martedì 14 dicembre 2010

La magia di Eugène Ionesco

Sto letteralmente divorando il teatro di Eugène Ionesco. È stata una vera e propria folgorazione. Nella sua scrittura e nel suo interessantissimo apparato creativo, (così ragionato, chiarissimo, nonostante la connotazione sull'assurdo che lo ha rivelato un maestro- e forse soprattutto per quello ci vuole grandissima chiarezza e limpidezza nella struttura) una serie di preziose e gustose informazioni, che vanno dal linguaggio nell'azione profonda del dramma e delle sperimentazioni, a considerazioni molto taglienti e originali sulla vita, sulla concezione dell'arte, del teatro, della letteratura. Fin dalla prima commedia, ne sono uscito sazio e ritemprato, come dopo una lunga passeggiata solitaria e invernale possibilmente domenicale, a tu per tu con le mie concezioni personali sull'arte delle parole, vissute o assimilate nel tempo da esperienze, episodi incidentali, insicurezze, luoghi comuni, ripensamenti o cattive compagnie. Ma Ionesco è una delle migliori compagnie augurabili. È un compagno ottimo, non buono. Per me lo è stato e continuerà a esserlo.
Ho avvicinato Ionesco da una prospettiva puramente letteraria, senza considerarne esclusivamente le dinamiche di trasposizione dei suoi lavori. L' ho letto di un fiato, come potrei leggere un Mann, un Miller, un Cendrars, un Kosinski. Non penso al teatro, ma alla letteratura. Pura. I suoi testi ribollono, balzano, affascinano, incantano, toccano e stradivertono, fin dalla prima pagina, lasciando immaginare e rievocare altre situazioni, altre reali e possibili assurdità dell'esistenza, che alla fine, come disse in una sua intervista, è assolutamente  assurda. Credo di non aver mai riso tanto di  fronte a un testo, come ho riso leggendo e rileggendo, mai sazio, l'Anti- commedia "La Cantatrice calva", meraviglioso affresco dalle risorse ritimiche indovinatissime e pregevoli, la freschezza sferzante dei dialoghi, delle situazioni, dei personaggi, del loro delirio di comunicazione e di parallela incomunicabilità, o intercambiabilità e dell'imprevedibile, che si sussegguono ad arte, senza lasciare il tempo per riflettere su come sia spiegabile una certa situazione, che subito arriva la successiva, con le sue nuove scintillanti trovate. Ionesco ne "La Cantatrice calva", ti siede a tavola, tra il Signore e la Signora Smith, e il Signore e la Signora Martin, lasciando che la tua testa si muova con naturale dolcezza tra i dialoghi, gustandone l'assurdità e anche la poesia necessaria e chiarificatrice del tutto, senza mai annoiarti. Non credo di essermi mai distratto affrontando uno dei suoi testi. Nemmeno per un attimo. Mi è riuscito impossibile. Come sentii dire da Spielberg, riguardo i film di Kubrick "I suoi film hanno la sicura", mi sento di riportarlo su Ionesco. Una volta dentro sei chiuso, non ne esci più. In qualche modo ti prende e non ti lascia. 
Un altro testo grandioso, che mi ha davvero catturato e al quale penso di continuo, in particolare per il discorso finale di Ionesco è "L'improvviso dell'Alma, ovvero Il camaleonte del pastore", con riferimenti a L'impromptu de Versailles, dove Molière sviscerava la sua idea e le sue concezioni fondamentali sul teatro. Qui Ionesco imbastisce una situazione molto originale e ben riuscita, in cui è proprio il personaggio con il suo cognome, a dover sopportate consigli, stratagemmi, filosofeggiamenti, inquisizioni e dirigismi, da tre infestanti Bartolomei (Bartholomeus I, II, e III), che cercano di criticare e indirizzare i suoi sforzi creativi verso una serie farraginosa di verità superiori, che frastornano il povero Ionesco, vittima di quell'improvvisa e devastante invasione, che lo coglie in corso d'opera, proprio mentre era intento a lavorare a una sua commedia.:

Bartholomeus I (a Ionesco) Lei è imbevuto di false conoscenze.
Bartholomeus II  Non gli piacciono che le cose stravaganti.
Bartholomeus I (a Bartholomeus II e a Bartholomeus III, mostrando Ionesco) Il suo spirito non è stato convenientemente indirizzato.
Bartholomeus II  È stato deformato.
Bartholomeus III  Bisogna raddrizzarlo.

e così via, avanti in una caleidoscopica fiammata di obblighi, doveri, consigli, che cominciano a scardinare anche le loro stesse buone-cattive intenzioni di risanamento dell'artista-autore, intrecciandosi all'infinito, in una serie di piccoli urticanti tasselli, precisazioni, divagazioni. Il caos.
Ma una volta giunto il momento in cui Ionesco prende la parola, e sgrana il suo canto di ribellione, così liberatorio e sanguigno, contro le convenzioni, le rigidità, i dirigismi, le contorsioni intellettualistiche e tutte le relative chiusure, rispetto alle dinamiche naturali quanto oscure di un percorso creativo, (La critica deve essere descrittiva, e non già normativa), e allora davvero ci si rapprende di uno stato di beatitudine, si afferra con mano quello che a volte sfugge,  e rimane adombrato solo sulla punta flebile di pensieri che a volte rimangono tali e mai detti. Ionesco invece afferra la questione  per il polso, senza tentennare, e schiarisce la voce, dopo una bevuta d'acqua, dissetandomi con lui di una delle pagine più sferzanti e significative che mi siano mai capitate di incontrare, di vivere e di amare.
Credo che almeno il monologo finale di Ionesco ne "Il camaleonte del pastore", andrebbe trascritto con cura e affisso sulla parete dello studio di molti scrittori, editori, critici ed operatori del settore. Essendo ben certo, che possa sintetizzare e rappresentare una sorta di indispensabile manifesto letterario, senza tempo.
l.s.

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