare come per un incanto i sogni mostruosi e ricorrenti della grassa cuoca spagnola e delle sue chiatte mammelle viventi, dagli occhi di vetro e dai capelli infiniti e neri. Come una piccola madre ringiovanita nella notte, che è arrivata per soccorrerlo in tempo ed asciugargli il sangue dei cattivi pensieri.
"Le dirai davvero di non venire più da me, la notte? Me lo prometti, Sophie?".
"Certo. Io quando prometto, mantengo. E adesso me lo dai almeno un bacino, Gérard?", chiudendo gli occhi, nell'attesa.
Gérard le si avvicina piano, temporeggiando e cercando di non sbilanciarsi troppo in avanti, quando in quell'istante trilla il telefono. Rimangono tutti fermi, soffocati dalla sorpresa. Il bacio ancora sospeso di Gérard.
Pierre sobbalza dal letto, Sophie si alza e lo lascia digiuno della sua ombra e della sua guancia.
Si guardano tutti e due i fratelli, mentre dalla stanza della signora Isabelle, dove trapela ancora un leggero bagliore delle sue letture d'insonnia, si avverte l'unica sua altra voce femminile, che risponde con ansia.
Nessuno fiata. La signora Isabelle Fournier ascolta in silenzio, alla cornetta, la voce che ha chiamato, aggiustandosi i capelli da un solo lato e trascinandosi con una mano un lembo di vestaglia, dalla poltroncina accanto al suo letto, dove l'ha distesa.
l.s.

p.s.
Lo sviluppo di questo lavoro da questo momento continua nel privato dello scrittore. Saranno rese note, allo scopo tecnico di elaborazione delle personali modalità di revisione, queste sole due prime parti, quando arrivate al loro assetto definitivo di stesura.



martedì 11 maggio 2010

Sole d'autunno.

        Sole d'autunno.

La quinta finestra - contandola sempre al contrario, da destra - quella coperta dalle foglie, quella che non si vede, ma che si può solo immaginare, è quella dove studiavi e insegnavi l'amore per la vita dalle parole, da giovane laureato, delle belle lettere e degli acquerelli di Miller e delle grandi idee scomparse di grandi amori e di giustizia e di profondi segreti inviolati. Ma io allora ti odiavo e ti combattevo, con i pugnali sguainati del compagno cattivo e gli sguardi bassi, e quel continuo contrariarti e prendermi gioco della tua premura a insegnarmi la rotta di volo che ignoravo. Sono ritornato soltanto ora, sperando di poterla scorgere e farti lo stesso fischio del pomeriggio mancato, quando mi accorsi di averti ferito e aspettare ancora il tuo braccio o il tuo silenzio. Diventavo il tuo merl noir e ti screziavo ai gorgheggi in una parata di lusso nella grande malinconia di te. Ho sempre sperato che togliessi la penna dalla bocca e individuassi il mio ramo assolato, quando aspettavo la briciola di un ultimo sguardo, o di notte, quando le stelle cantavano al tuo sonno e le più lontane, in un ultimo accenno di stanchezza, alle chitarre sepolte nell'azzurro di Spagna delle lucciole di mezzo Giugno, prima degli esami, e se non ti affacciavi prendevo tempo e fumavo feroce da solo, che mi privava di luce il tuorlo del tuo ritardo, pensieroso fino al nocciolo stanco del mio cuore di ladro d'auto, spaccato alla sola tua voce d'ingresso, con il tuo cane la corsa della tua bambina dal cancello, che ti cercava, e che avevo minacciato come un drago, per quell'anno perduto e indovinato solo più tardi come forse il più prezioso, senza sapere che soltanto tu mi avevi difeso e pensando sempre di partecipare a una rincorsa, in quel tempo che non aveva durata ma solo uno spazio ampio di capelli già grigi e di visi imbruniti, dai tempi dolci della scuola, il tuo unico vero amore, quando mi sentivo troppo piccolo per raggiungere il vino adulto della tua parola, prima di salutarti, anche l'ultimo giorno, alla mia tristezza di volatile braccato dalla caccia della tua assenza, quando andasti a Lucca, senza un preavviso, -dicevano guai grossi con un figlio difficile- ma nessuno parlava e al tuo posto vennero i Bartolini, con quei bambini chiassosi che toglievano voce alle mie giornate. La quinta finestra, quella che ha preso il tuo stesso vezzo di scappare e di evitarmi, di svanire per giorni e di farsi vedere all'improvviso, quando sembravi ormai dissolto nell'ultima neve piovosa di febbraio. Non sono mai capace di affinare la vista, quando decidi che devono filtrarti le foglie alla severità dolorosa degli ultimi voti compilati e l'amore difficile per lo studio, che senza un professore come te io non ho più speranza di leggere e di sognare nelle parole, ma adesso hanno chiuso tutte le imposte e così anche la mia piccola segreta voce da un ultimo ramo spezzato, dove ancora immagino uno squarcio lunare di una tua lezione privata, prima che cali la sera sui nostri lenti divieti degli arresti domiciliari, sono sicuro che non ci crederesti, ma solo adesso ho comprato un mio primo libro, me lo hanno portato da poco i Carabinieri, quello che mi avevi consigliato tu: ho trovato solo stamane il foglietto con la tua grafia e solo adesso ne riconosco il valore così dedicato e il calco commosso del vuoto d'aria, dopo un giorno arioso di sole di autunno pieno, che adesso mi appassisce con lui, in quest'ultima dolcezza di ruga e di involo, alla tua piccola vita letteraria di  professore amico.
Un tuo scolaro innamorato, e perduto.
l.s.






lunedì 10 maggio 2010

Prove di narrazioni in bozze grezze: Clair de bougie.(I)

Il materiale narrativo che organizzo, di solito vive stagionature oscure, con modifiche, cesellature o tagli profondi che ne diramano il destino in più estuari nel tempo o in una morte lenta e rassegnata o a volte improvvisa, ma sempre in un contesto intimo e privato. Questa particolare struttura appena organizzata,  la vorrei invece codificare come pretesto per un piccolo laboratorio pubblico e non solo privato, in modo da responsabilizzarmi alle mie modifiche, ai miei ripensamenti, ai miei ritmi variabili di scrittura, ai criteri delle mie scelte e dei miei azzardi. Con questo incipit, cerco di ottimizzare subito due punti sacri dell'impianto: l'atmosfera delle luci e dell'attesa: cerco di realizzare senza troppo sforzo, un' immagine di luogo, intrecciandovi a ruota l'attesa di qualcosa, che comincia a sibilare e a inquietare con dolcezza il processo di lettura e la profondità notturna degli ambienti. Non specifico l'età dei ragazzi. Preferisco staccare sulla differenza di temperamento e sulla risposta emotiva alle sollecitazioni del contesto, più che sulla sottigliezza degli anni reali di vita. A volte, gli stadi emotivi e i singoli percorsi esistenziali, possono sorprendere e spesso anche tradire, oltre le dinamiche reali di tempo. Come in questo caso.

                                             Clair de bougie

Non riuscendo a dormire, Gérard Dussier è costretto a raggiungere nel buio della tenuta della famiglia Fournier, a Camargue, in Provenza, la stanza vicina di suo cugino Pierre, appena più grande di lui di qualche anno, a causa di uno dei suoi frequenti incubi notturni. Portando la candela, a piedi scalzi, lo sguardo veggente in un viso magro di pallori e intrisi di ansie, dal ricordo di fiabe nordiche e lontane, adesso ravvivate come fiammine azzurre da un piccolo paracenere di camino.
"Sei sveglio, Pierre?", gli dice, appena entrando: nel sussurro le sue parole confondono in dissolvenza il fumo lanoso della candela nel buio. Il silenzio della sua voce, nei suoi passi ancora incantati dall'oscura risonanza dell'incubo. Pierre dorme ma lo ascolta entrare e si fa desiderare sveglio, lasciandogli ancora l'incertezza tenera della sua assenza mimata, con un filo di sadismo adolescenziale o petit divertissement. Con mano tremante Gérard posa la candela sul piccolo tavolo, che chiude lo stomaco grigio di un vecchio finestrone da collegio, dove appare la sagoma tesa di un albero e di un pezzo di campagna lontana.
Rimane nella penombra, accanto al letto, a misurare il respiro del cugino.
"Sei ancora vivo, Pierre?".
"Che ti è successo? Non riesci più a dormire?".
Il volto di Gérard, adesso più disteso. Dall'esterno il canto chiuso e secco di un rapace, che ingoia lo scorcio di manto stellato nella  chiusa di un gorgo. Si volta impaurito, come per rimproverarlo.
"Ancora lo stesso sogno, Pierre. Non mi lascia più più".
Pierre ha richiuso gli occhi, ma adesso lo ascolta. Ha la bocca che sorride e gli occhi profondi che dormono.
"Mi stai sentendo o mi prendi in giro?".
"Più più...et porquoi il ne te laisses pas?".
"Che fai, non mi guardi nemmeno in viso, adesso?".
"Continua che sono qui. Ancora la grassa cuoca, che ti vuol cucinare come una piccola oca, vero?".
"Non è solo quello, e poi quella donna esiste davvero, è quella grassona spagnola che lavora in questa casa. Quella che viene qui tutte le estati. Io l'ho vista e lo so che fa certe cose, me lo hanno detto".
Pierre a quel punto apre appena gli occhi, sgrana uno sbadiglio e si riassesta. Sembra svogliatamente interessato.
"Avvicina la candela, che ne parliamo un po'. E vieni qui vicino, che sei tutto infreddolito".
Gérard come al solito obbedisce. Prende la candela e l'avvicina al tavolino più piccolo, che rasenta i due lettini, di cui uno solo è occupato.
"Tua sorella non è ancora rientrata. Come mai?".
"Forse...forse l'avrà presa la grassa cuoca, non si sa mai!".
"Stupido che non sei, così mi metti spavento. Che faccio adesso con questa?",  tenendo ancora la candela malferma in una sola mano.
"Come sei strano così. Non ti muovere. Hai tutta la luce che sale e ti lascia gli occhi di argento e il resto  color mezzanotte. Fai proprio impressione, sembri uno spettro.
"Color mezzanotte? Che colore è?".
"Quello rosso che spinge quasi al viola. Quando il cielo è gonfio, come un livido e manca l'aria e pare che ti schiacci e si abbassa sempre di più...".
"Che cosa mi schiaccia? Il cielo?".
"Con quel colore pare che si abbassi e che si inabissi dalla tua gola e ti mangi l'anima e ti arrivi al cuore".
"Sei cattivo quando fai così. E io che ero venuto per rifugiarmi. Adesso vado a svegliare la zia Isabelle e così le racconto tutto, ecco!".
Il viso magro e appuntito di Gérard è circonfuso dal piccolo emiciclo del solco illunato e fumante. Un'ansia profonda gli sbarra ancora gli occhi verso la fiamma, trattenendo il respiro in un ghigno che gli sforma il piccolo naso perfetto.
"Mettila qui, enfantasme, avanti, che adesso ti ascolto, non fare il bambino, che io gioco, lo sai".
Gerard prende coraggio, posa la candela sul piccolo tavolo e si accosta al letto, con un'aria più docile e fiduciosa negli occhi stanchi di paura, ma ormai senza più sonno.
"Allora, lo vuoi raccontare questo sogno?".
"Tu dici che mi passa se lo racconto a te?".
"Altrimenti perché sei venuto a trovarmi? Per parlarne o solo per svegliarmi?".
"Così, perché avevo paura e anche perché mi mancano mamma e papà".
"Oh, mon Dieu, che tenerezza, piccino mio. Siamo proprio nei pasticci, allora. Hai tutta questa nostalgia di casa, e per queste sciocchezze io dovrei sacrificare anche il mio sonno? Ma, dico..." e si frena in un lungo sbadiglio rassicurante, stendendo tutte le braccia e allungando le gambe da sotto le coperte, come due grossi serpenti  constrictor, affamandosi di luce e di spazio.
"Non sono sciocchezze. Dice sempre la mamma che la nostalgia è quella degli stormi che tornano la sera, e degli angeli e dei fantasmi dei morti da bambini che soffiano le piume delle stelle sulle notti. È una cosa ancora così dolce, e poi mi addormento in una sua mano, che è quella sua voce leggera che rallenta quando comincio a chiudere gli occhi e a non sentirla quasi più, e quando si spegne pian piano la sua voce, come se cantasse, nella luce di un lumino azzurro, quello che mi tiene appena caldo per le sue antiche fole notturne, e quando lei non c'è più, allora arriva la grassa cuoca bruna, e la mamma mi dice sempre il vero".
"La grassa cuoca. Ma lo sai che poi non è così cattiva? La scorsa estate ha preparato per tutti la panna cotta e anche le zeppole della Gianna e i biscotti caldissimi, ma tu eri a Dobbiaco, non c'eri. Perciò ne provi paura, perché non la conosci!", ridendo sprezzante, Pierre, e guardando la candela appena tremante nel buio della stanza fredda, che così pareva molto più grande.
"Sarà, ma tu non sai quello che fa nel sogno".
"Me lo posso immaginare quello che fa. Una grassa cuoca...cucina, no? Cosa altro può fare, Gérard, insomma! Ah, ah, ah", e cominciando a scuotersi nelle lenzuola, cercando  a tutti i costi di renderlo più inquieto e nervoso".
"Così mi fai dispiacere, Pierre. Io non l'ho mai fatto con te. Se lo fai ancora, io domani lo dico a zia Isabelle",
"Avanti, quanto la fai lunga tu. Non si può neppure scherzare. Sentiamo le prodezze della tua eroina, avanti. Giuro che non rido:
Gérard adesso si concentra, fissando il baluginare della candela, che lascia il loro cono illuminato  in una riga di crema inglese. Chiude gli occhi e comincia:
"Ero sceso che era già tardi, nella cucina. Faceva tanto caldo. Avevo sete e non vedevo nessuno. Sentivo la fiamma che grattava il fondo di un pentolone e solo quella luce lì. Non ricordavo i posti. Il pavimento a quell'ora era fresco. Mi avvio e cerco di raggiungere la fontana, quando la cuoca spagnola, con i capelli tutti sciolti e gli occhi grandissimi, mi balza d'improvviso davanti. Aveva sempre quel camice bianco e azzurro, tutto aperto e bagnato sempre di umido e di altre macchie brune di cucinato, all'altezza delle mammelle. Mi mette paura. Mi si para davanti, mette le due mani grasse ai fianchi e mi dice che a quell'ora i ragazzini come me devono stare a letto, e che nella sua cucina nessuno deve permettersi di entrare. Quando si interrompe, io le vedo il petto che tambura, come a tempo con  il suo cuore e poi avverto i grilli che ridono, dal finestrino aperto, come se ridessero di me, della mia paura del buio. Le chiedo, balbettando, solo un bicchiere di acqua, che sto morendo di sete e sono sudato. Ma la grassa fa un sorriso cattivo e comincia ad avanzare, senza darmi la possibilità di fuga, perché dietro di me c'è la parete con la porticina dello stanzino, che di solito è chiusa sempre a chiave. Retrocedo, cercando di sfuggirle lo sguardo, che è così cattivo.
"Adesso devi avere una punizione, piccolo malandrino. Eri qui per rubare, non è vero?", mi grida.
Non riesco a rispondere, ho la lingua che mi trema e poi i vapori del pentolone mi creano oppressione. Sento un odore di carne vecchia e il suo corpo grasso avanza. Sto quasi per piangere. Non ho la forza per chiedere aiuto, che nessuno mi crederebbe mai. Di giorno è sempre la più amata, la cuoca spagnola che cucina prelibatezze per tutti.
"È così che volevi bere, e non volevi rubare?", mi dice, quando ormai il percorso è finito e manca meno di un metro alla parete. Allargo le braccia, per misurare lo spazio, quando il donnone comincia a sbottonarsi il camice, dai primi bottoni, quelli di sopra, e mette fuori una sola mammella, grandissima, che ha dei capelli e due occhi di vetro e un becco  al posto della bocca, che si allunga e comincia a colpirmi, spicca verso i miei occhi e sui miei palmi, quando apro le mani per coprirmi, e poi viene fuori anche l'altra testa, con i capelli lunghissimi e un solo occhio di vetro, dall'altro c'è un buco con una lingua lunghissima che mi sfiora e si attorciglia e mi sbava sulla fronte e poi si diverte a entrarmi nelle orecchie e tutte e due emettono dei suoni tremendi, come dei rospi sgozzati. Così chiudo gli occhi, continuo a pararmi dai colpi con le mani e mi abbasso, sperando che non riescano a prendermi, ma i capelli cominciano a crescere, nerissimi e sempre più lunghi e mi prendono alle caviglie e mi legano anche i polsi e poi mi arrivano in bocca. La donna grassona ha la faccia tutta rossa, perché le teste dei seni quando si allungano le fanno male, e allora deve abbassarsi e seguire la loro inclinazione. Poi, allunga un braccio al pentolone ancora in ebollizione e raccatta due grossi pezzi di carne nera. Le imbocca, una alla volta, sgocciolanti di olio rosso e cattivo e per un attimo mi sembra di riprendere a respirare, perché adesso sono impegnate a ingurgitare, quando di colpo mi sento svenire e il suo viso adesso si avvicina ancora di più e aprendo tutta la bocca, mi dice: "Ho divorato la tua mamma, vuoi sapere adesso dov'è?", quando mi sveglio. Sudato e trafelato, come se stessi ardendo nel pentolone!".
Gérard si ferma. Rimane serio e tremante, con gli occhi stretti e chiusi.
Pierre non scherza più. Gli avvicina una mano alla sua più piccola e bianca, e cerca di fargli calore, perché la sente gelata.  Dalla finestra un fiotto bianco e sordo di ali, che  fa sobbalzare entrambi. La candela si spegne.
In quel momento bussano piano alla porta.
"Chi è?".
l.s.


domenica 9 maggio 2010

L'invitato (Prima bozza grezza)

"Dove andiamo?".
"Non lo so".
"A quest'ora mi prende sempre di pensare".
"A cosa?".
"Alle montagne da scalare ancora sul mio cuore e ai suoi dirupi".
"Perché dici questo?".
"Me lo fa sempre a quest'ora. Soprattutto dopo una festa così".
"Torniamo, che dici? Vediamo se è rimasto ancora qualcuno. Chissà se...".
"Se?".
"Può darsi che riesci a parlarle, che ci costa?".
"Non lo so, è che non sono riuscito a parlarle nemmeno un minuto, forse quella confusione".
"Vedrai che saranno ancora lì, semmai in pochi, con la notte nel cuore e negli occhi, lei avrà il suo golfino bianco sulle spalle magre dove appoggerai il tuo mento, quando scende quel fresco che le fa stringere le braccia e alzare le scapole e farti sognare,  chissà se in quei momenti, quando si è in pochi, e la musica è bassa come le luci, perché potrebbe disturbare, ma le parole, un po' in sottovoce...".
"Il compleanno più dolce sarebbe stato: ma  se solo mi parlasse, anche di niente, e così...se fossero ancora lì, tu scenderesti con me e aspetteresti, in sottoluce?".
L'auto, compiuta l'inversione, prosegue verso l'abitazione, sfavillante sulle loro teste una limpida coltre stellata.
"Guarda, è ancora tutto acceso, vedrai, vedo ancora diverse macchine ancora in fila. Nel viale non passeggia più nessuno. La senti la musica? Ci sono ancora, hai visto?".
"Che bella serata, però. Lo hai visto che cielo?".
L'auto attraversa i villini oscurati precedenti e si avvicina ai bagliori del numero 15, costellato dal velario di piccole lampadine di argento e da una musica sempre meno lontana di pianoforte, che sfila dalle finestre socchiuse e il gonfiore dolce delle tende come velieri soffusi e nell'ansia, e le ombre sfumate di coppie ancora strette e spaventate, che si perdono in un lento sfinito e appena ripreso, i lunghi  nasi spenti nei colli speziati da profumi francesi, senza un tempo: My foolish heart. Quando  la macchina è già ferma. Mezzifari.
I due sono a guardare ancora fuori. Rod è l'autista, Paul è l'altro.
"Guarda, che dentro hanno quasi spento; staranno ballando, forse in pochi, a lumi bassi. Perché non entri? Penso che sia ancora lì...probabile ancora da sola, sarebbe bellissimo, che forse non se lo aspetta".
"Non lo so, adesso mi sembra così strano, entrare e dirle cosa, poi? Che ho dimenticato...".
"...di amarla, forse?".
"Ma dài, ci pensi a cosa mi direbbe? Come fai a pensarle certe cose!".
"Avanti, scendi intanto, io ne fumo un'altra. Vedrai che troverai il coraggio, in fondo non vi siete mai perduti davvero, sei stato tu a essere sempre così difficile, come adesso, adesso che mi hai fatto arrivare fin qui, e nemmeno sai quello che vuoi!".
"Non ti ho fatto arrivare qui, l'idea è stata la tua".
"E perché diavolo pensi lo abbia fatto, per me forse? Cosa vuoi, che arrivi qualcun altro all'improvviso e te la soffi?".
"A quest'ora chi vuoi che venga più. È tutto quasi finito. Ci saranno solo persone che andranno via...".
"Allora potresti chiederle di accompagnarla a casa. Io vi aspetto in macchina e così voi due parlate un po', e tu la fai ridere, come sai fare e poi, poi puoi dirle anche di sua cugina, se Domenica si potrebbe organizzare anche con lei, cerca di fare il disinvolto, però. Non far capire che io sia troppo interessato, deve partire da te. Allora? Ti decidi o no?".
"Però adesso scendi anche tu, che ti costa?".
"Hai bisogno di me? Per parlare con lei, hai bisogno ancora di me, avanti, è mai possibile?".
I due si stanno per decidere, quando dall'interno avvertono un gran trambusto, un vociare, uno spostamento e anche la musica è interrotta di colpo. L'autista stringe tra le labbra la sigaretta ancora spenta, l'altro è ancora dentro, senza capire perché stessero uscendo alcuni così di corsa e concitati.
Uno degli invitati si scaglia in un auto e avanza in retromarcia verso l'ingresso, ma dall'interno una voce di donna, trafelata, che si sbracciava facendo segno di fermarsi. Un uomo grassoccio e di mezza età la raggiunge.
"Dicono di non toccarla! Arriverà un'ambulanza tra pochissimo, siamo riusciti a chiamarla, adesso rientrate, ragazzi,  vi prego, e cercate di fare spazio con le auto per l'ingresso del soccorso. Quella bianca, per esempio, ti ricordi di chi è?", e intanto l'uomo si avvicina al tipo che stava impegnando la retromarcia e che adesso ritornava al suo posto di prima. Per ogni lampadina si accendono diverse sigarette sanguinanti di tensione e di boccate corte, come lucciole di larve carnarie americane.
I due si guardano. L'autista Rod entra in auto, affanna.
"Ci sarà qualcuno che si sarà sentito male. Che facciamo?".
"Andiamo via, andiamo via, subito, per favore, Rod! Metti in moto e scappa, prima che qualcuno ci veda. Andiamo, quanto ci metti ad accendere, andiamo!".
"Andiamo dove? Voglio cercare di capire chi è che non sta bene. Aspettiamo qui, buoni buonini".
"Ti ho detto di andare via, per favore! Accompagnami subito a casa! Guarda che scendo e me la faccio a piedi!".
"Ti senti bene, Paul?".
L'autista mette in moto e si avvia verso il lato opposto. Ha il volto rabbuiato e pensoso. L'ambulanza li incrocia, a sirene spiegate. Paul si gira appena a guardarla, poi ritorna a fissare la strada, nel silenzio.
Raggiungono casa di Paul dopo circa mezz'ora. A quell'ora non c'è nessuno.
"Allora... buonanotte, Rod, e grazie ancora, lo stesso".
"Non è peggio adesso così, senza sapere?".
"Che cosa cambia?".
"Io non riesco a non sapere, quante ne saranno rimaste di ragazze, avanti. Non fare così, che cosa ne sai!".
"Ho detto: buonanotte, Rod".
"Perché non rimaniamo ancora un po' a parlare, non ti va più?".
I due si guardano. L'altro scende e si avvia al cancelletto verde, senza rispondergli. Apre con le chiavi. Entra nel cortile.
"La ami, Paul? La ami davvero, allora? Non me lo hai mai detto, parlavi sempre di tante cose, ma...almeno stanotte, potresti essere sincero, no? Almeno con me".
Paul non si gira più, ed entra dentro. Gli cadono anche le chiavi: le raccoglie con le mani tremanti, apre il portone e così sale di corsa, come in fuga da se stesso o incalzato da un'urgenza segreta.
L'autista Rod fuma la sua sigaretta, nella pace notturna. Una ragazza di quella stessa festa moriva a pochi chilometri per un'emorragia interna. Sua cugina  la copriva con il golfino bianco che aveva dimenticato dentro, per il freddo feroce di quella strana serata di ospiti galanti improvvisi, che le baciano le tempie e la gola, ciascuno dal suo punto  sfocato di osservazione: e prima di soffocarla in un abbraccio candente e lontano, come quell' invitato dell'ultim'ora, l'unico puntuale e non annunciato.
Lo stesso istante della sua ultima boccata. Gli occhi chiusi e la testa all'indietro, poco prima di ripartire, pensando a chi fosse rimasto di loro ancora lì:  semmai tra gli ultimi pochi invitati eletti, silenzioso e discreto, con quel glaucoma  notturno dilagante nel cuore e nell'imbrunire violento degli occhi.
Il pianoforte riprende, dalle tende ancora scomposte; sbiancando all'ultimo sobrio destino, the same song:  My foolish hearth.
Un cameriere libera gli ultimi tavoli del salone, i guanti ancora bianchi. L'enorme stanza della festa appena mozzata e trascorsa, è rappresa nella fosca patina di un'ampolla di calcedonio. Uscendo dalla sala, con l'ultimo lucente vassoio, l'uomo si sfiora lo sguardo all'interno di un enorme specchio a parete.
Spegne la luce.
l.s.

sabato 8 maggio 2010

Ragazza minuta con casa in rosa

"Perché non ti fai vedere più? Ti avrò forse fatto qualcosa di brutto che non so? Tanto l'ho capito che tu non mi vuoi più, dico una così piccola e minuta, sempre addosso. Come vedi ho aspettato ancora un po' prima di ritornare, è solo che avevo visto un cappello da uomo, l'altro venerdì e non ho resistito e allora te l'ho preso, anche se l'ho tenuto nascosto in attesa che tu ti ritrovassi e poi anche un libro, quello che cercavi e che non trovavi, che forse nessuno lo ricorda quel titolo di quel poeta strano e anche straniero che invece ho ricordato solo io, perché  tu me lo leggevi sempre, soprattutto all'inizio, e anche al telefono ti piaceva leggermi quei pochi versi che ti eri copiato da qualche parte, e quando c'era solo il buio e tu li continuavi da solo e un po' inventati per me che mi commuovevo e dopo a casa dovevo nascondermi gli occhi con qualcosa, e poi ti ho preso anche delle scarpe nuove, sai, perché l'inverno qui da noi si scivola sempre un po' di più, perché piove forte e le pietre delle strade si fanno sdrucciole sdrucciole, ti ricordi come ci ridevi?, come le mie parole "piccole" che non so dire e che adesso non ho quasi più e la tua ombra più fonda negli occhi, come nella nostra foto, una delle ultime, quando mi hai chiamato "minutina"e da allora non l'ho più scordato, e aspetta, aspetta, guarda qui che ti ho preso, non ho resistito. Ero con Paolina, lei lo ha preso per suo marito e io non le ho detto niente di noi, solo che tu ci dovevi ancora pensare e che vuoi stare un po' per fatti tuoi, e così ho preso questo maglione: dicono che voi avete la stessa taglia e lei rideva a pensare che erano gli ultimi due rimasti, e che se si usciva tutti insieme capitava che ci vestiamo uguali per coppie, perché anche noi due abbiamo preso quelle giacche azzurre azzurre, come quando tu non avevi più ombre e ragazze laureate e sofisticate che ti prendevano e ti pigliavano, anche se dici che non si può dire, io lo voglio dire perché ti hanno pigliato e basta e io lo so dire solo così. E non ho ancora finito: guarda qui, quel film americano che io non riuscivo a pronunciare mai bene, che non conosco le lingue e tu ci ridevi e allora quando l'ho visto ci ho pensato, ho ripensato a te e così te l'ho preso, ma pensa...dovevo non vederti più e adesso mi sono caricata di tutte sciocchezze da rompermi le braccia e la busta. In fondo è stato l'unico metodo per tenerti più vicino, a comprarti qualcosa anche se forse non lo metterai mai con me, e anche se fosse, chi lo sa, se un giorno una di queste piccole cose ti potrà riportare alle mie piccole follie. Mi dicevi sempre che tra le cose che ti sarebbero mancate di più di me, c'era quel sorriso sempre tagliato a metà, come un pezzo mancante di luna, che non lo distendo mai troppo e forse hai proprio ragione, adesso ancora di meno di prima e poi lo dicevi quando non immaginavi di poter scappare all'improvviso e non salutarmi più. Guarda che io me ne sono accorta che tu mi hai evitato più di una volta, e più non mi guardavi e io più ti volevo bene, e allora ti compravo un regalo speciale, per brindare alla bellezza di questo dolore soltanto nostro, che forse non avremmo mai più incontrato così dolce. 
Io non butterei niente di te, nemmeno questa tua fuga: si dicono ancora tante cose in giro, ma io ricordo i tuoi bottoni sbagliati della camicia a righe bianche e rosse e allora ti perdono. Io quando penso alle cose buffe che abbiamo fatto e che abbiamo perduto insieme, allora ci rido forte di te e ti perdono lo stesso anche se mi hai fatto un po' male come dentro un brutto film e mi consolo, anche se le cose che fanno male le riesco a cambiare, con la pettinatura per esempio. Quando mi hanno detto che tu passavi da me, Domenica, se non sbaglio, tanto io non mi sbaglio mai, allora ho fatto questo carrè che tutti mi dicono che sia così indovinato e carino, ma loro non sanno che è venuto così perfetto perché ho saputo lo stesso giorno che forse avevi già cambiato idea e che non saresti rimasto mai più nel mio e nostro piccolo paese, quello che prima tanto amavi e allora ho preso a spettinarmi tutta e a ridere da sola, prima di arrivare, anche se mi lasciavi sempre la mano quando vedevi qualcuno dei tuoi amici di città e io abbassavo gli occhi e non dicevo niente e ti amavo lo stesso e poi a casa mi toglievo i guanti rossi e mi rapprendevo al naso dell'odore delle tue mani e di quel poco di così grande che mi hai concesso. Dicono che tu avevi vergogna di me e che adesso non avrai più questo problema. Forse sono arrivata in un momento sbagliato, comunque ti lascio la busta con tutte le mie cavolate infilate a casaccio, a proposito ci sono anche i calzini, quelli un po' più stretti che non pendono dai talloni quando metti le scarpe basse, e poi...adesso ho finito, non riesco a dirti più niente, che se avrai un angolino in una sera qualunque della tua vita, ti ricorderai di tutto quello che ho tentato di darti, forse sbagliando tutto, ma era tutto quello che avevo. Non avevo un'altra me da offrirti. Anche se lo so che qualcuna è stata più veloce di me, e forse è giusto così, ma, ti prego solo di una cosa, almeno questa: dì a tua sorella che nel caso decidesse davvero di partire anche lei, dopo il vostro matrimonio, che mi lasciasse almeno un recapito postale. Almeno i miei regalini speciali vorrei farli a lei, fa niente, cercherò di giocare su combinazioni assortite, tanto avrei sbagliato lo stesso taglia se non colore, quando faccio i regali alle persone che amo di più, che in fondo sei sempre tu e nessuno se ne accorgerà.
 Ecco, adesso è proprio tutto, o quasi. Non seguirmi, però, non accompagnarmi, che la conosco bene la strada e lo so che tu non mi tratterrai e che mi dirai che non ha senso che io mi faccia così male e poi a spendere ancora soldi a vuoto, ma almeno da lontano,  vorrei che almeno alzassi il braccio da quella stessa finestra, come quella prima sera che ci perdemmo come due scemi e non riuscivi più a vedermi sparire che mi trattenevi con la mano e io allora ritornavo indietro e prese anche a piovere e mi raffreddai tutta, proprio come stasera, che sembra un anniversario di schiocchezze e starnuti, eccone un altro! Mi basta solo quel gesto e poi ti giuro che me ne vado, e allora io a casa ci torno più serena e loro non si accorgono di niente. Adesso va bene così, spero solo di non inciampare nello stesso gradino, che ormai ci ho perso anche l'abitudine...".
Uscì lentamente dalla casa rosa e vuota e si voltò appena. Cominciava a piovere e i vetri di quella finestra erano scuri e cupi come non mai. Riflettevano il gonfiore e la turbolenza dei cieli, che volsero al nero più antico nel vizio di pochi attimi. Continuava ad andare Martina, ma poi ogni tanto si girava, quando a un tratto ebbe l'impressione di scorgere da quella stessa finestra, quello strano gesto di mano che la richiamava indietro. Strinse gli occhi, pensando di essersi sbagliata. Ma c'era qualcuno lì dentro...La mano si aprì e continuò a chiamarla, dal vetro appannato.
E lei che ci tornava quasi tutte le settimane a riempirla dei suoi inutili regali, che aveva anche le chiavi per chi la volesse fittare, ma non la voleva più nessuno, che non era nemmeno più agibile. Ma allora c'era davvero qualcuno?
Entrò e lo vide. Aprì gli occhi e la bocca per lo stupore:
"E invece sei stata più veloce tu...Io non volevo crederci che tu avessi continuato ad amarmi anche da bandito come sono stato, e allora ho deciso di nascondermi e fare la prova...la prova di quanto fosse grande il tuo amore e di come facessi a portartelo da sola, così minutina, con tutte quelle buste, che scemina...e ti sei anche raffreddata!"
I suoi occhi chiusi erano fermi allo stesso punto e sotto la pioggia, quando arrivò in tutta fretta Paolina.
"Che fai da sola ancora qui! Vieni via che piove, dove guardi ancora: laggiù? Ma allora è vero che ti sei proprio ammattita? Avanti, fila a casa, stupidina, che è già tardissimo e adesso sta venendo giù di brutto, non te ne accorgi? E l'ombrello, perché non lo hai portato l'ombrello?".
"Ero piena di buste e pacchetti, non ce la facevo a mantenerlo".
"Ma dico: senza l' ombrello? Che tipo strano che sei: sempre dentro quella casa, ma che diavolo ci vieni a fare ancora? Dopo tanti anni, avanti, cammina, dove guardi ancora adesso? Tuo marito starà già a gridare come un pazzo, che lo sai bene che a quest'ora ha fame e tu ti volti, ti volti sempre indietro. Beata chi ti capisce...".
A quel punto Martina dovette andare via con lei, e continuare la strada del suo affrettato ritorno, ma ogni tanto si girava lo stesso, e cercando quella stessa mano così sognata e sospesa, immaginandosi che la trattennesse a restare. Ancora.
l.s.
Foto di Daniela Fariello

venerdì 7 maggio 2010

Senza mare

"E tu che cosa ci fai qui?".
"Sono diventata stanca".
"Così piccola, già stanca?".
"Sono stanca di tutto: del mare, del sole, di me e della mia vita. Voglio solo la tua piccola ombra e poi niente più".
"Ma cosa ci trovi di così bello in me,  barchetta più dolce di mare? Se io non ho luce ma la tolgo".
"E io non ho mare senza il rumore del tuo vento bellissimo e le tue braccia e le tue storie che mi allontanano dalla paura della notte".
"Tu pensi che ti lasceranno per molto qui? Una barca di mare sotto un alberello di terra e di radici?".
"Non lo so, ma questo per me non conta. Adesso non voglio pensare, voglio rimanere da sola con te...".
L'albero non rispose. Così si addormentarono più vicini, senza sognare dei taglialegna e nemmeno dell'uragano, ma tenendosi soltanto per mano. Senza mare ma già lontano.
l.s.
Foto di Daniela Fariello

giovedì 6 maggio 2010

L'ingresso rapido

Vorrei riuscire a entrare in ogni mio paragrafo, con la stessa tensione con cui stasera ho varcato un vagone della metro: a qualche secondo dalla chiusura della porta attiva. C'era un bambino piccolo, seduto vicino al padre, incantato per il mio balzo improvviso e puntuale, al millesimo. Così mi ha sorriso, dicendogli: "Ce l'ha fatta!".
l.s.

martedì 4 maggio 2010

Emilia Capra e il suo racconto sulle punte e tanto altro.

Oggi c'è distrazione. Credo che la distrazione sia una delle certezze più assolute che riscontro nei vari ambiti in cui mi imbatto. Si chiacchiera di talenti, come di tessuti, ciascuno è convinto del valore  di qualcosa o del suo esatto contrario, senza togliersi il disturbo di approfondirla. Come se quando ti imbatti in una sferzata di vento ti metti a calcolare la sua natura, il meccanismo di misurazione del nodo anziché alzarti il bavero. Ciascuna cosa viene indagata senza gustarsela. Si ragiona se ho indovinato un racconto per caso, per sete, per talento o per inerzia. E non si ascolta più il suono di quello che accade, e non si legge e si scrive senza conoscere chi sia Carlo Emilio Gadda e come tremavano i polsi al povero Garzanti e Lima con il suo Paradiso e tanto altro. Si misura, si ridimensiona quello che è più antipatico, si esalta tutto ciò che è più alla portata, spiegabile e meno misterioso. E si decide sul presunto o probabile e il talento, misurato male e non riconosciuto in così tanta nebbia, viene confuso con altro e rimane da parte.
Ciascuno è certo delle sue verità e intanto la scala Mercalli per la sismicità di un manoscritto sulla tovaglia imbandita e ventilante dei mercati, continua a stagliare i suoi referti, con l'ago ben teso a una nuova ortodossia di condotta delle parti. Ciascuno scrittore assimila a menadito la sua parte con il cucchiaio d'argento di sciroppo di mirtilli, ben teso ad imboccare lettori pigri e televisivi, case editrici che conoscono le regole e le sezione auree di ciascun paragrafo e proclamano la chiarezza, la compatibilità con un ideale assoluto di percepibile, di assimilabile  di commestibile. E intanto così ci si perde, dietro i ruoli, le vetrine, le verità decise e non sentite, gli stormi di scrittori improvvisati come apneisti della Domenica che confondono Henry James con un giocatore di baseball e "il Pasticciaccio" di Gadda con una vecchia ricetta dell'Artusi e la paraipotassi con una patologia ossea e la "Recherce" con la marca francese di un profumo (giuro che non sto scherzando!), blindandosi ostinati nelle loro regole, negli assiomi, nelle verifiche di tutto quello che abbia un valore e contro quello che invece è troppo involuto, difficile, ostico e ci si dimentica delle cose che possono incantarti e stupirti. Tutta una questione di musica. Per scrivere e leggere e per occuparsi di scrittura c'è bisogno di una risonanza nella propria vita, di un campanaccio di gregge nel silenzio e non di un calcolatore. Come sarebbe bello, anziché avvertitre storpiata dalla suoneria di un cellulare la sinfonia n. 40 di Mozart,  avvertire la freschezza di un campanaccio che ci renda più umili e più delicati e sensibili verso tutto quello che ci accade e che a volte non si spiega, senza motivo o movente. Senza distratti resoconti ma solo con assorti incanti.
Io mi occupo di letteratura per maledizione e perché avrò forse gli strumenti adeguati per farlo o ancora per sbaglio, o perché  non lo so e non mi interessa saperlo. Ma lo faccio con onestà, senza gridarlo e dando lo spazio alle persone che sento e non a quelle che credo meritino di averlo per una regola geometrica di ingressi al blog o di verità presunte o ingurgitate.  È per questo che sono orgoglioso di dedicare questo post a un racconto profondo come è quello di Emilia, che mi è capitato per caso tramite la mia amica Daniela Fariello, tra tanti scritti e mi ha fermato e dirottato, difendendomi per tempo dalla corsa cieca verso le verità assolute e preconfezionate. Mi ha inventato e suggerito una nuova chiave di lettura, senza grida, quella di una ragazza di liceo che scrive nel silenzio e non fa rumore. Leggevo con grande attenzione, senza barricarmi nel giudizio e mi accorgevo che la letteratura è soprattutto questo, capacità di incantamento alla sonorità e alla risonanza di un pensiero di vita. Alla sua età ero un demone,  sconclusionato, che scriveva romanzi dell'orrore, scritti di stomaco e con le narici fumanti e i capelli davanti agli occhi, e mi perdevo dentro la mia nebbia capace e naturale ma senza capire.
E invece Emilia scrive come un ballerina di  danza classica di faccende profonde e delicate, negli anni dolci e difficili del suo liceo  e io la leggo nel silenzio e la diffondo così, senza titolo, perché scrive e incanta, come farebbe nelle sue prime luci, una ballerina sulle punte.
l.s.

Il racconto di Emilia Capra. (III E Liceo Scientifico Braucci)

Era bello ogni giorno svegliarmi, indossare quella divisa e scappare da loro. Loro che erano diventati tutto per me, erano la mia unica speranza, il mio rifugio da quel mondo che aveva perso ogni colore.
Entravo in quella struttura ormai consumata dal tempo, dove anche il bianco dell’intonaco era diventato di un opaco angosciante, ed era stupendo trovarli tutti lì ad aspettarmi, bisognosi di affetto, di attenzione e di amore.
Alcuni dicono che da loro non si riceva niente, che sono solo degli scherzi della natura incapaci di apprendere.
Io non l’ho mai pensata così, ho sempre sostenuto che questi bimbi sono speciali nella loro diversità, che sono capaci di trasmettere emozioni più di qualsiasi altro essere umano e che il loro handicap sia solo quello di essere diversi dagli altri, non nel numero di cromosomi, ma nel fatto di aver deciso di vivere in un mondo diverso, in un mondo loro, dove non è importante apparire, ma essere.
Era una gioia immensa stare tutti i giorni al loro fianco, aiutarli a comprendere, a farli sorridere, a cercare di dargli un pizzico di normalità. Quella che per noi poteva essere definita tale, secondo i nostri canoni, ma non secondo i loro.
La loro normalità risiedeva nel sorridere senza sosta, nel farci diventare matti, ma soprattutto nell’essere loro stessi.
Noi dottori eravamo il loro strumento per essere ciò … Giocavamo con loro, ridevamo con loro, ma soprattutto li amavamo come se fossero l’altra metà di noi stessi .
Era assurda la gioia che trasmettevano … Era bellissimo sapere che, nel loro piccolo, su di loro ci potevi contare realmente … Era stupendo come anche i piccoli gesti li rendevano felici.
Questi bimbi erano la parte dimenticata di un mondo che cadeva a pezzi, che ogni giorno perdeva la fiducia in quei valori ormai persi da tempo.
Questi bimbi erano e continueranno ad essere la mia più grande soddisfazione ed ho deciso di farli ridere, di dargli amore anche oggi.
Anche se fa male, anche se mi si spezza il cuore al solo pensiero che oggi sarà l’ ultima volta che attraverserò la soglia di quell’ edificio ormai consumato dal tempo, dove anche il bianco dell’ intonaco era diventato di un opaco angosciante, ma reso vivo dall’ amore per la vita di questi bimbi stupendi!
Ho appena parcheggiato l’auto nel parcheggio, sempre al solito posto ormai da sei anni.
Entro nella clinica e, come ogni mattino, la piccola Giada mi rincorre per poi attaccarsi ai miei pantaloni e camminare insieme lungo il colorato corridoio.
Raggiungo la stanza ricolma di giochi dove se inseguono felici Luca e Marco. Li sorprendo mostrandogli le ultime card del loro cartone animato preferito.
Saltando mi raggiungono ed urlano gioiosi per questo regalo inaspettato.
Nascosta in un angolo c’è lei, la dolce Sophie.
Sophie mi ricorda tantissimo la mia principessa, Alice.
Solo al suo ricordo sento la nostalgia, mescolata ad un lago di dolore, salire fino al cuore per poi pungermi gli occhi con dolci lacrime amare.
Alice era mia figlia. E’ morta sei anni fa a causa di un pazzo ubriaco che ha attraversato col rosso…
Ricordo ancora quella telefonata…
Ero a casa, pronto per uscire, mentre odo lo squillo del telefono… Sento ancora la calma, ma allo stesso tempo agitata, voce del poliziotto che mi avverte dell’accaduto… Sento ancora il tonfo della mia ventiquattro ore che cadeva lentamente, come l’ultima foglia di un albero che è stato abbattuto da un veloce inverno omicida…
Il tempo sembrò fermarsi, aveva deciso che i suoi secondi dovessero trascorrere lenti, così da farmi memorizzare ogni dettaglio.
Tutto in quell’istante mi riaffiorava alla mente: i giochi con lei, le sue dolci risate e il suo viso angelico… E il dolore, improvvisamente, mi lacerò il petto come una rosa stretta in un groviglio di rovi, quando apparve davanti ai miei occhi l’immagine che la mia mente rifiutava di ricordare: il corpo della piccola Alice coperto da un bianco lenzuolo…
Ancora stordito dal ricordo, raggiungo la piccola Sophie e la porto al petto per stringerla in un abbraccio.
Già so che ciò che mi mancherà di più di tutto questo è lei…
Lei così piccola e fragile… Lei così indifesa… Lei così dolce… Lei che, grazie alla sua testardaggine e timidezza, ha rapito i cuori di tutti i medici della clinica…
Ora è giunto il momento di salutarli!
Ho deciso di non usare la parola addio, l’ho sempre odiata.
Non abbandonerò questi cuccioli, non sarà una stupida malattia a farlo… Ritornerò!
Forse ci vorrà tempo, ma ritornerò a prendermi cura di loro più deciso che mai!
Emilia Capra

Appunti serali: ore 19:00

Qualche sprazzo di ansia delle sette di sera nel vociare di bambini dai balconi. La fame o una nuova sera nei cuori. Si allontana un pallone.
l.s.

La paratassi e l'ipotassi

Esistono due approcci fondamentali nelle scelte di costruzione del periodo. Ciascun buon narratore dovrebbe almeno conoscere l'esistenza di certe modalità sintattiche, che gli consentono anche maggiore libertà e coscienza del suo stile, della sua eventuale maturazione, delle sue preferenze. Questi due elementi di approccio hanno anche una certa incisività sul ritmo inferto alla storia.
Partiamo dalla paratassi: nella paratassi il periodo è costruito secondo una logica di accostamento delle sue proposizioni, che rimarranno quindi del tutto indipendenti. In questo caso abbiamo una limpida "coordinazione" e tutti gli elementi utilizzati si trovano allo stesso livello. Tutto questo comporta delle varianti sensibili al ritmo.
Un esempio: Sta arrivando. Gli vado incontro. 
Sta piovendo. Prendo l'ombrello.
È anche più asciutto e più incisivo il periodare.
Nell'ipotassi avviene l'esatto opposto, dal momento che alla coordinazione di due elementi, troviamo una netta subordinazione, un vero e proprio assetto gerarchico tra le parti in causa. Il termine ha origini greche:
hipótaxis= dipendenza da hipó= sotto e taxis= ordinamento, in questo caso ritorna la dipendenza da una reggente e quindi è subordinata. Le cose cambiano e non di poco, quando io dico: Poiché o dal momento che loro stanno arrivando, io gli vado incontro. Il ritmo risulta  meno veloce, il tutto si articola secondo una concatenazione di livelli diversi, che portano a un effetto visibile di dilatazione e di rallentamento.
Esiste ancora una terza strada, forse più complessa,  ma da me molto amata perché usata anche dai Crepuscolari e da Guido Gozzano: la paraipotassi. In questo caso nella costruzione, pur mantenendosi le caratteristiche di struttura dell'ipotassi, l'introduzione alle subordinate avviene "per mezzo di elementi prori della coordinazione" come le congiunzioni. Una sorta di mirata e ispirata ibridazione che apre una terza strada di possibilità: "Ed ora, o vecchio, e sazi la tua fame/sulla panca di quercia..." (Guido Gozzano: L'analfabeta)
l.s.

domenica 2 maggio 2010

Appunti di mezzanotte

I tuoi capelli lunghi, come l'attesa di una resa o di un treno.
La possibilità del tempo e della fiamma, quando sei ferma.
l.s.

sabato 1 maggio 2010

La scrittura di mia madre: "il cuore pieno" e la mia vita

Parlo di rado di mia madre e della sua scrittura. Conobbe mio padre a un balletto a casa di amici e si innamorarono parlando di scrittura, delle loro poesie, e guardandosi appena negli occhi, con la musica che suonava e le finestre aperte. Parlo di rado di mia madre perché ha i miei occhi e forse ne parlo quando scrivo o quando rinuncio a scrivere o quando rimedio o sbaglio o correggo o dormo, quando mi manca il respiro, o tiro il fiato o in una Coca Cola ghiacciata in una notte estiva, o in una morsa di insonnia e di malinconia e quando mi guarda di sera e mi aspetta, ma ancora di rado. Perché la amo. Eppure lei ha cominciato un suo libro parlando di me:

"Il nostro bambino nacque alle sei di una giornata di maggio. Il travaglio era stato lungo, una notte intera. Quando mi riportarono in camera ero sfinita. Volevo raccontarti tutto, nei minimi particolari, ma non ne avevo la forza. "Stasera ti racconterò tutto, o domani. Sono tanto stanca". Non avevo neanche la forza di essere felice.
Era passata una settimana dal parto, quando mi sentii male all'improvviso. Tu eri vicino a me, come al solito. "Ho voglia di gridare", dicevo. "Ho voglia di gridare". E tu "Grida, grida, ti farà bene".
Venne il medico di turno, mi fece un'iniezione, ma si trattava di qualcosa di grave; non potevo trattenermi lì, dovevo essere ricoverata in una clinica per malattie nervose.
Mi portarono via all'alba del giorno dopo. Avevo addosso un cappottino di velluto azzurro, che tu non volesti vedere mai più, quando fui guarita. Me ne andavo senza il mio bambino; lo lasciammo lì, nel nido della clinica, per altri venti giorni.
Seguì una parentesi buia in cui pensai a lui solo di tanto in tanto [...] La clinica era circondata da un giardino molto grande; c'erano tanti viali verdi, pieni di alberi, con tante panchine".

Giuliana Rispoli da "Il cuore pieno" E D - Edizioni Dehoniane 1985

Chi è lo scrittore?

" ‘ Chi è lo scrittore?’, rispondendo senza remore: ‘Quando esce un libro lo scrittore già non c’è più. Da quel momento in poi il libro è solamente vostro, dei lettori’.".
Abraham Yehoshua: Auditorium di Roma 27 Marzo 2010